L’Egitto torna in campo in Palestina
L’Egitto
torna in campo in Palestina. Lo fa partendo da Gaza e da Hamas per
lanciare un segnale all’Iran e avere una carta in più da giocare nei
confronti di Israele e delle petromonarchie del Golfo. Come è avvenuto
in Libia, il presidente…
limesonline.com
Se e quando i palestinesi torneranno a votare per eleggere il successore di Abu Mazen alla presidenza dell’Anp, Haniyeh sarà il candidato di al-Sisi. Con un occhio a Israele, all’Iran e alle petromonarchie del Golfo.
Al-Sisi non ha perdonato il sostegno dato da Hamas ai Fratelli musulmani egiziani
e al deposto presidente Mohamed Morsi. Dopo il colpo di Stato
perpetuato nel luglio 2013, la sua rappresaglia non si è fatta
attendere. Dopo l’arresto, tra i capi d’imputazione contro Morsi uno dei
più gravi e passibile di pena di morte è stato quello di avere
attentato alla sicurezza dell’Egitto in combutta con un nemico
esterno. Quel nemico era Hamas.
Alla “decapitazione” politica della Fratellanza,
che si è trasformata nell’incarcerazione dei leader di questo movimento
islamico, sono seguite misure concrete contro Hamas: la fine di ogni
sostegno politico, economico, militare e soprattutto la chiusura dei
tunnel che da Gaza arrivavano in Egitto passando sotto il valico di
Rafah.
Per Hamas è stato un colpo durissimo. Quei tunnel alimentavano l’economia della Striscia oltre a rappresentare, insieme al mare, una delle vie di transito per le armi destinate ai miliziani delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio militare del movimento islamico palestinese. Tuttavia, si sa che in Medio Oriente le alleanze sono volubili e il nemico di ieri può trasformarsi nell’alleato di oggi. I matrimoni qui non sono mai d’amore, sempre d’interesse.
Sullo scacchiere mediorientale, una delle priorità per Il Cairo è contrastare l’egemonia sciita
costruitasi sull’asse Baghdad-Damasco-Beirut e coinvolgente Gaza.
L’intelligence egiziana era a conoscenza dei rifornimenti di armi
destinati da Teheran a Hamas e del tentativo di ricucire l’alleanza
operativa tra Hamas e i fidati Hezbollah libanesi. Nasce da qui il
cambio di strategia deciso da al-Sisi per recuperare un rapporto con il
gruppo islamico in funzione di contenimento della penetrazione sciita in
Palestina. Al tempo stesso, Hamas ha un vitale bisogno di riaprire i
canali sotterranei con l’Egitto per alleggerire la morsa dell’embargo
imposto da Israele, che dura ormai da 12 anni. Vitale, perché senza il
sostegno egiziano Hamas non riesce più ad alimentare quel welfare che ha
garantito il proprio radicamento nella società palestinese.
Il supporto del Cairo rappresenta una duplice assicurazione sulla vita del movimento.
La prima sul piano militare, per far fronte alla penetrazione di
miliziani salafiti provenienti dal Sinai. La seconda sul piano sociale,
perché gli aiuti veicolati dall’Egitto e sborsati da Arabia Saudita e
Qatar sono essenziali per far fronte all’emergenza elettrica che da mesi
sconvolge i due milioni di abitanti della Striscia e per rafforzare le
esigue casse di Hamas.
Al-Sisi vuole essere lo sponsor della costruzione di un governo di riconciliazione
tra Hamas e al-Fatah, il movimento di cui Abu Mazen è presidente. Un
impegno che Haniyeh ha assunto al Cairo e che ora si prepara a gestire.
La novità è l’approccio che vuole imprimere alla questione palestinese,
cercando di rappresentare un ponte tra le correnti più radicali e quelle
considerate più moderate. “Questa è una conferma che Hamas è
rinnovabile – ha rimarcato in proposito il portavoce del movimento,
Fawzi Barhoum – speriamo che la prossima fase con Haniyeh porti a una
riconciliazione sul piano interno”.
Haniyeh è chiamato inoltre ad avviare relazioni più distese con l’Egitto.
“Se il leader politico di Hamas è dentro Gaza, avrà più conoscenze
sulla situazione della popolazione, del resto ogni uomo conosce meglio
il proprio ambiente; se una persona vive fuori, non parlerà
correttamente delle preoccupazioni del popolo, perché non le sentirà
vicine e necessarie”, ha aggiunto Barhoum. L’elezione di Haniyeh,
avvenuta il 6 maggio, ha
rappresentato la vittoria dell’ala “pragmatica” del movimento su quella
“militarista” che aveva portato a capo di Hamas Yahya al-Sinwar,
comandante delle brigate al-Qassam.
È politicamente rilevante che l’elezione di Haniyeh sia stata preceduta di qualche giorno da un nuovo programma strategico
contenente delle novità riguardo ai confini dello Stato palestinese.
Nel documento in questione Hamas ha formalmente accettato per la prima
volta l’idea che i confini della Palestina potessero essere quelli del
1967, precedenti alla guerra dei Sei Giorni vinta da Israele e persa da
Siria, Iraq e Giordania. Si tratta di un cambio di rotta importante
perché fino a questo momento Hamas ha sempre sostenuto che i confini
palestinesi dovessero ricalcare quelli stabiliti dall’Onu nel 1947,
molto più estesi.
Il movimento islamico, che non si spinge a riconoscere lo Stato d’Israele né accetta esplicitamente la cosiddetta soluzione “dei due Stati”, ha aggiunto che non cercherà di proseguire una guerra indiscriminata contro la popolazione ebraica ma concentrerà i suoi sforzi solo contro il sionismo, ossia quel movimento che ha come obiettivo la ricostruzione in Palestina di uno Stato ebraico.
La concessione più significativa fatta dal documento è contenuta nel seguente passaggio:
“[Hamas] considera l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente e
sovrana come una formula di consenso nazionale”. In più, Gerusalemme è
segnata come capitale lungo le linee del 4 giugno 1967 ed è previsto il
ritorno dei profughi alle loro case d’origine. Il documento è il
risultato di anni di discussioni tra le varie fazioni di Hamas ed è
visto da diversi analisti come un tentativo da parte del gruppo di
adottare un approccio più concreto e meno intransigente nei confronti di
Israele.
Un approccio di cui Haniyeh è espressione e al-Sisi il garante, come e più di quanto sia stato l’”ultimo faraone” Hosni Mubarak.
Commenti
Posta un commento