Valigia blu :Boldrini e gli odiatori online. Il Ministro della Giustizia propone la “giustizia fai da te”
Con un post su Facebook del 14 agosto, Laura Boldrini dice basta agli odiatori del web e ai loro insulti.
Come posso chiedere ai nostri giovani di non soccombere e di denunciare i bulli del web se poi io stessa non lo faccio?
Ai nostri figli dobbiamo dimostrare che in uno Stato di diritto chiunque venga aggredito può difendersi attraverso le leggi. E senza aggiungere odio all'odio, ne abbiamo già abbastanza.
Sacrosante le parole della Presidente della Camera.
Non è ammissibile che una persona, qualunque persona, debba accettare un
linciaggio quotidiano come quello da lei ingiustamente subito negli
ultimi anni. Ma il post, col quale Boldrini annuncia di voler portare in
giudizio coloro che la insultano quotidianamente, solleva una serie di
problemi di non poco conto.
Giovanni Gallus su Facebook, infatti, si chiede giustamente se “l'arma della denunzia-querela è risolutiva della diffamazione e dell'odio online”. Anche Fulvio Sarzana evidenzia
le difficoltà, talvolta insormontabili, nel perseguire la giustizia
davanti un giudice per casi di questo tipo: procure ingolfate,
difficoltà per le rogatorie, ecc. Su Webnews Marco Viviani dà un’ottima sintesi del dibattito in corso, evidenziando
il fatto che querelare non è detto che porti a qualcosa, a causa della
situazione decisamente precaria della giustizia in Italia.
E allora, chi meglio del Ministro della Giustizia può chiarirci la situazione? Nell'intervista di Alessandra Arachi per il Corriere della Sera, il ministro Andrea Orlando ci dice quanto segue:
Non sempre la risposta penale è l’unica praticabile e si finirebbe per sovraccaricare le procure in maniera insostenibile. Anche se occorre che gli strumenti della repressione penale si adattino al cambiamento tecnologico della comunicazione:
Questo è vero, la Procure sono ingolfate, e
generalmente presentare una denuncia od una querela per fatti del genere
(ritenuti di scarsa importanza, rispetto a reati decisamente più gravi
come rapine, omicidi, ecc…) vuol dire nella maggior parte dei casi non
ottenere alcuna risposta. Molte querele per diffamazioni online non
hanno alcun seguito, anche compulsare continuamente il PM, sperando che
si legga solo le carte, talvolta non porta che a frustrazione.
Ciò dipende dalle sempre più scarse risorse che
vengono destinate alla Giustizia, laddove lo Stato appare
progressivamente ritirarsi da questo settore. Infatti, sono stati
soppressi uffici di giudici di pace e sezioni distaccate dei tribunali, e
gli organici sono sempre più ridotti. Nel civile si sta delegando il
più possibile alle cosiddette ADR (alternative dispute resolution,
cioè sistemi di risoluzione delle controversie alternativi alla
giustizia statale, quali mediazioni e negoziazioni assistite). Ma
probabilmente dipende anche, seppur in minima parte, dal fatto che
alcuni magistrati non sanno come gestire le indagini per fatti avvenuti
online.
Continua Orlando, sostenendo che per combattere gli hater ci sono strumenti più incisivi dell’azione penale ordinaria.
Sanzioni all’interno dello stesso luogo dove si svolgono i reati: la Rete. Rimuovere un post o sospendere un profilo è una punizione a cui l’odiatore è decisamente sensibile.
I paesi dell’Unione europea hanno fatto una convenzione (ndr Per la convenzione a cui si riferisce il ministro leggete l'articolo: Codice europeo contro l’hate speech: i primi risultati e cosa non va) con i principali provider affinché si responsabilizzino in questo senso. L’accordo è che rimuovano su segnalazione i post o rimuovano i profili sgraditi, sempre su segnalazione anche di soggetti estranei all’ingiuria.
Alcune Ong europee (previste dalla convenzione) hanno monitorato le rimozioni dei post e le sospensioni dal sito: purtroppo sono poche e avvengono molto lentamente.
Che gli odiatori del web siano sensibili alle
rimozioni è un’opinione del ministro, se Boldrini dopo 4 anni e mezzo
decide di cambiare strategia e ricorrere alle vie legali probabilmente è
proprio perché si è resa conto che le “sanzioni” online non sono un
reale deterrente. Se so che il peggio che mi può accadere è che mi
rimuovano l’insulto, mi pare evidente che questa sanzione non ha alcun
effetto. Forse la sospensione (che è temporanea) potrebbe avere un
minimo effetto deterrente, ma l’odiatore può aprire tranquillamente un
altro account, casomai con nome falso (rendendone quindi più difficile
l’identificazione). Tutto si può dire tranne che siano effettive
sanzioni. Anzi, paradossalmente si aiutano gli hater cancellando le
prove dei loro reati.
Ma il bello viene dopo.
Penso che comunque un modo ci sia per riuscire ad infliggere queste sanzioni e a renderle efficaci.
Le alleanze contro l’odio.
Le vittime della violenza della Rete dovrebbero unirsi per fare un fronte unico contro gli odiatori. Un po’ come hanno fatto nella società reale soggetti deboli che avevano bisogno di tutele.
E per essere più chiaro:
Domanda: Un’autorganizzazione degli utenti, quindi? Non sarebbe bene avere anche una tutela delle istituzioni?
Risposta: Credo che le istituzioni debbano rimanere fuori. Penso piuttosto all’ausilio di Fondazioni bancarie o, in generale, di soggetti che si occupano di sociale.
In sintesi, il Ministro della Giustizia (e sottolineo il suo ruolo) dice che la Giustizia i cittadini se la devono fare da se stessi (casomai facendosi prestare soldi dalle banche), e le istituzioni devono rimanerne fuori. Orlando fa riferimento a lobby, le “alleanze contro l’odio”, per contrastare i fenomeni di odio online, alleanze “che i provider non possono ignorare”. Ma è abbastanza evidente che contro un’azienda come Facebook non è che il numero faccia così tanto la differenza.
Uno, cento o mille persone che chiedono a Facebook di rimuovere un post? In realtà si fa già adesso. Dopo la presa di coscienza del fallimento dell’autoregolamentazione (basti pensare alla vicenda della Napalm Girl), Facebook si sta orientando sulla gestione tramite segnalazioni degli utenti, più segnalazioni ci sono e più possibilità vi sono che un post sia cancellato. Ovviamente esistono anche dei filtri,
software che verificano ricorrenze di determinate parole e che poi
rimandano i contenuti a dei revisori, spesso non adeguatamente
preparati, spesso non di madrelingua, sicuramente molto più oberati di
lavoro di una qualsiasi Procura italiana. Gli standard di lavoro di
questi revisori pretendono decisioni in pochissimi secondi. Tutto ciò
porta a evidenti danni collaterali quali la possibile censura di
contenuti del tutto leciti.
Oltretutto occorre ricordare che Facebook è un'azienda privata, che non è vincolata al rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini. La
regolamentazione dei contenuti dipende principalmente da esigenze
economiche e dalla ovvia volontà di non inimicarsi (troppo) i governi
con i quali ha a che fare. Il risultato è quello sotto gli occhi di
tutti.
Il Ministro della Giustizia, di fatto, certifica la
volontà dello Stato di non occuparsi della tutela dei diritti dei
cittadini, abbandonando gli spazi online, la cui regolamentazione viene
sempre più demandata alle grandi aziende del web. Orlando invoglia gli
utenti a “unirsi tra loro”, laddove dichiarazioni del genere
potrebbero essere intese come una sorta di via libera a una giustizia
privata e personale. Cosa faranno le “lobby”, con le istituzioni che si
tengono fuori, nel momento in cui vedono che dopo l’ennesima rimozione
di un post diffamatorio l’hater di turno ritorna a insultare? Cosa faranno le “lobby” sapendo, ad esempio, che il loro hater abita non molto distante da loro?
Un aspetto da rimarcare è che molto spesso gli haters del web non sono affatto anonimi,
anzi scrivono tranquillamente col loro nome e cognome, per cui molti di
loro sono facili da rintracciare. Fermo restando che comunque un vero e
proprio anonimato non esiste, poiché le autorità di Polizia sono in
grado di rintracciare quasi tutti, anche se purtroppo la Polizia non ne
ha il tempo. Solito problema di mancanza di risorse. Ma, tornando all’anonimato,
esistono studi che suggeriscono l’esistenza di un'interazione tra il
livello di anonimato e il senso di appartenenza al gruppo.
Gli esperimenti di Philip Zimbardo chiariscono il concetto di deindividuazione,
cioè la perdita di autoconsapevolezza e autocontrollo che si sperimenta
in determinate situazioni nelle quali l'individuo si trova ad agire
all'interno di dinamiche sociali e di gruppo. In questo modo l’individuo
riesce a porre in essere azioni con forti connotazioni negative, anche
se normalmente non ne sarebbe capace.
Il modello SIDE (Social Identity model of Deindividuation Effects)
è lo sviluppo della formulazione di Zimbardo, elaborato nel 1995 da
Russell Spears e Martin Lea. Secondo questo modello le persone che
sentono l'appartenenza a un gruppo, la comunanza di interessi o di punti
di vista, sono più spinte ad adeguarsi ai comportamenti del gruppo. In
tal modo l’intero gruppo si polarizza su posizioni estreme (anche quale
difesa verso gli elementi esterni al gruppo) e agisce di conseguenza.
Interagire con altro soggetti con le stesse nostre convinzioni porta
facilmente a convincersi della bontà delle nostre idee (cassa di
risonanza). E sappiamo bene che in Internet i flussi di notizie sono
alterati in modo che ogni individuo riceva notizie più consone al
proprio modo di pensare (bolla filtrante, Eli Pariser).
Questo per dire che è il senso di appartenenza ad un gruppo che innesca fenomeni di polarizzazione, che poi portano a varie forme di violenza in rete, non certo l’anonimato.
Infatti, la maggior parte delle persone che insultano la Presidente
Boldrini lo fanno con nome e cognome. Boldrini, infatti, ogni tanto
posta elenchi di queste persone, con un effetto di gogna mediatica
che di fatto alimenta il senso di apparenza al gruppo (quelli che sono
contro Boldrini potremmo definirli) e aumenta la polarizzazione di
queste persone. Il senso di impunità (per l'assenza di effettive
sanzioni, come detto sopra) fa il resto.
Inutile la gogna, deleterie le sanzioni di rimozione, la Presidente
Boldrini si sarebbe convinta della necessità di rivolgersi alla
giustizia.
Alcuni commentatori ritengono questa strada frustrante e complessa, ma è l’apparato statale che ha gli strumenti giusti e i magistrati hanno le competenze adatte (sono sicuramente più preparati di un qualsiasi revisore di Facebook) per intervenire su queste problematiche, almeno quando sfociano in veri e propri reati (come nel caso di Boldrini).
Alcuni commentatori ritengono questa strada frustrante e complessa, ma è l’apparato statale che ha gli strumenti giusti e i magistrati hanno le competenze adatte (sono sicuramente più preparati di un qualsiasi revisore di Facebook) per intervenire su queste problematiche, almeno quando sfociano in veri e propri reati (come nel caso di Boldrini).
È evidente che lo stato della giustizia italiana è disastroso, con
risorse ridotte al lumicino, ma non si può dire ai cittadini che non
possono presentare più querele perché le Procure sono oberate di lavoro,
non si può dire ai cittadini che lo Stato non può tutelare i loro
diritti, a meno che non si voglia ammettere che lo Stato, questo Stato,
questo governo, ha fallito il suo compito e non è in grado di garantire le condizioni minime per la democrazia.
Allora occorre che i cittadini si facciano sentire, che facciano fronte comune, che facciamo, appunto, lobby,
per chiedere, anzi per imporre allo Stato di non rinunciare ai suoi
compiti, di non abdicare alla tutela dei diritti dei cittadini (ma anche
l'educazione scolastica, la salute) e di investire più risorse. Una
giustizia migliore consente ai cittadini di vivere meglio, laddove la
costante e pervasiva presenza dell'ingiustizia a livello sociale sfalda
progressivamente le regole di convivenza della società.
I vari problemi, poi, possono essere risolti, se c'è un'adeguata
volontà. Ad esempio, invece di fare codici per delegare ai social la
rimozione dei contenuti online in base alla policy delle aziende (si
chiama privatizzazione), perché non pensare a dei protocolli per
risolvere le difficoltà dell'accesso alle informazioni degli utenti a
fini di identificazione e prova? La forza contrattuale dell'Unione
europea è sufficiente per imporre alle grandi aziende del web degli
obblighi, così come sta accadendo nell'ambito della tutela dei dati
personali (la legislazione europea in materia si applica
indipendentemente da dove è stabilita l'azienda, basta che rivolge i
suoi servizi a cittadini europei).
Allo stesso modo occorrono investimenti nel settore
scolastico per creare una cultura non solo digitale (perché il problema
non è in rete ma nella società) ma una cultura che alimenti la
convivenza e il rispetto per il prossimo (e qui dovremmo cominciare
dalla politica, forse).
Infine, il quadro non è così nero come ce lo presentano. Basta leggere il caso raccontato su Valigia Blu:
un politico che ha ottenuto il risultato con la sola presentazione
della querela. Colui che ha insultato Ivan Scalfarotto difficilmente
ripeterà il suo comportamento, dimostrando così che questo può essere un
ottimo modo per risolvere il problema della violenza e dell’odio
online. Occorre che la “sanzione” abbia un vero e proprio effetto
deterrente. Non è necessario che siano perseguiti tutti, è sufficiente,
in un ottica di prevenzione generale, che pochi siano perseguiti e che
qualcuno subisca delle sanzioni concrete. Poi la "pubblicizzazione” della sanzione, probabilmente, potrebbe avere un effetto deterrente anche sugli altri.
Alla fine della sua intervista, il Ministro della Giustizia conclude:
Penso che se i soggetti deboli cominciano a dialogare a ad unirsi tra loro possono diventare una lobby assai potente che i provider non possono ignorare. Noi qualcosa di simile lo abbiamo già sperimentato per contrastare le fake news.
Partendo dal presupposto che molte fake news siano strumento di propaganda dell’odio, abbiamo messo in Rete una serie di soggetti già autorganizzati nella società.
Le associazioni che si tutelano per l’odio contro la razza, il sesso, la religione. Sono state messe in Rete per monitorare i siti e fare controinformazione. Un esperimento che sta dando buoni risultati.
Non sappiamo esattamente a quali organizzazioni si
riferisce il ministro Orlando, ma è piuttosto grave sentire che esistono
organizzazioni che fanno “controinformazione” online (come in Cina per
capirci).
In una democrazia l'informazione è un elemento fondamentale, perché
solo il cittadino correttamente informato può esercitare la sovranità
popolare. Ma se vi sono delle organizzazioni che fanno
controinformazione ciò può facilmente portare a distorsioni del flusso
informativo e strumentalizzazioni, casomai a favore di un partito
politico, casomai a favore del governo, casomai contro i dissidenti e le
opposizioni. Quindi, in un'ottica di trasparenza, considerando che in
una democrazia compiuta i cittadini devono poter controllare l'operato
del governo, chiediamo al Ministro della Giustizia:
-
- Quali sono queste organizzazioni che fanno controinformazione?
- Chi controlla l'operato di queste organizzazioni al fine di evitare abusi?
- Vengono pagate, e se si da chi e come, per svolgere il loro lavoro?
Per concludere, non sarebbe meglio, invece,
utilizzare i soldi per le organizzazioni (ma vale anche i soldi spesi
negli ultimi anni per dibattiti, convegni, commissioni che hanno
discusso, direi inutilmente a questo punto, di queste problematiche) per
dare più risorse alla giustizia italiana?
Come ha detto la Presidente Boldrini:
Ai nostri figli dobbiamo dimostrare che in uno Stato di diritto chiunque venga aggredito può difendersi attraverso le leggi.
Detto in altre parole, tutti sono soggetti alla legge. Senza il rispetto di questo principio non c'è democrazia. E non c'è alcuno Stato.
Foto anteprima via Ansa
La
Presidente della Camera ha annunciato che denuncerà chi la insulta sui
social. La proposta “improbabile” del Ministro Orlando.
valigiablu.it|Di Bruno Saetta
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Grillini
o fascisti dichiarati, seguaci di Padre Pio, 'gattari', di scarsa
estrazione sociale e culturale, ecco l'identikit dei molestatori
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