Cecilia Dalla Negra Riconciliazione palestinese

 
 
 
 

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L’inaspettata notizia di un possibile accordo di riconciliazione nazionale tra Al-Fatah e Hamas, in Palestina, è un’apertura senza precedenti dopo 10 anni di assedio israeliano della Striscia di Gaza e un’apparente vittoria politica per il presidente palestinese Abu Mazen.
Di Cecilia Dalla Negra
Ismail Haniyeh l’aveva detto: “Apriremo un nuovo capitolo delle relazioni politiche con l’Egitto”. Era il primo discorso pubblico dal suo insediamento come leader di Hamas, nel luglio del 2016, e il riferimento al governo del Generale Al-Sisi non era casuale. Una nuova pagina, che oggi ha il sapore della capitolazione: quella necessaria ad un riposizionamento quando, tutto intorno, gli equilibri di potere cambiano, e pesano su un lembo di terra tutt’altro che dimenticato se in gioco ci sono interessi strategici.
La notizia di un possibile accordo di riconciliazione tra Hamas e Al-Fatah – le storiche fazioni palestinesi in conflitto da sempre, ma entrate in una guerra fratricida all’indomani delle elezioni del 2006 – arriva inaspettata. Preceduta da una cinica campagna di pressione portata avanti dal governo di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) sui rivali, e in ultima battuta su una popolazione civile ormai allo stremo.
“Hamas accoglie l’appello dell’Egitto al dialogo con Fatah e si dichiara pronta alla riconciliazione”, si legge nel comunicato diffuso dal movimento islamista il 17 settembre scorso, che in 3 punti accetta lo scioglimento della commissione amministrativa messa in piedi per gestire gli affari interni alla Striscia; afferma di attendere l’insediamento di un Governo di unità nazionale a Gaza, e di approvare che siano indette nuove elezioni. Le prime dalla crisi del 2006, l’ultima volta in cui alla popolazione palestinese è stato concesso di esprimere un voto, recandosi alle urne per eleggere un governo che sarebbe stato di lì a poco boicottato sia da Fatah che dalla comunità internazionale.
Un’apertura dunque, almeno sulla carta. E una vittoria politica per Abu Mazen, che ha visto le sue condizioni accolte. Ma forse, solo all’apparenza.
Zoom
L’obiettivo si stringe. Palestina, Striscia di Gaza, quella in cui il 2017 segna 10 anni di assedio israeliano. La terra del triste primato: tra i luoghi più densamente popolati del mondo, carcere a cielo aperto in cui non si entra e da cui non si esce; l’area con il più alto tasso globale di disoccupazione: 44%, e l’80% della popolazione totalmente dipendente dagli aiuti internazionali. Con gli ospedali che vanno avanti solo grazie ai generatori e la corrente elettrica a intermittenza, 3 ore al giorno. Quella Striscia da cui Al Fatah è stata cacciata all’indomani del tentato colpo di Mohammed Dahlan (Abu Fadi), storico nemico di Abu Mazen; ma nella quale, in realtà, il partito ha continuato a tenere ben saldo il cordone della borsa. Perché se la situazione umanitaria – definita dalla Croce Rossa una “catastrofe sistemica” – negli ultimi mesi è ulteriormente precipitata, è anche per le pressioni esercitate da Abbas. Che da giugno aveva smesso di fornire energia elettrica, così come di pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici, nella speranza di gettare benzina sul fuoco di un malcontento popolare già ampio, a Gaza. Quello di una popolazione stremata dall’assedio, che la retorica di Hamas non riusciva più a consolare.
Quella stessa Gaza in cui, nel 2011, i giovani si erano sollevati, mentre nelle piazze del mondo arabo si facevano rivoluzioni.
E proprio con la richiesta di unità nazionale: perché immaginare di tenere testa ad Israele divisi non era più possibile. “Fine delle divisioni, riconciliazione” era lo slogan del Movimento 15 Marzo, che a Gaza come in Cisgiordania scese in strada per reclamare il diritto al futuro di una generazione cresciuta con l’inganno di Oslo. E che chiedeva alla propria leadership una cosa semplice: porre fine alla lotta interna per tornare ad immaginare una resistenza collettiva all’occupazione israeliana. Una sollevazione che non solo fu ignorata nelle sue richieste, ma anche violentemente repressa: non era quello il momento di mettere in discussione lo status quo, né un equilibrio di potere nel quale entrambe – Hamas e Fatah – sembravano trovarsi sin troppo bene.
Dal 2011 ad oggi i tentativi di riconciliazione – solo sulla carta – si sono moltiplicati. Portando puntualmente ad un prevedibile nulla di fatto. Retorica sommata alla retorica, mentre a Gaza si continuava a morire d’assedio, e in Cisgiordania di occupazione. E allora, cosa è cambiato oggi?
Murales di Banksi a Beit Hanoun, Gaza
Zoom out
Se l’obiettivo si apre, lo sguardo si allarga. Gaza diventa solo un frammento del puzzle, una pedina su un tavolo molto più grande. Quello sul quale Arabia Saudita e Qatar stanno giocando una partita che determinerà il nuovo ordine mediorientale. Nel gioco, anche un frammento può spostare equilibri, e poco importa ciò che desidera una popolazione civile ignorata. Perché su uno scacchiere regionale attraversato dal conflitto, anche per Hamas occorre trovare una nuova posizione.
Era già successo all’indomani delle rivolte arabe, quando era stata costretta a chiudere lo storico ufficio di Damasco abbandonando l’alleato di sempre, Bashar al-Assad, ed aprirne uno nuovo a Doha, in Qatar. Da lì sono arrivati i finanziamenti negli ultimi anni. Da lì è arrivato il cemento per costruire “più moschee che scuole”, come raccontano a Gaza, in cambio di una stretta su qualche libertà. Fino alla crisi dell’estate scorsa, quando Arabia Saudita, Bahrein, Emirati ed Egitto isolavano il Qatar con un embargo strategico, in nome della “lotta al terrorismo”.
Togliere la Striscia dall’area di influenza del Qatar e della Fratellanza Musulmana, accontentando insieme l’Egitto e il Golfo.
Segnare un altro punto in questo immenso Risiko regionale, che in base a convergenze di interessi variabili consolida inedite alleanze. E nel caso palestinese, queste passano per ciò che alcuni analisti definiscono “il fattore Dahlan”.
Il nemico del mio nemico è mio amico
Ed è proprio questo disperato bisogno di uscire dall’isolamento che riporterà Dahlan a casa. Il ritorno dell’uomo forte di Fatah, che negli anni ‘90 fu sentinella di Arafat. Originario di Khan Younis e allora Responsabile della sicurezza, fu strenuo oppositore degli uomini di Hamas, cui non riservava trattamenti gentili quando venivano arrestati dai reparti che controllava. Anche per questo, dal 2010 è persona non grata nella Striscia, che ha lasciato per un esilio (si racconta “dorato”) ad Abu Dhabi. Dove stringe legami forti con la famiglia regnante, senza dimenticare di rafforzare quelli con il Generale Al-Sisi. Che, nel frattempo, è diventato amico: è stato lui a rovesciare con un colpo di stato il governo della Fratellanza Musulmana al Cairo. Premurandosi però, subito dopo, di chiudere a doppia mandata il valico di Rafah.
Ecco allora che le pressioni esercitate da Abbas negli ultimi mesi sembrano aver sortito come unico risultato quello di spingere Hamas ad una altrettanto inedita alleanza. Se “il nemico del mio nemico è mio amico”, non è così assurdo immaginare un governo di unità nazionale che passi per lui, e che favorisca al contempo un accordo su Rafah e iniezioni di liquidità dagli Emirati. Un cambio di posizionamento, ancora una volta. Necessario a schierarsi sempre con chi appaia il più forte, rincorrendo la sopravvivenza.
Giochi, disegni, calcoli. Colpi di coda di fazioni in lotta per il potere ma strette all’angolo. Intorno a loro una popolazione dalla quale si sono definitivamente scollate, e che ha dimostrato di muoversi molto meglio quando lo fa da sola. Lo raccontano i tentativi di Intifada boicottati in questi anni, le tante richieste inascoltate. Ma soprattutto le lezioni di dignità, come quella restituita dalla protesta di Gerusalemme, nel luglio scorso. Quando una società civile determinata e pacifica ha manifestato, occupando le strade in preghiera fino a quando i tornelli imposti da Israele alla moschea di Al Aqsa non sono stati rimossi.
Una vittoria che né Abbas né Haniyeh hanno potuto controllare, e questa volta neanche cavalcare.
Perché, come scrive il giornalista palestinese Ramzi Baroud, “la Palestina è più grande ed ha molto più valore di entrambi i movimenti, delle loro ambizioni politiche, dei loro calcoli”.
La foto in apertura è stata scattata al posto di frontiera “Khamsa Khamsa” controllato da Al-Fatah, a Beit Hanoun/Erez.


 
 

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