Limes : Cina e Usa sono confusi. L’unico con le idee chiare è Kim Jong-un
Cina e Usa sono confusi. L’unico con le idee chiare è Kim Jong-un
La Corea del Nord vuole riproporre la politica
dei due forni che le ha garantito la sopravvivenza durante la Guerra
Fredda. La sfiducia reciproca tra Pechino e Washington complica il
raggiungimento di una posizione negoziale comune nei confronti di
P’yongyang. A discapito della stabilità e della pace mondiale.
Dopo una primavera e un’estate troppo calde, non solo meteorologicamente, intorno alla Corea sembrano
finalmente apparire dei primi segnali che fanno sperare in temperature
più fresche nelle prossime settimane, come meteo e come politica.
La Cina nei giorni scorsi ha annunciato che bloccherà presso
le sue banche alcuni conti correnti usati dalla Corea del Nord. Non è
l’inizio di un congelamento dei conti, né una misura decisiva verso
Pyongyang, che ne usa anche altri in paesi come la Russia. Ma è una
puntura di spillo che indica forse un cambiamento a Pechino.
Un segnale più significativo è arrivato nelle stesse ore tramite un articolo di un influente professore di questioni internazionali dell’università di Pechino,
Jia Qingguo. Questi suggeriva che la Cina si dovesse preparare al
peggio in Corea del Nord senza intervenire accanto a P’yongyang in caso
di conflitto, ma limitandosi ad accogliere i profughi dal paese vicino.
Jia, specialmente in questi tempi di controllo stretto in Cina, non
avrebbe scritto senza un cenno di assenso superiore; quasi una “luce
verde” cinese a un intervento americano in Nord Corea e un avvertimento
a P’yongyang. In sostanza: non spingete troppo perché non vi appoggiamo
oltre un dato limite.
Nelle stesse ore l’ambasciatore Joseph DeTrani, architetto dei colloqui di pace a 6 e grande esperto della questione, scriveva sul Washington Times
che si aprono spiragli per trovare un accordo con Kim grazie
all’intervento cinese. Come nel 2003, la Repubblica Popolare potrebbe
sospendere o ridurre le forniture di olio pesante riportando P’yongyang
al tavolo delle trattative. I tempi potrebbero essere maturi. Il 18
ottobre si apre il congresso del Partito Comunista Cinese, che
durerà circa una settimana. Il presidente Xi Jinping avrà finalmente
chiarito le principali questioni interne per i primi di novembre –
proprio il periodo in cui, con il freddo, la Corea del Nord avrà bisogno
di importare olio pesante per i riscaldamenti.
In quei giorni arriverà a Pechino il presidente americano Donald Trump,
che visiterà anche Tokyo. Dunque si potrebbe finalizzare un primo
accordo, i cui contenuti già cominciano a trapelare. Si tratterebbe di
congelare le atomiche di P’yongyang senza ammetterla ufficialmente come
potenza atomica, bloccando una proliferazione nucleare che altrimenti
arriverebbe in Iran passando forse anche da Corea del Sud, Taiwan,
Vietnam eccetera. Poi, con il tempo, si potrebbe procedere al disarmo
del regime nordcoreano.
Questa evoluzione farebbe ben
sperare. Ma rimangono vive le proteste di quanti vorrebbero che la Cina
organizzasse un colpo di Stato per deporre Kim Jong-un. Dimenticando che i golpe, come insegna l’esperienza del 15 luglio 2016 in Turchia,
-spesso falliscono e producono una situazione peggiore di quella
attuale. Rimangono pure le accuse, diffuse in America ma anche in Asia,
che la Corea del Nord sia una trappola per Washington ordita dalla
Cina. Così, anche se a novembre si riuscisse a portare P’yongyang al
tavolo delle trattative, la situazione resterebbe altamente instabile.
Certo, attualmente anche solo mettere una toppa è fondamentale,
perché dà tempo di pensare senza essere trascinati dal turbinio della
cronaca. Ma la questione nordcoreana rimane oscura perché oscuri sono
motivi e finalità del giovane Kim; parimenti, non è chiaro dove possano
arrivare le trattative separate del suo regime con Pechino e Washington,
gli altri due principali attori della vicenda.
È chiaro che Kim non vuole la guerra,
perché nelle sue provocazioni è sempre attentissimo a non varcare il
punto di non ritorno, ossia a causare vittime tra i vicini. D’altro
canto è evidente che molto non ha funzionato – e non sta funzionando –
nella trattativa in corso, come dimostra la rapida successione di test
missilistici e ora anche nucleari nordcoreani.
La stessa Corea del Nord nasce grazie a un abile gioco di sponda del fondatore Kim Il-song tra Cina e Urss; in
questo gioco di sponda cresce e prospera con il figlio Kim Jong-il e
ora il nipote Kim Jong-un. P’yongyang già negli anni Quaranta si
inserisce tra i dissapori e le sviste esistenti tra sovietici e
comunisti cinesi per implementare un’agenda distinta da quella dei due
grandi vicini. Il Kim fondatore della dinastia nasce “cinese” perché
frequenta una scuola cinese, si iscrive al Partito Comunista Cinese e
poi viene formato a Mosca. Da questa abilità di mettere Urss e Cina
l’una contro l’altra è nato anche il coinvolgimento di Pechino nella
guerra di Corea (1950-1953). Abilità perfezionatasi tra il 1960 e il
1989: malgrado i rapporti tra Mosca e Pechino si fossero interrotti,
fino al crollo dell’Urss P’yongyang mantenne comunque in equilibrio le
relazioni con i suoi due vicini. In questo senso i coreani agirono in
maniera differente dai comunisti vietnamiti. Hanoi, dopo la fine della
guerra con gli Stati Uniti, scelse di schierarsi apertamente con l’Urss,
sentendosi tradita da Pechino che aveva abbracciato Nixon nel pieno
dello sforzo del Nord contro Saigon.
P’yongyang invece non ha mai preso una decisione netta
e ha sempre praticato una politica dei due forni, senza mai rompere con
Pechino o il Cremlino. Questa politica si è infranta con la fine
dell’Urss – quando Mosca non aveva più risorse da offrire e ciò ha messo
la Corea del Nord interamente nelle mani della Cina – nonostante i
tentativi costanti dagli anni Novanta a oggi di ricrearne le basi. Con
l’ammodernamento del proprio arsenale, Pyongyang è riuscita nel suo
intento, anche perché nel contempo si è gradualmente riaperto il “forno”
russo. In questo processo, i colloqui a 6 promossi da Usa e Cina alla
fine del secolo scorso di nuovo tagliavano la strada ai tentativi
nordcoreani di metterli l’uno contro l’altro. Ma premessa di questi
colloqui era che Pechino e Mosca si fidassero di Washington (e
viceversa) più di P’yongyang.
Oggi ci troviamo davanti a un quadro radicalmente diverso da quello degli anni Novanta.
La Corea del Nord è riuscita a ottenere ordigni nucleari e missili in
grado di caricarli, quindi è una minaccia strategica globale e non solo
per il Sud contro cui ha puntati migliaia di cannoni. Alle spalle c’è il
fallimento di due trattative negli ultimi vent’anni, per cui Corea del
Nord, Russia e Cina sono scettici sulla volontà americana di arrivare a
una soluzione. E c’è l’esperienza della guerra in Iraq di Bush figlio e
delle rivoluzioni al gelsomino dell’amministrazione Obama in Libia e
Siria. Interventi disastrosi che spingono i vicini più interessati –
Pechino, Seoul e Tokyo – a preferire lo status quo di un Kim
pazzo all’eventualità di un caos libico, siriano o iracheno. La sorte
di Gheddafi, che rinunciò al programma nucleare per essere deposto e
linciato, crea un precedente per Kim, che non si fiderà di eventuali
patti che includano il suo completo disarmo.
Qui si inserisce il problema precipuo: una sfiducia reciproca crescente tra Cina, Russia e Usa. La
questione nordcoreana non li unisce, anzi diventa il primo terreno di
scontro. P’yongyang ha creato una rete di economia criminale che
finanzia il suo programma di armamenti con una molteplicità di fonti,
compresi il traffico di droga (meta-anfetamine) e denaro falso (dollari e
yuan cinesi), nonché la diffusione di armi di distruzione di massa.
Dato che il costo del nucleare e della missilistica va riducendosi, Kim
può diventare un esempio per ogni dittatore o aspirante tale in giro per
il mondo. Ciò complica molto la trattativa con l’Iran, come detto, e dà
il là a un programma di riarmo massiccio nella regione.
Questa molteplici frizioni alle spalle hanno creato un clima ideale
per applicare l’arte che il regime dei Kim ha perfezionato in passato:
mettere gli altri attori l’uno contro altro facendo così emergere il
proprio potere e la propria forza di ricatto, mentre si assottigliano le
possibilità di ricorrere a opzioni militari. L’economia sudcoreana
cresce e il costo di un eventuale bombardamento dal Nord con cannoni
tradizionali diventa insostenibile, mentre il miglioramento degli
armamenti alza i costi del possibile scontro.
Senza un accordo tra Usa e Cina, l’unica risposta possibile parrebbe quella di arrendersi a Kim: dargli
quello che vuole e sperare nel suo buon cuore. Ma dato che Kim non ha
dimostrato di avere buon cuore, nessuno ha voglia di cedere e infilarsi
in una situazione che potrebbe rivelarsi senza uscita. Senza contare il
pesante precedente americano. Dopo l’11 settembre 2001, gli Usa non
possono rischiare di porsi sotto la minaccia di un pazzo che potrebbe
colpire con un missile nucleare Guam o San Francisco. In teoria la
soluzione è la solita: mettere tutti gli attori intorno a un tavolo e
concordare in anticipo cosa fare e cosa offrire, chiudendo così le porte
alla politica nordcoreana dei due forni. Dato che il regime vuole
sopravvivere, cercherà di alzare il prezzo ma alla fine cederà.
Finora è stato difficilissimo portare Usa e Cina intorno a un tavolo
per concordare una politica comune su P’yongyang, perché
entrambi credono che la crisi coreana sia usata per mettersi
reciprocamente in difficoltà. I cinesi temono che Washington la usi per
demonizzare la Repubblica Popolare, dipingendola come appunto il
burattinaio di P’yongyang – sarebbe solo un pezzo della nuova guerra
fredda che si sta componendo in Asia. Gli americani invece temono che i
cinesi usino Kim per spaventare attori vicini e lontani al fine di
espellere con le buone o con la forza gli Usa dall’Asia: se si risolve
bene la Cina si prende il merito e se finisce male gli Usa possono
essere accusati di tutto. Tanti vicini asiatici sostengono gli Usa,
perché non vogliono l’America fuori dall’Asia per trovarsi alla mercé
della Cina.
Sembra che ci sia del vero in entrambe le posizioni, senza contare Russia e Giappone
(per citare i più importanti) che non sono semplici spettatori ma
portatori di esigenze proprie. Pertanto, se nessuno ha un vero interesse
a ricomporre la crisi, a P’yongyang non rimane che alzare la posta. Con
interessi nazionali e internazionali così spaccati e contrapposti, al
di là della buona volontà dei mediatori di ogni paese è facile che la
situazione sfugga di mano. Forse bisognerebbe separare la contingenza
nordcoreana dalla questione generale asiatica. In tale contesto ci sono
problemi e preoccupazioni reali. A grandi linee, se la Cina dominasse
l’Asia – patria del 60% della popolazione mondiale e di gran parte della
sua crescita economica – dominerebbe con un sistema politico-economico
non trasparente e diverso da quello occidentale (adottato da ogni altra
parte).
Ammesso e non concesso il placet degli Usa,
la recente crisi del Doklam – dove per circa due mesi truppe indiane e
cinesi si sono guardate a brutto muso – evidenzia un allineamento di
paesi che si opporrebbe al predominio cinese. Dall’India al Vietnam, al
Giappone e forse anche alla Russia. In Cina qualcuno pensa che l’assenza
americana piegherebbe tutti. Potrebbe essere vero il contrario: senza
l’America, questi paesi potrebbero concludere che non resta che
affrontare frontalmente la Cina.
Dunque c’è un doppio problema cinese.
La Cina deve in sostanza allineare sistema politico ed economico a
quello dei paesi sviluppati dell’Occidente (vista la dimensione della
sua economia) e deve ripensare su base paritaria la sua politica
estera. D’altro canto le ultime presidenze statunitensi sono state
caratterizzate da una serie di disastri in Medio Oriente, mentre quasi
paradossalmente hanno avuto un approccio più saggio in Asia, facilitando
prosperità e stabilità regionali. Gli Usa dovrebbero portare in Medio
Oriente la loro politica asiatica, non viceversa. Ma queste opzioni di
lungo termine possono essere travolte dalla marcia della crisi
nordcoreana. Forse occorrerebbe scindere tale crisi dalle paure
asiatiche in generale, senza però fare di tale scissione un’arma di
propaganda o ricatto tra le parti.
In questa confusione Kim è oggi l’unico con un obiettivo chiaro,
che persegue con grande determinazione: ricattare chiunque ed emergere
sempre più come polo di attenzione globale, con tutte le ricadute
positive del caso.
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