Alberto Negri :Raqqa libera e la diaspora dei foreign fighters
La fine dell’entità territoriale del Califfato non significa la fine del terrore in Europa
ilsole24ore.com
La caduta di Raqqa, ridotta in
cenere dai raid aerei come Dresda alla fine della seconda guerra
mondiale, è la fine dell’entità territoriale del Califfato. In un certo
senso è un evento storico: il Califfato fu proclamato a Mosul nel luglio
2014 da al-Baghdadi (di cui non c’è traccia) e Raqqa venne designata
come capitale in ricordo di un autentico Califfo, Harun Rashid, colui
che ispirò le Mille una Notte. La Raqqa dell’Isis è stata teatro non di
un’epoca gloriosa ma del terrore.
Dove finiranno adesso i jihadisti e centinaia di foreign fighters
che hanno combattuto per un dare vita a uno stato sunnita e anti-sciita
tra l’Iraq e la Siria? Certamente possono minacciare l’Europa ma non
dimentichiamo che il loro primo gesto dopo la conquista della città fu
distruggere una famosa moschea dedicata ad Alì, il genero di Maometto
ispiratore degli sciiti e della minoranza alauita al potere in Siria da
mezzo secolo. Loro restano i bersagli principali, quelli più a portata
di mano del terrorismo jihadista.
La liberazione della città ha qualche cosa di paradossale e
preoccupante allo stesso tempo: Raqqa è il simbolo di una sorta di
rompicapo geopolitico. Mentre in queste ore l’esercito di Baghdad
cacciava i curdi iracheni di Massud Barzani dal centro petrolifero di
Kirkuk, altri curdi, quelli siriani, mettevano a segno a Raqqa la loro
più prestigiosa vittoria con il sostegno degli americani. I curdi
iracheni sono addestrati da americani ed europei (tra cui l’Italia che
ha 1200 soldati in Iraq) che però, come la Turchia e l’Iran, sono
contrari all’indipendenza del Kurdistan iracheno votata con un
referendum. I curdi siriani del Rojava, appoggiati dagli americani ma
anche alleati del Pkk nemico giurato di Ankara, dichiarano, con un certo
senso dell’opportunismo, di volere una zona autonoma ma dentro la
Siria. Senza un accordo con Damasco, la Russia e l’Iran sarebbero in
balìa dei turchi di Erdogan che durante l’assedio di Kobane nel 2015
avevano aiutato l’Isis a combattere la resistenza curda e ora sono
entrati nell’area di Idlib nel Nord della Siria.
Con la caduta di Raqqa e quella prossima di altre roccaforti dell’Isis si consolida Assad: chi vorrà dare la caccia ai foreign fighters in
Siria deve trattare anche con lui. È la vittoria di Mosca e di Teheran
che rafforza l’asse sciita mentre Putin conferma il ruolo di
interlocutore ineludibile degli attori regionali, dalla Turchia,
all’Arabia Saudita a Israele che fino a poco tempo fa stavano sul fronte
opposto, quello dei nemici di Assad.
L’aspetto interessante è che gli americani dopo avere guidato la
caduta di Mosul in Iraq sono anche schierati in Siria: una presenza che
però solo in parte riempie il vuoto strategico degli Stati Uniti. Sono
alleati dei curdi iracheni in rotta con Baghdad, da loro “liberata” da
Saddam nel 2003, sostengono i curdi siriani invisi alla Turchia, alleato
Nato sempre più improbabile, mentre la Russia è protagonista e l’Iran
approfitta degli sbagli altrui.
E non sono finiti i pericoli derivanti dal jihadismo, dell’Isis e di
al-Qaida. In primo luogo i curdi hanno negoziato con l’Isis una
fuoriuscita da Raqqa di migliaia di combattenti armati. Questi
probabilmente non faranno altro che spostarsi da un’altra parte. Una
meta può essere la Libia, ai confini tra Tunisia e Algeria, oppure nel
Fezzan dove ci sono colonne del Califfato. Altri potrebbero andare in
Sinai o in Yemen dove l’Isis combatte con al-Qaida contro gli sciiti
Houthi in un conflitto dove sono impantanati da anni i sauditi.
I foreign fighters potrebbero anche tornare in Europa. I
francesi sono irritati perché a Raqqa non hanno potuto mettere le mani
sugli ispiratori di alcuni attentati a Parigi e in Belgio. È giusto
compiacersi della caduta della capitale del Califfato ma esultare
sarebbe fuori luogo.
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