La farsa di Trump sull’Iran


Donald Trump ha deciso: non certificherà per la terza volta che l'Iran sta rispettando l'accordo del 2015 sul programma nucleare. Ma non denuncia il patto, lasciando la scottante deliberazione al Congresso. Il delicato…
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Carta di Laura Canali, 2015.
Concentrarsi sull’accordo sul programma nucleare equivale a guardare il dito invece della luna. La vera posta in gioco è se Teheran possa avere una propria sfera d’influenza in Medio Oriente. Il presidente Usa gliela vuole negare, ma la sua strategia è dettata più da calcoli di consenso che da una visione geopolitica.
Donald Trump ha deciso: non certificherà per la terza volta che l’Iran sta rispettando l’accordo del 2015 sul programma nucleare. Ma non denuncia il patto, lasciando la scottante deliberazione al Congresso.

Il delicato equilibrismo del presidente degli Stati Uniti è figlio della sua impossibilità a mantenere una promessa elettorale – quella di stracciare o quantomeno rinegoziare “il peggiore accordo mai stipulato”.

Nessuno, forse nemmeno l’inquilino stesso della Casa Bianca, voleva che gli Usa si ritirassero dall’accordo. Non l’Europa, non Israele e l’Arabia Saudita, non i congressisti più falchi, figurarsi le burocrazie federali – diplomatici e militari in testa – che della parola data fanno moneta corrente per preservare il sistema imperiale di alleanze a stelle e strisce.

Ora il Congresso ha 60 giorni per decidere di che morte morire. Se intestarsi il referto del decesso del patto, magari reintroducendo le sanzioni che farebbero degli Stati Uniti l’attore che viola l’accordo. Se approvare nuove misure punitive non espressamente vietate dal trattato. Oppure se battere la via mediana di Salomone e varare le riforme chieste dall’esecutivo per aggiungere delle scuse che permettano agli Usa di chiamarsi fuori in presenza di un determinato comportamento di Teheran.


In ogni caso, nel confronto fra Stati Uniti e Iran, concentrarsi sul mantenimento dell’accordo sul programma nucleare equivale a guardare il dito invece della luna.

Il patto è destinato a sopravvivere (per ora). Perdersi nei dibattiti se l’Iran ne stia violando lo spirito o nelle ovvietà su pacta sunt servanda distoglie dalla vera posta in gioco fra Washington e Teheran. E dai fattori che stanno portando i rispettivi decisori a inasprire il tono della contesa.

Partiamo da questi ultimi.

L’assai pragmatico Trump ha messo nel mirino l’Iran non perché tassello fuori posto di una precisa cosmogonia che l’attuale presidente degli Stati Uniti si prefigge d’inverare. Semmai, Teheran è un facilissimo bersaglio della demonologia popolare americana per chiunque voglia mostrarsi duro e risoluto.

Sin dalla sua nascita nel 1979, la Repubblica Islamica è stabilmente fra i nemici preferiti dell’opinione pubblica a stelle e strisce. Specchio di una profonda sfiducia reciproca, radicata nel trauma dei primi anni del parto (crisi degli ostaggi, guerra Iran-Iraq) e indurita dalle memorie di decenni di guerre d’ombre fra i rispettivi apparati bellico-spionistici.

Impossibilitato dal dedicarsi alla sua attività preferita – stracciare gli accordi dei suoi predecessori, vedi Tpp, accordi di Parigi, Unesco, forse Nafta – il presidente annuncia una nuova strategia per mettere pressione all’Iran in cottura da ormai diversi mesi. Almeno sin da quando l’allora Consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn mise “in guardia” Teheran a proposito delle sue operazioni destabilizzanti in Yemen.

A chiarire il movente ideologico del nuovo approccio, una citazione in calce di Trump che invoca il mondo di “esigere dal governo iraniano di mettere fine alla sua ricerca di morte e distruzione”. Toni apocalittici cui fanno eco i ricorrenti richiami alle attività “maligne” della Repubblica Islamica, che vengono elencate con minuzia fornendo un listino dei prossimi focolai di tensione fra Washington e gli ayatollah: il programma missilistico, il sostegno in armi e denari al terrorismo e all’estremismo, il supporto al regime di Asad in Siria, l’ostilità a Israele, le minacce alla libertà di navigazione nel Golfo Persico, gli attacchi cibernetici, le violazioni dei diritti umani (comprese contro cittadini statunitensi), la proliferazione nucleare.

La Casa Bianca chiede al Congresso di introdurre degli “scatti automatici” che impongano sanzioni all’Iran in queste aree. Dal canto suo, l’esecutivo potrebbe potenziare le attività di intelligence finanziaria del dipartimento del Tesoro; le operazioni di libertà di navigazione nei pressi di Hormuz e Bab al-Mandab, financo qualche scaramuccia navale con le unità leggere della Marina persiana; la guerra cibernetica (i cui primi colpi degni di nota geopolitica furono sparati proprio contro l’Iran col virus Stuxnet); le intercettazioni (magari via bombardamenti aerei israeliani) di spedizioni di armi a Hezbollah, a Hamas o alle milizie degli huthi in Yemen; le vendite di tecnologie belliche ai satelliti arabi del Golfo.

In sostanza, Trump vorrebbe che Washington s’attrezzi a contrastare o a far ripiegare l’espansione della sfera d’influenza dell’Iran nel Medio Oriente sconvolto dalle guerre di successione ottomana.


Carta di Laura Canali – 2015

L’illusione di Obama era di usare il patto sul nucleare come grimaldello per reintrodurre Teheran fra le potenze legittimate ad avere interessi regionali e a perseguirne il raggiungimento.

Tutto ciò non è avvenuto perché dal momento in cui (autunno 2015) l’accordo è entrato in vigore, gli Stati Uniti sono entrati di fatto in regime di sede vacante. Una mancanza di leadership che è durata ancora qualche mese dopo l’insediamento del nuovo comandante in capo (gennaio 2017), a causa della necessità di prendere confidenza con gli esecutori materiali della geopolitica a stelle e strisce. In presenza dello sbandierato ripiego di Washington e in assenza di chi si assumesse la responsabilità di decisioni strategiche che non riguardassero la conservazione dello status quo, diversi attori ne hanno approfittato per imporre le proprie agende – vedi la Russia e lo stesso Iran in Siria.

In breve, nessuno in America ha preso una decisione su che fare del reinserimento della Repubblica Islamica. Per alcuni, la nuova strategia di Trump è un passo in questo senso.

Viste le premesse ideologiche ed elettorali del suo interessamento, difficile pensare che non si tratti, come per Corea del Nord e Venezuela, di un’aggiunta al rispolverato “asse del male” utile solo a mietere consensi, non a decidere la postura degli Stati Uniti in Medio Oriente.

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