Ramzy Baroud :che cosa c’è dietro la riconciliazione tra Hamas e Fatah?
- he cosa c’è dietro la riconciliazione tra Hamas e Fatah?
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- Trump: non trasferirò l’ambasciata USA a Gerusalemme prima di fare un tentativo di pace
- 30.000 israeliane e palestinesi partecipano alla marcia di “Women Wage Peace” a Gerusalemme
- Hamas ribadisce: il braccio armato non è oggetto di discussione nei colloqui di riconciliazionecC
Ramzy Baroud
12 ottobre 2017, Palestine Chronicle
L’entusiasmo dell’Egitto nel
mediare tra le contendenti fazioni palestinesi Hamas e Fatah non è il
risultato di un improvviso risveglio di coscienza. Il Cairo ha di fatto
svolto un ruolo distruttivo nel manipolare le divisioni palestinesi a
proprio vantaggio, mantenendo rigidamente chiuso il valico di confine di
Rafah.
Comunque la leadership egiziana
agisce chiaramente in coordinamento con Israele e gli Stati Uniti.
Mentre il linguaggio usato da Tel Aviv e Washington è assolutamente
prudente riguardo ai colloqui condotti tra le due fazioni palestinesi,
se letto attentamente il loro discorso politico non è del tutto negativo
rispetto alla possibilità che Hamas si unisca ad un governo di unità
sotto la direzione di Mahmoud Abbas.
Le affermazioni del primo
ministro israeliano Benjamin Netanyahu all’inizio di ottobre confermano
questa ipotesi. Non ha respinto categoricamente un governo Fatah-Hamas,
ma, secondo il ‘Times of Israel’, ha richiesto che “qualunque futuro
governo palestinese smantelli il braccio armato dell’organizzazione
terroristica (Hamas), recida ogni legame con l’Iran e riconosca lo Stato
di Israele.”
Anche il Presidente egiziano
Abdel-Fattah al-Sisi vedrebbe con favore un Hamas indebolito, un Iran
emarginato ed un accordo che rimetta l’Egitto al centro della diplomazia
mediorientale.
Sotto l’egida del dittatore
egiziano, il ruolo dell’Egitto, un tempo centrale nelle questioni della
regione, è diventato marginale.
Ma la riconciliazione tra Hamas e
Fatah fornisce ad al-Sisi un’opportunità di ridare lustro all’immagine
del suo Paese, che negli ultimi anni è stata appannata dalla brutale
repressione dell’opposizione interna e dai suoi improvvidi interventi
militari in Libia, Yemen ed altrove.
A settembre, a margine della
Conferenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York,
al-Sisi ha pubblicamente incontrato Netanyahu per la prima volta.
L’esatta natura dei loro colloqui non è mai stata completamente
rivelata, anche se le notizie riportate dai media hanno sottolineato che
il leader egiziano ha cercato di convincere Netanyahu ad accettare
l’accordo di riunificazione tra Hamas e Fatah.
Nel suo discorso all’Assemblea
Generale Onu al-Sisi ha anche fatto un improvvisato appello appassionato
per la pace. Ha parlato di un’“opportunità” che deve essere colta per
raggiungere l’agognato accordo sulla pace in Medio Oriente ed ha
invitato il presidente USA Donald Trump a “scrivere una nuova pagina
della storia dell’umanità” sfruttando tale presunta opportunità.
E’ difficile immaginare che
al-Sisi, che ha un’influenza ed una forza di persuasione limitate su
Israele e gli USA, sia in grado con le proprie forze di creare il clima
politico necessario alla riconciliazione tra le fazioni palestinesi.
In passato sono stati fatti
simili tentativi, ma sono falliti, in particolare nel 2011 e nel 2014.
Addirittura già nel 2006 l’Amministrazione di George W. Bush impedì
qualunque riconciliazione, usando minacce e cancellando finanziamenti
per assicurarsi che i palestinesi restassero divisi. L’amministrazione
Obama ha fatto altrettanto, garantendo l’isolamento di Gaza e la
divisione palestinese, mentre sosteneva anche le politiche israeliane in
proposito.
A differenza delle precedenti
amministrazioni, Donald Trump ha destato aspettative riguardo a una
mediazione per un accordo di pace di basso profilo. Tuttavia, fin
dall’inizio ha preso le parti di Israele, ha promesso di trasferire
l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme ed ha nominato un fautore della
linea dura, David Friedman, un sionista per eccellenza, come
ambasciatore USA in Israele.
Indubbiamente nel giugno scorso
Trump ha firmato un ordine provvisorio per mantenere l’ambasciata a Tel
Aviv, deludendo molti dei suoi sostenitori filoisraeliani, ma la mossa
non è indice di un serio cambiamento di politica.
“Voglio dare una chance ad un
piano per la pace prima di poter anche solo pensare di trasferire
l’ambasciata a Gerusalemme”, ha recentemente detto Trump in
un’intervista televisiva. “Se possiamo fare la pace tra i palestinesi ed
Israele, penso che questo porterà ad una pace definitiva in Medio
Oriente, che deve essere fatta.”
Giudicando sulla base dei
precedenti storici, è più che ovvio che Israele e USA hanno dato luce
verde alla riconciliazione palestinese con un chiaro obbiettivo in
mente. Da parte sua, Israele vuole vedere una rottura di Hamas con
l’Iran e il suo abbandono della resistenza armata, mentre gli USA
vogliono dare “una chance” alle politiche in corso nella regione, dando
la priorità agli interessi di Israele rispetto a qualunque risultato.
L’Egitto, essendo beneficiario
di un generoso aiuto militare statunitense, è il tramite naturale per
condurre la riconciliazione tra Hamas e Fatah come parte della nuova
strategia.
Ciò che suggerisce chiaramente
che dietro gli sforzi di riconciliazione vi siano potenti attori, è come
sia filato liscio finora l’intero processo, in totale contrasto con
anni di tentativi fallimentari e ripetuti accordi con risultati
deludenti.
Ciò che inizialmente sembrava un
altro inutile ciclo di colloqui ospitato dall’Egitto, è stato presto
seguito da molto di più: anzitutto un iniziale compromesso, seguito da
un accordo di Hamas a sciogliere il suo comitato amministrativo, creato
per gestire gli affari di Gaza; poi, una positiva visita del Governo di
Consenso Nazionale a Gaza ed infine l’appoggio ai termini di
riconciliazione nazionale da parte delle due più potenti componenti di
Fatah: il Consiglio Rivoluzionario e il Comitato Centrale.
Dato che Fatah controlla
l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), quest’ultimo appoggio propugnato
da Mahmoud Abbas è stato un’importante pietra miliare necessaria a far
progredire il processo, poiché sia Hamas che Fatah si sono detti pronti
ad ulteriori successivi colloqui al Cairo.
Diversamente dagli accordi
precedenti, quello attuale consentirà ad Hamas di prendere parte attiva
nel nuovo governo di unità. Un alto dirigente di Hamas, Salah Bardawil,
lo ha confermato in una dichiarazione. Tuttavia Bardawil ha anche
ribadito che Hamas non deporrà le armi e che la resistenza contro
Israele non è negoziabile.
A parte il ruolo di potere
giocato da USA, Israele ed Egitto, questo è certamente il nodo cruciale.
Comprensibilmente, i palestinesi desiderano raggiungere l’unità
nazionale, ma tale unità deve essere fondata su principi che sono assai
più importanti degli interessi egoistici dei partiti politici.
Inoltre, parlare di – o anche
raggiungere – unità, senza fare i conti con le farse del passato e senza
concordare una strategia di liberazione nazionale per il futuro in cui
il fondamento sia la resistenza, il governo di unità tra Hamas e Fatah
risulterà insignificante come tutti gli altri governi che non hanno
avuto una reale sovranità e, al massimo, discutibili mandati popolari.
Ancor peggio, se l’unità è
guidata dal tacito sostegno USA, da un assenso di Israele e da un
programma autoreferenziale dell’Egitto, ci si può aspettare che il
risultato sarà il più lontano possibile dalle reali aspirazioni del
popolo palestinese, che resta indifferente all’imprudenza dei suoi
leader.
Mentre Israele ha investito per
anni nella spaccatura tra palestinesi, le fazioni palestinesi continuano
ad essere accecate da miseri interessi personali e da un “controllo”
senza alcun valore su una terra occupata militarmente.
Si dovrebbe chiarire che
qualunque accordo di unità che tenga conto dell’interesse delle fazioni a
spese del bene collettivo del popolo palestinese è un imbroglio; anche
se inizialmente “ha successo”, sul lungo termine fallirà, poiché la
Palestina è più grande di qualunque individuo, fazione o potere
regionale che cerchi il consenso di Israele e l’elemosina degli Stati
Uniti.
Ramzy
Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Sta
per uscire il suo libro ‘The last Earth: a Palestinian story’ (L’ultima
terra: una storia palestinese) (Pluto Press, London). Baroud ha un
dottorato in studi sulla Palestina dell’università di Exeter ed è
ricercatore non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali
e internazionali dell’università Santa Barbara in California. Il suo
sito web è: www.ramzybaroud.net.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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