* Vera Pegna Palestina: una realtà che ci riguarda
Palestina: una realtà che ci riguarda
Tratto da: Adista Documenti n° 34 del 07/10/2017
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La Palestina non fa più notizia, né intesa nella sua
accezione minima, ovvero i territori occupati dallo Stato d’Israele nel
1967, né nella sua accezione storica, ovvero la Palestina mandataria del
pre-1948, oggi suddivisa tra Israele che ne possiede circa l’80% e la
Cisgiordania e Gaza cui rimane il restante 20%. Neppure fa notizia la
situazione, ormai al limite del collasso, di Gaza – la cui densità
demografica è la più alta del mondo – nonostante il fatto che, per il
coordinatore umanitario dell'Onu nei Territori palestinesi occupati,
Robert Piper, se l’Autorità nazionale palestinese (ANP) e Israele
dovessero permanere nelle decisioni assunte di limitare la fornitura di
energia elettrica a due ore al giorno invece delle 4 attuali, la
situazione nella Striscia diventerebbe catastrofica. Tale tragica realtà
si aggiunge ai tre interventi militari israeliani degli ultimi sei anni
e al blocco economico degli ultimi dieci. Dal 2007, infatti, le
esportazioni dalla Striscia di Gaza sono state vietate, per cui sono
ridotti agli sgoccioli le importazioni e i trasferimenti di denaro. Le
infrastrutture sono sempre più degradate, in particolare quelle di base,
come elettricità e acqua potabile, e ai gazawi non rimane che prendere
atto del graduale crollo dei servizi essenziali come quelli
igienico-sanitari, l’erogazione dell’acqua e i servizi comunali.
Ma qual è il futuro politico che si prospetta per Gaza? Farà
parte dell’ipotetico Stato palestinese nel caso si realizzi l’opzione
“due popoli due Stati”? Sarà abbandonata a se stessa, oppure farà parte
dello Stato unico per israeliani e palestinesi? Attualmente, la sola
informazione chiara è che, per una minoranza non piccola degli
israeliani, lo Stato unico significa l’annessione della Cisgiordania in
maniera che, una volta che i palestinesi siano diventati cittadini
israeliani, si smetterà di parlare di territori occupati; mentre per
altri l’opzione dei due Stati significa uno Stato in Israele e l’altro
in Giordania, dove mandare i palestinesi con le buone o con le cattive.
In quanto a Netanyahu, si è dichiarato disposto a concedere ai
palestinesi unicamente uno State minus, cioè qualcosa di meno di uno
Stato.
Per la verità, cinismo a parte, Netanyahu non ha tutti i torti
visto che, se dovesse passare l’opzione dei due Stati, la situazione sul
terreno, dopo 50 anni di occupazione e accaparramento di nuovi
territori da parte di Israele, non consentirebbe altro. Certo non la
costituzione di uno Stato sovrano, dato che la Cisgiordania è priva
della continuità territoriale necessaria a formare uno Stato,
frammentata com’è da una complessa rete stradale – il cui transito è
vietato ai palestinesi – appositamente concepita per collegare le
colonie israeliane; senza contare la totale dipendenza da Israele per
l’acqua, l’energia, la rete di telefonia mobile, gli aeroporti, ecc. E
Gaza, devastata, e con la sua popolazione ridotta alla fame, rimarrebbe
totalmente tagliata fuori. Insomma, uno State minus a tutti gli
effetti.
Eppure, in particolare dagli accordi di Oslo degli anni '90,
l’opzione dei due Stati continua a dominare la scena internazionale,
nonostante si tratti di una non-soluzione che avalla la cinquantennale
politica espansionistica di Israele, copre le innumerevoli violazioni
dei diritti umani e del diritto internazionale compiute dai suoi governi
e nega ai palestinesi il loro diritto a uno Stato sovrano; dunque una
non-soluzione – ignobile sul piano morale e politico – che rientra nelle
mire geostrategiche delle grandi potenze sulla regione e assicura un
futuro fruttuoso a chi lucra sui conflitti. Una non-soluzione resa
accettabile all’opinione pubblica occidentale dalla martellante quanto
perniciosa propaganda sionista che, complici i media, riesce, travisando
e occultando la realtà, a rappresentare gli israeliani come vittime e i
palestinesi come terroristi e accusa di antisemitismo chiunque osi
criticare Israele. Ligio a questa linea di pensiero, il 15 luglio
scorso, durante una visita in Israele, il presidente francese Emmanuel
Macron ha espresso la necessità di combattere le espressioni
antisioniste e anti israeliane le quali, a suo giudizio, costituiscono
un nuovo tipo di antisemitismo (Haaretz, 16/7) e non ha mancato di
ribadire che l’unica opzione possibile per un futuro di pace è quella
dei due Stati.
Che tale opzione abbia l’appoggio dell’ANP non sorprende, poiché
la dirigenza palestinese sopravvive grazie agli aiuti economici
occidentali con i quali assicura posti di lavoro a decine di migliaia di
soldati, spie, agenti di polizia e funzionari pubblici. Che tale
opzione fino a ieri sia stata sostenuta dai governi israeliani è
comprensibile, poiché ha lasciato loro mano libera per espandere il
proprio territorio e per assicurarsi un controllo sempre maggiore sulla
vita dei palestinesi in modo da rendere impossibile la costituzione di
uno Stato palestinese sovrano, mano libera servita altresì per compiere
criminali bombardamenti su Gaza e violazioni infinite del diritto
internazionale a danno del popolo palestinese, grazie al silenzio
complice dell’Occidente.
E l’adesione incondizionata degli USA e dell’intero Occidente
all’opzione “due popoli due Stati” a cosa invece è dovuta? Penso sia
sufficiente osservare la devastazione/trasformazione del Medio Oriente
degli ultimi decenni per capire come sia in atto una strategia di
ridefinizione degli assetti geopolitici dell’intera area, strategia che
ricalca il Piano Yinon, promosso da Israele in armonia con la politica
estera USA, il quale prevede la frammentazione e l'instabilità degli
Stati arabi e la balcanizzazione di tutto il Medio Oriente in senso
etnico-religioso, con – appunto – Israele Stato ebraico in posizione
egemone. In quest’area di primario interesse strategico, degli
Staterelli sunniti, sciiti, curdi, maroniti, al posto degli attuali
Irak, Siria, Libano, Libia e anche Yemen, garantirebbero all’Occidente
il controllo sulla produzione di petrolio e assicurerebbero la
conflittualità necessaria alla sperimentazione e alla vendita di ingenti
quantità di armi di tutti i tipi.
Ebbene, in Israele-Palestina la situazione attuale è la seguente:
dal punto di vista politico, militare e amministrativo, lo Stato di
Israele possiede, occupa e controlla l’intera Palestina storica. Si
tratta, a tutti gli effetti, di un singolo Stato con regimi diversi per
le diverse popolazioni: apartheid per i 5 milioni di palestinesi dei
territori occupati, etnocrazia per gli israeliani. Infatti, al suo
interno, la classe dirigente israeliana, composta da una minoranza di
varie origini europee, discrimina il 20% della popolazione costituita da
arabi palestinesi diventati cittadini d’Israele loro malgrado e ne
discrimina un altro 50% (sefarditi ed ebrei provenienti dai Paesi arabi e
islamici) le cui radici affondano nella cultura dei Paesi d’origine,
cultura da sempre ostentatamente disprezzata dall’establishment
israeliano, fiero della propria superiorità europea e spaventato più di
ogni altra cosa da ciò che definisce la “levantinizzazione” di Israele.
Nell’ipotesi remota ma, a mio modesto avviso, non utopistica di
una Palestina riunificata, illuminante e di grande interesse è la
ricerca minuziosa, durata quattro decenni, compiuta dallo storico e
geografo palestinese Salman Abu Sitta e terminata con la pubblicazione
di un monumentale “Atlante della Palestina” (Atlas of Palestine 1917-
1966, Palestine Land Society, London 2010). Vi sono identificati 40.000
villaggi, siti storici, edifici, proprietà terriere appartenenti a
palestinesi, con i nomi dei rispettivi titolari e i luoghi in cui questi
vivono oggi da rifugiati. Fra le fonti utilizzate, i registri
dell’UNRWA con oltre 700.000 famiglie e 4 milioni di individui e la
cartografia del governo mandatario britannico (1920-1948), con
l’indicazione sia delle terre demaniali di ciascun villaggio, sia delle
proprietà fondiarie di ogni singola famiglia.
Da tale documentazione risulta come due terzi dei 12 milioni di
palestinesi siano profughi espulsi dalle loro case dal 1948 in poi, a
seguito di ogni nuova avanzata israeliana, la stragrande maggioranza dei
quali vive su suolo palestinese, o comunque entro un raggio di 100
chilometri dalla casa abbandonata al momento dell’espulsione.
Secondo Abu Sitta, «non si tratta di un elenco di ciò che i
palestinesi hanno perso, ma dell’affermazione di ciò che continua a
definire loro stessi e le generazioni future. Il legame collettivo con
la loro terra, documentato qui con una forza dirompente, costituisce la
fonte della loro legittimità nazionale e nessuno gliela potrà togliere,
neppure con la morte, il diniego, la dispersione e l’occupazione».
L’autore ha esteso le sue ricerche alla distribuzione abitativa
degli israeliani ebrei all’interno dello Stato d’Israele – a esclusione
degli insediamenti della Cisgiordania e di Gerusalemme est – e fornisce
dati precisi su circa 1.200 città israeliane nonché sulla provenienza
dei loro abitanti. Secondo tale indagine, nonché altri studi recenti,
l’80% degli israeliani ebrei vive in appena il 17% del territorio di
Israele, mentre 272 villaggi contano pochissimi ebrei e 249 villaggi
sono abitati esclusivamente da palestinesi. Insomma, la realtà
demografica sul terreno dimostra che il ritorno dei 6 milioni di
profughi sarebbe fattibile senza grossi spostamenti della popolazione
israeliana e che, fatto di non poco conto, l’intera operazione verrebbe a
costare una percentuale irrisoria di quanto lo Stato di Israele spende
annualmente per la propria sicurezza.
Un ulteriore elemento a complemento del quadro tracciato da Abu
Sitta è costituito dalla composizione della popolazione oggi residente
nella Palestina storica, ovvero Israele, Cisgiordania e Gaza.
Considerando che l’attuale popolazione israeliana è al 70% di origine
araba, se a tale percentuale aggiungiamo i 5 milioni di palestinesi dei
territori occupati, risulterà che la popolazione attuale della Palestina
storica è araba all’80%. Inoltre, secondo gli studi demografici più
attendibili, in base all’incremento demografico attuale, alla fine del
2020 vi saranno, nella Palestina storica, 7.13 milioni di palestinesi e
6.96 milioni di israeliani ebrei.
Davanti a tale realtà, i termini della questione cambiano,
imponendo la ricerca di una prospettiva di pace basata non più sul
paradigma dei “due popoli due Stati”, ma sul modo in cui mettere fine al
progetto sionista di uno Stato ebraico sull’intera Palestina,
etnicamente ripulita dai suoi abitanti originari. E la forma che
prenderà tale Stato nelle varie tappe del suo farsi sarà da definire,
fermi restando due principi: il ritorno dei profughi palestinesi sulla
loro terra e il fatto che i cittadini di tale Stato saranno non, si badi
bene, arabi ed ebrei (appellativi generici che si prestano alle
interpretazioni più creative), ma gli appartenenti ai due popoli, quello
palestinese e quello israeliano.
Del resto, l’idea di uno Stato unico laico e democratico non è
nuova. All’inizio degli anni ‘70, ho partecipato a un incontro svoltosi a
Damasco tra Yasser Arafat e Lelio Basso. La conclusione cui giunsero fu
che non vi era altra soluzione in grado di garantire, a lungo termine,
una convivenza pacifica fra i due popoli.
Pur non chiudendo gli occhi davanti alle immani difficoltà insite
in tale proposta, né alla furibonda opposizione che susciterebbe in chi
opera per un Medio Oriente balcanizzato con uno Stato ebraico egemone,
non esito ad affermare che la formula dello Stato unico per il popolo
israeliano e per quello palestinese, basata sui principi universalmente
accettati del diritto internazionale, va difesa con forza dimostrandone
la fattibilità. Ovviamente, nel corso della sua realizzazione, saranno
necessari molti interventi pacificatori, primo dei quali lo
scardinamento del mito sionista secondo cui arabi e ebrei si sono sempre
odiati e sono destinati a farsi la guerra: la mia esperienza personale
di vent’anni vissuti in Egitto mi conferma quanto tale mito sia falso. E
confesso che mi piace fantasticare che lo Stato unico con uguali
diritti per tutti sarà la stella polare che guiderà i profughi
palestinesi sulla via del ritorno: li immagino lasciare i campi del
Libano, della Siria e della Giordania e incamminarsi verso i loro
luoghi d’origine con la prospettiva di convivere pacificamente con gli
attuali abitanti. Essi sanno che, seppur difficile, la convivenza è
possibile. Come insegnano i loro vecchi, la secolare convivenza fra
musulmani, ebrei e fedeli di altre religioni fa parte della storia dei
Paesi arabi e islamici, storia antecedente l’arrivo dei sionisti.
Prendiamo atto che questa realtà ci riguarda o preferiamo
osservarla da lontano, glissando sul fatto che il nostro Paese vi opera
attivamente sia a livello diplomatico che esportandovi armi? In
percentuale, oltre il 41% degli armamenti regolarmente esportati
dall’Europa verso Israele è italiano (Il Fatto Quotidiano,
17/7/14), in violazione della legge n. 185 del 1990, la quale stabilisce
che «l’esportazione e il transito di materiali di armamento sono
vietati verso i Paesi in stato di conflitto armato» in contrasto con le
direttive Onu, «verso i Paesi la cui politica contrasti con i principi
dell’art. 11 della Costituzione» e verso i Paesi «responsabili di gravi
violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti
umani». Eppure lo Stato d’Israele ricade in tutte e tre le fattispecie: è
in stato di conflitto armato, la sua politica è in contrasto con
l’articolo 11 della nostra Costituzione ed è stato condannato oltre 300
volte dall’ONU per aver violato sia le risoluzioni che le numerose
convenzioni in materia di diritti umani, compresi i protocolli di
Ginevra. È vero che di condanne Israele ne ha ricevute innumerevoli, ma
sempre con il voto contrario degli Stati Uniti e – tranne qualche
astensione – degli Stati membri dell’UE, compreso il nostro. Ma sanzioni
no, mai, malgrado disponga dell’arma atomica e rifiuti di aderire ai
trattati di non proliferazione. Chi osasse proporre sanzioni allo “Stato
ebraico” verrebbe tacciato di antisemitismo, accusa infamante che
chiude la bocca ai più.
Dunque è una realtà che ci riguarda, ci riguarda alla stessa
stregua del cumulo di menzogne e di mistificazioni usate per coprire le
sofferenze, le ingiustizie e i crimini inferti ai palestinesi. Ci
riguarda e dovrebbe interpellare le nostre coscienze.
Diceva Vittorio Arrigoni, reporter e attivista per i diritti umani assassinato a Gaza nel 2011: restiamo umani.
* Vera Pegna è traduttrice e scrittrice italiana, già
militante del PCI impegnata nella lotta contro la mafia, ativista ed
esperta della questione palestinese. Di origine ebraica, ma nata e
cresciuta ad Alessandria d'Egitto, ha sempre criticato radicalmente il
sionismo, sottolineando la necessità di non confondere l'antisionismo
con l'antisemitismo.
** Immagine di Paolo Cuttitta, tratta Flickr, immagine originale e licenza
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