Alberto Negri : Dialoghi sul Medio Oriente: gli Alauiti, Assad e l’Iran
La
narrativa sviluppatasi in ordine al conflitto che, dal 2011,sconvolge
la Siria, sgretolando ancor più la già segnata stabilità del Medio
Oriente, usa presentarci un Paese (quello siriano) governato da un
dittatore, Bashar al-Assad, che, nel…
opiniojuris.it
La narrativa sviluppatasi in ordine al conflitto che, dal 2011,sconvolge la Siria, sgretolando ancor più la già segnata stabilità del Medio Oriente, usa presentarci un Paese (quello siriano) governato da un dittatore, Bashar al-Assad, che, nel reprimere col sangue una rivolta popolare,ha dato inizio ad una guerra civile, che, ben presto (per gli attori,direttamente ed/od indirettamente coinvolti),ha assunto connotati internazionali. Essa ci propone, altresì, il clan Assad come il “nemico perfetto”, alleato di Mosca e di Teheran, nel mirino dei turchi, di gruppi Jihadisti, delle monarchie del Golfo e di parte delle potenze occidentali.
Abbiamo intervistato Alberto Negri, membro del Consiglio dell’ISPI[1], inviato speciale del giornale Il Sole 24 Ore, per il quale ha viaggiato in Africa, Medio Oriente e Balcani, ed autore, fra i tanti, di libri quali Il turbante e la corona. Iran, trent’anni dopo(Marco Tropea Editore, 2009) ed Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente
(Rosenberg &Sellier,2017), il quale ci ha fornito una interessante
analisi degli avvenimenti da una prospettiva diversa: quella degli
alauiti, ripercorrendo la loro storia, il loro credo, la loro
affermazione politica e religiosa ed il rapporto con l’Iran. I
discendenti di al-Khasibi oggi in Siria sono l’unica minoranza al potere
nel mondo musulmano. Essi rappresentano, infatti, solo il 10% dei 22
milioni di siriani e formano il nucleo centrale del partito Ba’th[2], che nel 1970 ha portato Hafiz al – Assad al potere.
Chi sono gli alauiti?
«Quella
degli alauiti è una storia lunga più di mille anni. Trattasidi un ramo
dell’islam manifestatosi nel IX° secolo in Iraq e che, probabilmente,
sarebbe sparito nei meandri della storia se non avesse avuto un profeta
come Al Khasibi, che, nel X° secolo, ad Aleppo, procedette ad una
sistemazione dottrinaria, scrivendo migliaia di pagine di libri
iniziatici.
L’importanza di Al Khasibi fu tale che gli alauiti, conosciuti anche come nusayriti[3],
chiamarono la loro confraternita “al-Khasibya” ed, alla morte del
profeta, avvenuta nel 969, il suo protettore e mecenate, Seif al-Dawla,
pronunciò una commovente orazione funebre.
Erroneamente
si è creduto che l’alauismo fosse un ramo dello sciismo, ma, in realtà,
gli alauiti recitano delle formule di preghiera totalmente diverse. Al
Khasibi affermava, ad esempio, che Alì[4]
fosse l’incarnazione di Dio e dunque persino più importante dello
stesso Maometto, considerato solo un profeta. Una cosmologia particolare
accompagnata dallo gnosticismo e dalla metempsicosi.
Altro
segno distintivo degli alauiti, rispetto a sunniti e sciiti, era la
totale assenza di moschee nei loro santuari; i misteri della dottrina
venivano praticati in luoghi remoti e inaccessibili ai non iniziati. Ciò
portò ad una accusa di eresia nei loro confronti, poiché considerati,
sia da parte dai sunniti (che li definivano kuffar, ossia miscredenti e idolatri), che dagli sciiti (che li consideravano ghulat),
una setta di mistificatori dell’Islam e di estremisti, in quanto per
gli alauiti la figura di Alì andava oltre ogni confine della religione
fondata da Maometto. Gli alauiti furono, per tale ragione, costretti a
rifugiarsi tra le montagne del Jebel Ansariyeh(dette anche “montagne
degli alauiti”), alla spalle di Latakia, dalle quali non scesero sino
alla fine dell’800, quando cominciarono ad attirare l’attenzione di
missionari ed orientalisti francesi e belgi[5].
Saranno i
francesi, con la caduta dell’Impero Ottomano, a puntare sulla minoranza
alauita, ai fini di una contrapposizione al crescente nazionalismo arabo
sunnita che puntava ad una Siria unita ed indipendente. La Siria,
sotto il mandato francese dal 1920, fu in fine frammentata e gli alauiti
si videro assegnare un proprio territorio, con capitale Latakia, che si
estendeva fino al Sangiaccato di Alessandretta[6]
in Turchia e che durò fino al 1936. Nel 1939, i francesi fecero un
passo indietro ed,in chiave anti-tedesca, cedettero alla Turchia il
territorio che rappresentava lo Stato degli “Alaouites”».
Quando nasce l’alleanza siro–iraniana?
«L’alleanza
siro–iraniana nasce ancora prima della rivoluzione iraniana,quando gli
alauiti cercavano una legittimazione religiosa e quindi politica, sia da
parte sunnita che sciita. Nel 1947, gli alauiti attirarono l’attenzione
dell’ayatollah al-Hakim, uno dei capi religiosi più importanti di
Najaf, che invitò 12 studenti alauiti nel centro pulsante della teologia
sciita. L’iniziativa fu un fiasco,solo tre studenti continuarono gli
studi, gli altri trovandosi di fronte un clima ostile decisero di
rientrare in Siria[7].
Si provò
poi la carta sunnita per la legittimazione, molti studenti scelsero la
prestigiosa università di al-Azhar al Cairo per proseguire gli studi
teologici.
L’ascesa
al potere di Hafez al-Assad e, quindi, di una minoranza alauita, fu
accolta con ostilità dalla borghesia urbana sunnita e dai funzionari
religiosi, ed il socialismo del partito Ba’th era visto come
potenzialmente destabilizzante, in quanto possibile veicolo di
redistribuzione delle terre dai sunniti agli alauiti.
I
religiosi sunniti provarono quindi a squalificare come miscredenti gli
alauiti e, dunque, Hafez al-Assad in base ai principi dell’ortodossia
sunnita.
Hafez
al-Assad cercò uno sponsor sciita che affermasse che gli alauiti
rappresentavano un ramo dello sciismo e quindi non fossero miscredenti.
La soluzione si manifestò nel 1973 nella figura dell’imam Musa Al Sadr,
un ayatollah sciita, figura fondamentale nello sviluppo del Libano
contemporaneo con il movimento Amal[8].
Al Sadr,
che dal 1967 era il presidente del Supremo Consiglio Islamico, da abile
politico, puntò a rivalutare il suolo degli sciiti in tutto il Medio
Oriente,in particolare in Libano, dove per secoli erano rimasti ai
margini della vita del Paese, dominato da cristiani-maroniti, sunniti e
greco-ortodossi, e decise poi di includere anche gli alauiti del nord
del Libano sotto la sua ala, nonostante gli stessi non godessero di una
buona fama tra gli sciiti.
Così in un hotel al centro di Tripoli, nel luglio del 1973, Al Sadr affermò che “I
fratelli alauiti e gli sciiti condividevano una storia di oppressione e
di persecuzione, e che nessun musulmano poteva arrogarsi il diritto di
monopolizzare l’islam[9]”. Atto formale di integrazione fu la nomina,da parte dell’imàm, di un eminente alauita locale, lo sceicco Alì Mansur, come muftì di Tripoli e del nord del Libano.
Dal punto
di vista religioso, la nomina non trovò eco nelle gerarchie sciite, essa
ebbe tuttavia molta importanza sotto il profilo politico, tanto da
determinare l’apertura di un canale sia con gli sciiti iraniani che con
quelli iracheni.
I rapporti
tra siriani ed iraniani divennero strategici dopo la rivoluzione 1979.
La Siria tollerava la presenza dei pasdaran iraniani nella valle della
Bekaa, dove stava nascendo il movimento degli Hezbollah in un Libano
sotto lo stretto controllo di Assad.
In cambio,
l’Iran stese il silenzio sulla repressione dei Fratelli Musulmani che
erano scesi in rivolta ad Hama. E quando Saddam Hussein, il 22 settembre
1980, invase l’Iran, la Siria fu l’unico Paese musulmano a schierarsi
con Teheran[10]. Quest’ultimo è un passo fondamentale, perché spiega l’intervento continuo dell’Iran negli affari siriani.
Dopo le prime rivolte nel 2011, abbiamo assistito all’emergere di gruppi jihadisti. Le sue considerazioni.
Le prime
rivolte furono organizzate da ribelli siriani a Damasco, ma furono in
pochi mesi esautorati da jihadisti che passavano dai confini turchi e
che provenivano da tutto il mondo arabo: dalla Cecenia, dall’Asia
centrale e dal Nord Africa.
La rivolta
si è subito trasformata in una guerra per procura, condotta da
formazioni radicali, sponsorizzate dai paesi del golfo, e che avevano
forti collegamenti con quelle locali in Siria ed in Iraq. Non
dimentichiamo che le formazioni radicali sono nate dopo il 2003, con la
caduta di Saddam Hussein, che ha avuto come conseguenza, tra altre,
l’alleanza tra al Qaeda ed ex ufficiali baathisti esautorati
dal potere, in quanto gli americani decisero di sciogliere le forze
armate irachene, che rappresentavano l’unica formazione nazionale del
paese e che tenevano insieme tutte le minoranze».
Da Hafiz a Bashar: perché Assad rappresenta il “nemico perfetto” per il mondo occidentale?
«Con gli
occhi occidentali si sono fatti sempre errori in Medio Oriente. Abbiamo
sempre sentito che Assad dovesse andare via. In realtà, inizialmente in
Siria si era scatenata solo una rivolta popolare. Solo in seguito,
questa ha acquistato i connotati di una guerra per procura.
Il
passaggio ha una data precisa: il 6 luglio 2011, quando a pochi mesi
dopo la rivolta iniziale, l’ambasciatore americano Robert Ford fece una
“passeggiata” tra i ribelli di Hama, dando così il chiaro segnale che
gli USA appoggiassero i ribelli, supportandola Turchia ed i Paesi del
Golfo.
La guerra
per procura aveva un duplice obiettivo: indebolire la Siria ed
esautorare gli Assad dal potere solo per colpire ed indebolire l’Iran.
Questo
obiettivo è fallito. L’ingresso della Russia nella partita ha
radicalmente cambiato l’esito e la geopolitica della regione è stata
sconvolta.
La Turchia
non ha saputo più gestire il traffico di jihadisti che attraversava i
suoi confini ed, inoltre, per limitare la crescente ascesa della
minoranza curda è dovuta scendere a patti con Russia ed Iran. Il blocco
sunnita che finanziava la rivolta contro la Siria è imploso; basti
vedere lo scontro tra Arabia Saudita e Qatar.
Insomma, questa guerra che doveva scardinare il potere di Assad e colpire l’Iran, non ha fatto altro che aumentare a contrario l’influenza iraniana nella regione».
È possibile pensare ancora ad una Siria unita od assisteremo ad uno smembramento in tanti piccoli Stati?
«Ci
troviamo di fronte a Paesi che, per ovvi motivi, non hanno nessuna
voglia di modificare e certificare una alterazione dei confini (in
particolare, Turchia ed Iran temono un Kurdistan indipendente).
Modificare i confini significherebbe creare un pericoloso precedente per
tutte quelle minoranze che, aspirando ad una indipendenza in Medio
Oriente, in Africa ed anche in Europa, determinerebbero un effetto a
catena, con inimmaginabili esiti per la stabilità mondiale
La
pacificazione della Siria e dell’Iraq passa attraverso il rispetto dei
diritti delle minoranze religiose ed etniche. Solo così ci sarà una
stabilità nella regione, con Assad che, nel medio-lungo periodo, dovrà
essere sostituito sempre con il benestare di Iran e Russia».
L’Iran è il maggior alleato siriano, ma perché è considerato un Paese “ostile”?
«La
politica americana in Medio Oriente si è basata da sempre su due alleati
storici: Arabia Saudita ed Israele. Il rapporto con Riyad fu sancito
fin dal 1945[11]
e con Israele praticamente dalla nascita, nel 1948. Nel corso dei
decenni gli Stati Uniti non hanno mai rinunciato a questi due pilastri.
Con la rivoluzione Islamica del 1979, l’Iran rappresenta
contemporaneamente un minaccia degli interessi americani e dei suoi
alleati.
Per la
verità però gli americani hanno sempre cercato di bilanciare delle forze
in campo: da una parte hanno sempre sostenuto i Paesi sunniti, basti
pensare alla guerra di Saddam Hussein contro l’Iran (1980), ma
dall’altra parte non hanno mai voluto che gli sciiti fossero davvero
sconfitti e l’invasione dell’Iraq del 2003, con l’ascesa al potere di Al
Maliki, da questo punto di vista è emblematica (la politica del “dual containment”).
Con Trump si passa dal bilanciamento al forte sbilanciamento in favore delle potenze sunnite».
Crede possibile uno sconto diretto tra Iran e le potenze sunnite?
«L’Iran, a
differenza degli altri Paesi nella regione, è temuto perché non è
ricattabile. Inimmaginabile pensare ad un attacco condotto dall’Iran,
anche perché la storia recente dello Stato ci dice che sono sempre stati
gli altri Paesi ad attaccarlo.
Il Governo
iraniano, come ha sempre fatto, cercherà di sfruttare gli errori degli
altri a proprio favore, come è accaduto con la guerra in Afghanistan
(2001), quando, in risposta agli attacchi alle Torri Gemelle, fu
abbattuto il regime talebano ostile all’Iran; così come la guerra
all’Iraq (2003) ha eliminato lo storico nemico Saddam Hussein
consegnando di fatto il paese ad Al-Maliki e rafforzando l’asse sciita.
Stesso discorso vale per la Siria. Prepariamoci a vedere altri errori
dei Paesi occidentali o delle potenze sunnite, come ad esempio potrebbe
essere la guerra nello Yemen, od un eventuale conflitto curdo-turco, che
aumenterà l’instabilità della regione, favorendo indirettamente
Teheran».
[1]L’Istituto
per gli studi di politica internazionale (ISPI) è un think
tank italiano, specializzato in analisi geopolitiche e delle tendenze
politico-economiche globali. Fondato nel 1934 come associazione, ha sede
a Palazzo Clerici, a Milano.
[2]Il Partito del Risorgimento Arabo Socialista (Ḥizb al-Baʿth al-ʿArabī al-Ishtirākī), meglio noto come Partito Baʿth Arabo Socialista o più semplicemente Baʿth ( ossia Risorgimento), è stato un politico panarabo, fondato nel secondo dopoguerra dai siriani Michel ʿAflaq e Ṣalāḥ al-Dīn al-Bīṭār.
[3]
Dal nome del loro fondatore Muhammad IbnNusayr , vissuto nel IX secolo e
probabilmente originario di Bassora , nell’Irak meridionale.
[4]ʿAlīibnAbīṬālib (La
Mecca, 17 marzo 599 – Kufa, 28 febbraio 661) è stato cugino primo e
genero del profetadell’Islam Maometto, avendone sposato la
figlia Fāṭima nel 622. Divenne nel 656 il quarto califfo dell’Islam.
[5]
Nel 1903, il gesuita belga Henri Lammens visitò un capo religioso
nusayri in Antiochia nella regione di Hatay (Turchia), e immaginando che
fossero antichi cristiani ipotizzò una speciale protezione francese.
[6] Odierna İskenderun.
[7]
Un altro tentativo fu fatto nel 1956 con risultati ancora peggiori del
precedente, con un pamphlet un giovane studente AhamadZakiTuffaneh
criticò aspramente la dottrina alauita e le sue gerarchie religiose, il
suo libretto divenne uno scandalo letterario tanto da provocare un
incidente diplomatico.
[8]Amal (“speranza”), fondata il 20 gennaio 1975, è l’acronimo di Afwāj al-muqāwama al-lubnāniyya“Distaccamenti
della Resistenza libanese”. È la milizia del “Movimento dei diseredati”
è diventata una delle più importanti milizie musulmane durante
la guerra civile libanese.
[9] Nel discorso Al Sadr riconosce anche l’Islam degli Aleviti turchi.
[10]
Rappresenta comunque un paradosso, da una parte l’Iran combatteva
contro l’Irak baathista di Saddam presentandolo come emblema
dell’empietà , e dall’altro sosteneva l’altro regime baathista quello di
Damasco.
[11]L’incontro
di ʿAbd al-ʿAzīz con il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano
Roosevelt, il 14 febbraio 1945. Il colloquio ha avuto luogo a bordo
della USS Quincy presso il Grande Lago Amaro nel canale di Suez. L’incontro ha stabilito le basi delle future relazioni tra i due paesi.
Foto copertina : Rovine di Palmira.
2 - Trump all'Onu: la retorica del male che aggrava le crisi
http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/…/…/edicola24web.html…
Alberto Negri - Trump all'Onu: la retorica del male che aggrava le crisi
Ha ragione Donald Trump nel suo discorso alle Nazioni Unite: l’accordo sul nucleare tra gli Stati Uniti e l’Iran è imbarazzante. Ma non per quello che lui pensa. imbarazzante perché l’Iran con la Russia e Assad hanno sconfitto l’Isis e se non ci fossero stati i pasdaran iraniani e le milizie sciite il Califfato avrebbe messo Baghdad sotto assedio. Se avessimo aspettato gli americani quanti jihadisti sarebbero arrivati in Europa a farsi saltare con le cinture del kamikaze?
La verità è che la guerra in Siria è stata persa dagli alleati degli Usa: dalla Turchia, membro della Nato, dall’Arabia Saudita e dalle monarchie del Golfo. E oggi gli americani, che nel 2011 mandarono l’ambasciatore Ford a passeggiare tra i ribelli di Hama, spingono in ogni modo per attaccare l’Iran, a parole, ben sapendo che sul campo è assai più difficile.
Più parla e meno è convincente perché fa torto alla superpotenza americana che aspira pur sempre a rimanere il guardiano dell’ordine mondiale. Soprattutto ora che la minaccia della Corea del Nord appare concreta: una sequela di provocazioni che Trump ha raccolto e adesso non sa come uscirne. Se la Corea attacca, ha detto, l’unica scelta è distruggerla: è evidente che qualunque stato si senta sotto minaccia correrà a procurarsi un’atomica proprio per non farsi attaccare. E ha aggiunto che è un «oltraggio» che ci siano Paesi che sostengono il regime di Pyongyang.
Se il riferimento è alla Cina, che pure ha votato le sanzioni Onu, la mossa è sbagliata. Senza la Cina, ma anche senza la Russia, sarà complicato disinnescare una guerra di nervi che rischia di precipitare con conseguenze devastanti per la Corea del Sud e il Giappone.
Trump parla come Bush junior ma in altri tempi e in altri contesti. Mostra di volere ignorare, diversamente dal passato, il disastroso bilancio americano dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003. Per non parlare, per quel che ci riguarda, della Libia nel 2011.
Trump è andato all’Onu per impartire lezioni che verranno accolte come il fumo negli occhi dalla comunità internazionale non schierata con il campo occidentale. Bacchetta il Venezuela e Cuba: esempi di Paesi assai poco democratici ma dopo il record negativo degli interventi americani quale ricetta hanno gli Stati Uniti?
Eppure ci tocca sopportare Trump perché senza l’America non si va da nessuna parte. Il rischio è che potremmo seguirlo in qualche nuova avventura militare senza né capo né coda. Basta riflettere sulla guerra al terrorismo cominciata dopo l’11 settembre 2001. Sono passati 16 anni e non siamo per niente in un mondo più sicuro. Può non piacerci un autocrate come Putin, possiamo pure detestare la repubblica islamica iraniana, ma quali alternative sono state messe in campo degli americani? Gli Usa di Trump hanno costruito barriere amministrative e di cemento che rendono più sicura l’America non l’Europa.
Certo quando dall’Onu si passerà a discutere in sede Nato il discorso di Trump le cose cambieranno, diventeranno più sfumate per elaborare qualche nuova linea di condotta che non tocchi troppo al rialzo, come chiede da tempo Washington, i nostri bilanci della difesa. Anche noi europei facciamo i furbi. Ma questa è una pericolosa illusione: di fronte alle minacce coreane serviva un discorso per rendere più unita la comunità internazionale, non per dividerla ancora di più.
Alberto Negri - Trump all'Onu: la retorica del male che aggrava le crisi
Ha ragione Donald Trump nel suo discorso alle Nazioni Unite: l’accordo sul nucleare tra gli Stati Uniti e l’Iran è imbarazzante. Ma non per quello che lui pensa. imbarazzante perché l’Iran con la Russia e Assad hanno sconfitto l’Isis e se non ci fossero stati i pasdaran iraniani e le milizie sciite il Califfato avrebbe messo Baghdad sotto assedio. Se avessimo aspettato gli americani quanti jihadisti sarebbero arrivati in Europa a farsi saltare con le cinture del kamikaze?
La verità è che la guerra in Siria è stata persa dagli alleati degli Usa: dalla Turchia, membro della Nato, dall’Arabia Saudita e dalle monarchie del Golfo. E oggi gli americani, che nel 2011 mandarono l’ambasciatore Ford a passeggiare tra i ribelli di Hama, spingono in ogni modo per attaccare l’Iran, a parole, ben sapendo che sul campo è assai più difficile.
Più parla e meno è convincente perché fa torto alla superpotenza americana che aspira pur sempre a rimanere il guardiano dell’ordine mondiale. Soprattutto ora che la minaccia della Corea del Nord appare concreta: una sequela di provocazioni che Trump ha raccolto e adesso non sa come uscirne. Se la Corea attacca, ha detto, l’unica scelta è distruggerla: è evidente che qualunque stato si senta sotto minaccia correrà a procurarsi un’atomica proprio per non farsi attaccare. E ha aggiunto che è un «oltraggio» che ci siano Paesi che sostengono il regime di Pyongyang.
Se il riferimento è alla Cina, che pure ha votato le sanzioni Onu, la mossa è sbagliata. Senza la Cina, ma anche senza la Russia, sarà complicato disinnescare una guerra di nervi che rischia di precipitare con conseguenze devastanti per la Corea del Sud e il Giappone.
Trump parla come Bush junior ma in altri tempi e in altri contesti. Mostra di volere ignorare, diversamente dal passato, il disastroso bilancio americano dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003. Per non parlare, per quel che ci riguarda, della Libia nel 2011.
Trump è andato all’Onu per impartire lezioni che verranno accolte come il fumo negli occhi dalla comunità internazionale non schierata con il campo occidentale. Bacchetta il Venezuela e Cuba: esempi di Paesi assai poco democratici ma dopo il record negativo degli interventi americani quale ricetta hanno gli Stati Uniti?
Eppure ci tocca sopportare Trump perché senza l’America non si va da nessuna parte. Il rischio è che potremmo seguirlo in qualche nuova avventura militare senza né capo né coda. Basta riflettere sulla guerra al terrorismo cominciata dopo l’11 settembre 2001. Sono passati 16 anni e non siamo per niente in un mondo più sicuro. Può non piacerci un autocrate come Putin, possiamo pure detestare la repubblica islamica iraniana, ma quali alternative sono state messe in campo degli americani? Gli Usa di Trump hanno costruito barriere amministrative e di cemento che rendono più sicura l’America non l’Europa.
Certo quando dall’Onu si passerà a discutere in sede Nato il discorso di Trump le cose cambieranno, diventeranno più sfumate per elaborare qualche nuova linea di condotta che non tocchi troppo al rialzo, come chiede da tempo Washington, i nostri bilanci della difesa. Anche noi europei facciamo i furbi. Ma questa è una pericolosa illusione: di fronte alle minacce coreane serviva un discorso per rendere più unita la comunità internazionale, non per dividerla ancora di più.
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