Federico Petroni :Le notizie geopolitiche del 16 ottobre.



Le notizie geopolitiche del 16 ottobre.
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AUSTRIA
Il Partito popolare austriaco è vicino a vincere le elezioni legislative con più del 31% dei voti. Al secondo posto il Partito della libertà con il 27% e al terzo i socialdemocratici con il 26%. Il leader dei conservatori e probabilissimo nuovo cancelliere Sebastian Kurz è l’ex ministro degli Esteri dell’uscente governo e ha fatto campagna su una linea piuttosto dura sull’immigrazione. I confini nord-orientali dell’Italia potrebbero essere interessati dalla coalizione che uscirà dalle consultazioni.
Commenta per Limes Paolo Quercia:
Il voto del 15 ottobre in Austria ha il pregio della chiarezza e non si presta a fraintendimenti: due partiti chiaramente vincitori, il Partito popolare della Ovp e il quello liberal-nazionale della Fpo, entrambi cresciuti del 7% circa.
Tracollo dei Verdi, che perdono quasi 600 mila voti (10%) e non riescono neanche a superare la soglia dello sbarramento del 4%. Sconfitta del partito di governo socialista (Spo), che tuttavia tiene inaspettatamente, perdendo solo 100 mila voti e conservando lo stesso numero di seggi del 2013.
Apparentemente insignificanti per gli scenari di formazione del governo gli altri due partiti riusciti a entrare in parlamento, i liberali di sinistra dei Neos e la lista dell’ex parlamentare anti-establishment dei Verdi Peter Pilz. Scomparsa anche la destra moderata, schiacciata tra conservatori che si spingono a destra e nazionalisti che si spostano al centro.
Il semplificato quadro politico vede una gerarchia elettorale composta da popolari al primo posto, liberal-nazionali al secondo e socialisti al terzo – ma mancano ancora gli 800 mila voti per corrispondenza.
La grande coalizione tra socialisti e democristiani, che in molti danno per morta, non è affatto uno scenario improbabile. Ma questo dipende da cosa accadrà nel Partito socialista dopo il voto.
Lo scenario più verosimile è quello che vede il varo di un governo di minoranza monocolore popolare che governi con il supporto esterno socialista, ma all’occorrenza degli altri partiti, compreso l’Fpo. Sarebbe la via morbida per l’inclusione di quest’ultimo in un prossimo governo di coalizione, seguendo il metodo consociativo che già caratterizza, a livello locale, buona parte della politica austriaca.
Qualunque esecutivo nascerà a Vienna, la questione dello spostamento verso destra della politica austriaca è un dato di fatto evidente. Qualunque sia il governo che uscirà da queste urne, ci stiamo avvicinando a una fase in cui il potere di governo in Austria dovrà essere diviso per tre e non più per due. Di questo anche la postura geopolitica del paese, e probabilmente della vicina Germania, finiranno per risentirne.

SOMALIA [di Nicola Pedde]
Il bilancio delle vittime dell’attentato del 14 ottobre a Mogadiscio sale di ora in ora, sfiorando le 300 vittime civili. Gli investigatori sono ancora all’opera per accertare le dinamiche di esecuzione nella centralissima Jidka Afgooye, in prossimità del ministero degli Esteri e dell’Hotel Safari, dove al momento dell’esplosione la strada era affollata di passanti e venditori ambulanti.
La responsabilità dell’attentato sono da cercare fuori dal paese.
Le autorità somale accusano apertamente al-Shabaab di aver pianificato e condotto l’attentato, sebbene per la prima volta l’organizzazione jihadista somala non ne abbia rivendicato la paternità (almeno sino ad oggi), lasciando perplessi gli analisti internazionali.
Da settimane si parlava della possibilità di un attentato imminente a Mogadiscio, come rappresaglia ad una serie di azioni condotte dalle forze speciali somale e dalle unità del’Amisom contro alcune roccaforti di al-Shabaab. Erano tuttavia circolate informazioni relative ad una crescente difficoltà da parte degli islamisti nel procurarsi gli esplosivi necessari ad equipaggiare le auto-bomba sinora utilizzate negli attentati al centro delle aree abitate, lasciando intendere che la logistica del gruppo potesse essere entrata in una fase critica.
L’attentato del 14 ottobre ha quindi destato stupore e preoccupazione, sia per la capacità dimostrata, sia per l’indiscriminata portata del gesto, che supera di misura ogni precedente azione dell’al Shabaab.
Per comprendere le responsabilità dell’evento, tuttavia, è necessario comprendere il peso e la portata degli interessi regionali che gravano oggi sulla sempre più debole Somalia.
All’indomani della crisi dello scorso giugno tra il Qatar, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, quando Doha venne isolata da un embargo arbitrariamente deciso in conseguenza delle sue relazioni con l’Iran e del presunto sostegno al terrorismo – nella forma della Fratellanza Musulmana, che soprattutto gli Emirati vorrebbero far passare in modo alquanto improbabile come una monolitica ed unitaria organizzazione jihadista – la Somalia decise di non accogliere l’invito saudita ad interrompere le relazioni diplomatiche con il Qatar.
Le ragioni di questa decisione erano molteplici, sebbene quella preminente derivasse dal forte sostegno economico ricevuto dall’attuale presidente somalo, Mohammed Abdullahi Mohammed “Farmajo”, per la ricostruzione del paese e delle sue istituzioni.
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USA VS IRAN [di Dario Fabbri]
Nei confronti del nucleare iraniano Trump e gli apparati paiono aver trovato un compromesso assai sofisticato.
La voglia (elettorale) del presidente di abbandonare l’impegno sottoscritto dall’amministrazione precedente si è fusa con la necessità degli strateghi statunitensi di premere sulla Repubblica Islamica e di comunicare con alleati e avversari, senza rinnegare l’accordo del 2015.
Perché negli ultimi due anni la situazione mediorientale si è alquanto modificata. Allora la Repubblica Islamica era sulla difensiva, quasi travolta dall’insurrezione sunnita in Siria e in Iraq, mentre oggi sembra prossima a mantenere la propria sfera di influenza tra l’altopiano persiano e il Mediterraneo.
A determinare tanto risultato, oltre all’impegno militare di Teheran, hanno concorso l’intervento russo e la volontà proprio degli Stati Uniti di guidare da remoto le milizie curde ed arabe contro lo Stato Islamico.
Troppo per Washington, che si spende da sempre per impedire che una singola potenza possa dominare la propria regione d’appartenenza e che ora necessita di ridurre l’ingerenza iraniana.
Di qui la volontà di segnalare a Teheran d’essere pronti perfino a misconoscere i patti, senza farlo realmente, con l’obiettivo di convincere soprattutto gli alleati europei a colpire il programma missilistico iraniano e comunicare alla Russia che, in assenza di una intercessione nei confronti di Rohani, non otterrà alcuna concessione sul fronte europeo.
Sul piano scenografico, ne sono scaturiti duri strali di Trump contro l’Iran e l’apparente consegna del dossier al Congresso. Nel tentativo di perseguire un antico dettame della strategia americana.

VENEZUELA [di Lorenzo di Muro]
Le elezioni dei governatori in Venezuela si sono trasformate in un trionfo del Partito socialista unito (Psuv) del presidente Maduro.
Prevista a dicembre 2016, la tornata era stata posticipata da Caracas onde evitare appuntamenti elettorali in un momento di fermento sociale ed esacerbazione della crisi recessiva. Tale quadro, fomentato dalla tattica dilatoria del governo e dall’attivismo interno e internazionale delle opposizioni (Mud), era sfociato ad aprile in uno scenario di guerriglia urbana che per almeno 4 mesi ha bloccato il paese lasciando oltre 120 morti.
Non è un caso che le elezioni dei governatori siano state calendarizzate soltanto dopo l’elezione dei membri della nuova Assemblea costituente voluta da Maduro, che ha di fatto esautorato l’unico organo costituzionale in mano alle opposizioni, il parlamento.
Secondo i dati ufficiali, 17 Stati su 23 hanno visto trionfare candidati governativi: l’opposizione ha perso lo strategico Stato di Miranda (governato dal 2009 dall’esponente delle opposizioni Henrique Capriles) mentre il governo quelli di Zulia e Táchira (alla frontiera con la Colombia filo-Usa), sovvertendo le ottimistiche, tendenziose previsioni circolate sui mezzi d’informazione filo-Mud. 

CATALOGNA
Continua la melina in Catalogna. La scorsa settimana, dopo aver dichiarato e poi sospeso l’indipendenza della comunità autonoma, il presidente della Generalitat Puigdemont aveva ricevuto dal premier spagnolo Mariano Rajoy cinque giorni (che scadono oggi) di tempo per chiarire cosa intendesse con quell’evoluzione retorica. Mossa chiaramente volta a dare spazio per colloqui sotterranei per sondare la possibilità di aprire trattative formali.
Evidentemente l’impasse persiste, perché in una lettera a Madrid il leader catalano non ha sciolto le riserve ma invocato un processo negoziale nei prossimi due mesi. Ci si aspetta che il governo iberico prolunghi la scadenza a giovedì. Poi potrebbe tentare di assumere le redini della Catalogna attivando l’articolo 155 della Costituzione e magari indicendo nuove elezioni locali per rimuovere la leadership politica a Barcellona.

Limes Bonus
KIRKUK A proposito del raggio internazionale delle attività di Teheran, le milizie irachene filo-iraniane stanno partecipando assieme all’esercito di Baghdad alle operazioni attorno a Kirkuk per togliere gli importanti giacimenti locali di petrolio al Governo Regionale del Kurdistan, che ne ha assunto il controllo nel 2014 con la “scusa” della guerra allo Stato Islamico. La presenza delle milizie sciite è un importante fattore della presa della Repubblica Islamica sull’Iraq – o almeno su un terzo di esso.

BREXIT Come previsto da Limes, Londra cerca di portare le trattative sul Brexit a un livello più alto. A dimostrarlo è l’annuncio della visita a sorpresa a Bruxelles di Theresa May, che ha anche sostenuto una conversazione telefonica con Angela Merkel in cui la premier britannica ha esortato la cancelliera tedesca a impartire ritmo ai negoziati per arrivare entro la fine dell’anno a concordare sui contorni del periodo di transizione post-marzo 2019. In quella data è prevista l’uscita del Regno Unito dall’Ue e il governo di Sua Maestà non intende far sì che l’incertezza si prolunghi tanto da convincere i poteri economici della City a trasferirsi in blocco sul continente.

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