16 ottobre 2017 Haaretz
Quando
Israele annuncia una chiusura dei territori occupati, crea la falsa
impressione che i palestinesi normalmente abbiano libertà di movimento –
cosa che non avviene dal gennaio 1991.
Alcuni articoli pubblicati su Haaretz prima della festa di Sukkot (festa del pellegrinaggio, una delle più importanti festività ebraiche, che dura 8 giorni tra settembre e ottobre, ndtr.)
mi hanno ricordato la grande distanza tra il 21 di Schocken Street (gli
uffici di Haaretz) e Qalandya, Nablus o Jayyous. Mi hanno ricordato
(ancora e ancora) quanto malamente io abbia fallito nei miei tentativi
di descrivere, spiegare ed illustrare la politica israeliana di
restrizione della libertà di movimento. Poiché ho scritto migliaia di
pagine sulla politica di chiusura nella Striscia di Gaza e in
Cisgiordania fin da quando è stata istituita nel gennaio 1991, riconosco
la mia personale responsabilità sulla questione.
Parecchi miei
colleghi di Haaretz (anche in un editoriale) hanno giustamente criticato
l’ordine della leadership politica e militare israeliana di vietare
l’uscita dei palestinesi dalla Cisgiordania durante l’intera festa di
Sukkot. I giornalisti hanno sottolineato la crudeltà di recare danno
alla vita di decine di migliaia di lavoratori con una punizione
collettiva, con un blocco.
Ma questi articoli
hanno creato la falsa impressione che i checkpoint siano normalmente
aperti per tutti e, di conseguenza, giustificano in qualche modo il
termine usato dall’apparato militare – “attraversamenti”, come se
fossero valichi di frontiera tra due Stati uguali e sovrani.
Dalle critiche
contenute negli articoli sembra che, proprio come l’israeliano medio può
salire su un autobus o su una macchina e viaggiare verso est in
qualunque giorno della settimana ed a qualunque ora, un comune
palestinese possa analogamente imboccare le stesse superstrade di lusso e
dirigersi ad ovest. Verso il mare. O
a Gerusalemme. Dalla sua famiglia in Galilea; a sua scelta, per quasi
tutti i giorni e a qualunque ora, tranne durante lo Shabbat [festa
ebraica del riposo che avviene di sabato ndt] e i giorni di festività.
Ripetiamolo ancora
una volta: il blocco non è mai stato tolto da quando venne imposto alla
popolazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania (esclusa
Gerusalemme est) il 15 gennaio 1991. Come potremmo definirlo oggi, più
di 26 anni dopo? Il blocco è il ripristino della Linea Verde (confine de facto dello stato di Israele fino al 1967, ndtr.)
– ma solo in una direzione e per un solo popolo. E’ inesistente per gli
ebrei, ma esiste sicuramente per i palestinesi (insieme al suo nuovo
rafforzamento, la barriera di separazione in Cisgiordania).
A volte il blocco è
meno rigido; a volte di più. In altri termini, a volte parecchi
palestinesi ottengono permessi di ingresso in Israele, a volte pochi, o
nessuno del tutto, o quasi nessuno (a Gaza). Ma è sempre una minoranza
di palestinesi a cui Israele concede i permessi – soprattutto perché
alcuni settori dell’economia israeliana (in particolare quello
dell’agricoltura e dell’edilizia, e anche il servizio di sicurezza dello
Shin Bet) hanno bisogno di loro.
Per quasi due
decenni, e per propri calcoli politici interni, Israele ha rispettato il
diritto dei palestinesi alla libertà di movimento – con poche eccezioni
– e loro entravano in Israele e viaggiavano tra la Striscia di Gaza e
la Cisgiordania senza dover chiedere un permesso a tempo limitato.
Ma dal 1991 Israele
ha negato il diritto alla libertà di movimento a tutti i palestinesi in
queste aree, con poche eccezioni, in base a criteri e quote che
stabilisce e modifica come gli conviene.
Il gennaio 1991 è
storia antica per molti lettori e soggetti interessati, alcuni dei quali
sono addirittura nati dopo quella data. Ma per tutti i palestinesi che
hanno più di 42 anni, il gennaio 1991 è una delle tante date che segnano
un altro arretramento e un altro cambiamento in negativo nelle loro
vite.
Nella storiografia
della nostra dominazione sui palestinesi, il 15 gennaio 1991 dovrebbe
essere studiato come una pietra miliare (non la prima né l’unica)
dell’apartheid israeliano. Un Paese che va dal mare (Mediterraneo) al
fiume (Giordano), due popoli, un governo la cui politica determina le
vite di entrambi i popoli; il diritto democratico di eleggere un governo
è garantito ad un solo popolo e a parte del secondo. Questo è risaputo.
Due sistemi giuridici separati; due sistemi di infrastrutture separati e
ineguali – uno potenziato per un popolo, uno sgangherato e deteriorato
per l’altro.
E non meno
importante: libertà di movimento per un popolo; diversi gradi di
restrizione del movimento, fino alla totale assenza di libertà di
muoversi, per l’altro. Il mare? Gerusalemme? Gli amici che vivono in Galilea? Sono tutti lontani da Qalqilyah (cittadina palestinese in Cisgiordania, ndtr.) come la luna – e non solo durante la festa di Sukkot.
E’ importante anche
la tecnica di come è stato in realtà attuato il blocco. Un cambiamento
drastico non accade mai all’improvviso, non è mai dichiarato
pubblicamente. Viene sempre presentato come una reazione – non come
un’iniziativa. (Gli israeliani vedono il blocco come un mezzo per
impedire gli attacchi suicidi , ignorando appositamente che è iniziato
molto prima che quelli cominciassero.
Dal 1991 la negazione
della libertà di movimento è solo diventata più tecnologicamente
sofisticata: strade separate, checkpoint e metodi di perquisizione più
umilianti e dispendiosi di tempo; costanti identificazioni biometriche;
un sistema infrastrutturale che consente il ripristino dei checkpoint
intorno alle enclave della Cisgiordania e le mantiene separate tra di
loro. La gradualità calcolata e la mancata comunicazione preventiva di
questa politica e dei suoi obbiettivi, la chiusura interna delle enclave
palestinesi circondate dall’area C (sotto il controllo israeliano, ndtr.) – tutto questo normalizza la situazione.
Il blocco (come
elemento fondamentale dell’apartheid) è percepito come lo stato naturale
e permanente, la situazione standard di cui la popolazione non si
accorge più. Ecco perché un peggioramento temporaneo della situazione,
annunciato anticipatamente, desta attenzione o rilevanza.
Comunque, io non sono
un tipo megalomane, quindi non assumo tutta la responsabilità sulle mie
spalle. L’incapacità delle parole di descrivere e spiegare a fondo i
tanti aspetti della dominazione israeliana sui palestinesi è un fenomeno
sociologico e psicologico, che non è attribuibile all’impotenza di uno o
due scrittori. Le parole non pervengono – anche per coloro che si
oppongono al blocco – in tutto il loro significato, perché è dura vivere
costantemente con la consapevolezza e la comprensione che abbiamo
creato un regime di oscurità per i non ebrei; che il nostro demone che
pianifica di peggiorare le cose è abilissimo e che noi viviamo benissimo
accanto agli orrori che abbiamo creato.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
Allegato
Gisha : il blocco di Gaza non è finalizzato alla sicurezza
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