Fulvio Scaglione: La Wada assolve gli atleti russi. E cade così l'ultima bufala anti Mosca
Altro
giro, altro regalo. Con la notizia, anticipata dal New York Times (e
poi vedremo perché vale la pena di notare la fonte), che la Wada
(l’Agenzia mondiale…
occhidellaguerra.it|Di Fulvio Scaglione
Altro giro, altro regalo. Con la notizia, anticipata dal New York Times (e poi vedremo perché vale la pena di notare la fonte), che la Wada
(l’Agenzia mondiale antidoping) si appresta ad assolvere 95 atleti
russi sui 96 che erano accusati di doping sistematico, sprofonda nel
ridicolo anche il famoso Rapporto McLaren, presentato
nel 2016 dal giurista canadese e servito appunto a mettere alla berlina
lo sport russo. Bisogna ovviamente aspettare le motivazioni, che forse
emergeranno dopo la riunione a porte chiuse che il consiglio della Wada
terrà il prossimo 24 settembre. Pare che i campioni raccolti per
incriminare gli atleti diano risultati non affidabili o contrastanti, il
che vorrebbe dire che gli sportivi russi sono stati condannati (con le
squalifiche, il ritiro delle medaglie e con il bando dalle Olimpiadi di
Rio de Janeiro) senza prove.
Nella realtà, il Rapporto McLaren era servito per l’ennesima campagna politica contro la Russia di Vladimir Putin.
All’origine dello scandalo, infatti, c’erano le rivelazioni di Grigorij
Rodcenkov, che dal 2006 era stato capo del laboratorio anti-doping di
Mosca. Nel 2015 Rodchenkov era scappato negli Stati Uniti e lì,
confidandosi appunto al New York Times, aveva fatto lunghi
discorsi sulle droghe preparate per migliorare le prestazioni degli
atleti russi e sui metodi usati durante le Olimpiadi invernali di Sochi
2014 per far sparire le prove i campioni di urina necessari per gli
esami post-gara con l’aiuto dei servizi segreti. La conclusione,
immediata presso la stampa internazionale, era stata che Vladimir Putin
era il vero ispiratore del doping di Stato, per ragioni di orgoglio
nazionale.
Rodchenkov aveva ripetuto i suoi argomenti anche in due incontri con
gli investigatori della Wada, il 26 marzo e il 30 giugno del 2015,
durante i quali aveva sostenuto di aver personalmente distrutto migliaia di campioni di urine
relative agli atleti russi. In altre parole, il Rapporto McLaren era
basato solo sulle dichiarazioni di Rodchenkov, il quale a sua volta
diceva di aver distrutto le prove. Come si potesse in quel modo
orchestrare una campagna contro l’intero sport russo e, soprattutto,
stroncare la carriera e la credibilità di decine e decine di atleti di
primo livello, resta un mistero. Nessuno può mettere la mano sul fuoco
su quanto avveniva nei laboratori moscoviti (lo stesso Rodchenkov nel
2001 era finito sotto accusa, in Russia, per un presunto traffico di
sostanze dopanti) ma condannare senza prove è cosa che nessuna giustizia
può permettersi.
Era chiaro, però, che l’occasione di orchestrare l’ennesima campagna politica all’insegna della russofobia
era troppo ghiotta per lasciarla perdere. Così il Rapporto McLaren andò
a infittire la già folta schiera delle fake news di Stato destinate a
influenzare l’opinione pubblica. Ecco gli esempi più clamorosi.
Aprile 2016: escono i Panama Papers, massa enorme di
documenti sottratti ai server di Mossack Fonseca, uno studio legale
panamense specializzato in società off shore e trucchi finanziari.
Dentro c’è un po’ di tutto. Tra i leader beccati con le mani nella
marmellata, per fare solo qualche esempio, il presidente dell’Ucraina Petro Poroshenko, il premier del Pakistan Nawaz Sharif, il premier inglese David Cameron.
Solidi alleati dell’Occidente, quindi. Nella lista non ricorre nemmeno
un nome americano ma i titoli della stampa mondiale sono su Putin. Nei
Panama Papers ci sono i nomi di alcuni suoi amici diventati ricchi
oppure di ricchi diventati suoi amici, quindi lui “non poteva non
sapere”, anzi, è complice.
Gennaio 2016: il parlamento inglese autorizza la pubblicazione del Report into the Death of Alexander Litvinenko, lunga indagine condotta dall’ex giudice sir Robert Owen
sulla morte dell’ex spia russa, passata ai servizi segreti inglesi,
diventato grande accusatore di Putin e ucciso nel 2006 a Londra da un
avvelenamento da polonio che, secondo la versione più comune, sarebbe
stato orchestrato da due agenti segreti russi. In maniera incredibile, e
indegna di un giudice e di un parlamento occidentali, il rapporto di
sir Owen conclude che “probabilmente” fu Putin a volere la morte di
Litvinenko.
E poi c’è il caso più clamoroso, il cosiddetto Russiagate
degli Usa. Da più di un anno, 17 agenzie di sicurezza americane, che
dispongono di decine di migliaia di dipendenti, hanno un budget annuo
superiore ai 70 miliardi di dollari e sono peraltro perfettamente in
grado di intercettare e spiare chiunque (vedi telefonini sotto ascolto
di Hollande e della Merkel) cercano di dimostrare che la Russia, e
quindi ovviamente Vladimir Putin, è riuscita a controllare il processo
elettorale che ha portato alla Casa Bianca il miliardario Donald Trump. O
forse, per meglio dire, ha impedito a Hillary Clinton di diventare
Presidente. In un anno abbondante di indagini e di “rivelazioni”,
quell’imponente apparato non è riuscito a produrre uno straccio di prova
degna di questo nome, ma solo pochi e scarni rapporti dai quali si
deduce che anche i russi sanno usare un computer.
Tutto questo ci da la certezza che gli atleti russi non usino il
doping, che i servizi segreti russi siano popolati di gentiluomini e che
gli hacker russi non vogliano andare a sbirciare laddove non
dovrebbero? Ovvio che no. Ci dice però anche che qualcosa non funziona
dalle nostre parti, visto che per sentirci tranquilli dobbiamo farcire
la testa della gente con mezze verità, mezze balle e balle intere. Con
un ulteriore paradosso: meno facilmente la gente se le beve, più grandi
diventano le balle.
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