Giorgio Bernardelli Per non abituarsi al terrore - VinoNuovo.it
Non
ci abitueremo al terrore solo se non rinunceremo a ragionare su di noi.
Perché farlo non è una resa al ricatto dei violenti, ma - al contrario -
l'unico modo per tornare a guardare più lontano di loro
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Non
abituarsi al terrorismo. Di fronte alle nuove stragi islamiste di
Barcellona e della Finlandia (e a quella di Ouagadougu in Burkina
Faso di cui probabilmente nemmeno ci siamo accorti) ascoltiamo
l'ondata di parole che segue sempre questi tragici avvenimenti. E ci
chiediamo: come non lasciarci paralizzare dal ripetersi di un copione
già visto? Come non cedere alla sensazione che - con buona pace dei
lumini e delle manifestazioni - qualsiasi cosa diciamo o facciamo
appare inutile?
Non è facile provare a dare una risposta convincente a questa domanda. Personalmente trovo stucchevoli i commenti che iniziano con il perentorio "Adesso basta...". Fosse così semplice. Il terrorismo jihadista è frutto di decenni di contraddizioni, tra le quali c'è anche il lungo e scellerato flirt tra i nostri affari e l'ascesa di quei regimi che foraggiavano (e tuttora foraggiano) le scuole di pensiero più retrive all'interno del mondo islamico; le stesse che hanno posto le premesse dottrinali per questa cultura di morte. "Adesso basta..." probabilmente avremmo dovuto dirlo venti o trent'anni fa. E - peraltro - anche oggi farlo sul serio significherebbe essere disposti a mettere in discussione ricche commesse o investimenti finanziari provenienti da alcune aree del mondo. Cosa che i governi occidentali, invece, continuano a mostrare di non essere capaci di fare.
Detto questo, però, il rischio contrario, quello del fatalismo, rimane ugualmente serio. Il rischio di rassegnarsi alla violenza e al terrore come a una sorta di male ineliminabile che ciclicamente torna a fare irruzione nei luoghi che conosciamo bene e sentiamo vicini. Come provare, allora, a reagire davvero, senza ripetere slogan vuoti, ma nemmeno lasciando che - passata l'emozione o l'immagine del momento - tutto scorra via fino al prossimo attentato?
Non è facile provare a dare una risposta convincente a questa domanda. Personalmente trovo stucchevoli i commenti che iniziano con il perentorio "Adesso basta...". Fosse così semplice. Il terrorismo jihadista è frutto di decenni di contraddizioni, tra le quali c'è anche il lungo e scellerato flirt tra i nostri affari e l'ascesa di quei regimi che foraggiavano (e tuttora foraggiano) le scuole di pensiero più retrive all'interno del mondo islamico; le stesse che hanno posto le premesse dottrinali per questa cultura di morte. "Adesso basta..." probabilmente avremmo dovuto dirlo venti o trent'anni fa. E - peraltro - anche oggi farlo sul serio significherebbe essere disposti a mettere in discussione ricche commesse o investimenti finanziari provenienti da alcune aree del mondo. Cosa che i governi occidentali, invece, continuano a mostrare di non essere capaci di fare.
Detto questo, però, il rischio contrario, quello del fatalismo, rimane ugualmente serio. Il rischio di rassegnarsi alla violenza e al terrore come a una sorta di male ineliminabile che ciclicamente torna a fare irruzione nei luoghi che conosciamo bene e sentiamo vicini. Come provare, allora, a reagire davvero, senza ripetere slogan vuoti, ma nemmeno lasciando che - passata l'emozione o l'immagine del momento - tutto scorra via fino al prossimo attentato?
Balbetto
mezza idea, sapendo che qui sotto non mancherà chi vorrà aggiungere
la sua. E la prima cosa che mi viene da dire è: non fermiamoci alle
risposte politiche. Certo che ci vogliono servizi di intelligence più
accorti e sistemi di sicurezza efficaci. Ma non nascondiamoci dietro
a un dito: la storia recente di tanti Paesi (Israele, ad esempio)
dice che una risposta "tecnica" al terrorismo cambia solo le
modalità di azione di chi vuole uccidere. Le stesse nuove "armi"
utilizzate negli attentati più recenti lo dimostrano: se l'azione
omicida è quella di un auto scagliata volontariamente su un gruppo
di persone scelte a caso, si potranno proteggere meglio le zone più
simboliche delle nostre città; ma chi vuole seminare morte e terrore
un marciapiede affollato facile da colpire lo troverà sempre e
comunque.
Se
vogliamo reagire sul serio occorre il coraggio di portare il discorso
su un altro piano; tornare a chiederci che cosa abbiamo da
contrapporre a quest'odio ammantato di motivazioni religiose. Perché
è troppo facile ripetere per qualche ora in piazza che noi siamo più
forti, che non abbiamo paura, che questi gesti non cambieranno il
nostro modo di vivere e che non ci faranno retrocedere dai valori in
cui crediamo. Ma è davvero così? Quali sono questi valori su cui
oggi fondiamo il nostro stare insieme? E di chi parliamo quando
diciamo "insieme"?
Non
ci abitueremo al terrore solo se non rinunceremo a ragionare su di
noi. Perché farlo non è una resa al ricatto dei violenti, ma - al
contrario - l'unico modo per tornare a guardare più lontano di loro.
Chi educa all'odio i giovani musulmani cresciuti nelle nostre
periferie, infatti, lo fa proprio puntando il dito contro di noi. Lo
fa dicendo a questi ragazzi che - sotto i nostri slogan altisonanti -
non abbiamo un'idea in grado di tenere insieme il mondo. Dicono che
non abbiamo speranze da offrire loro, ma solo qualche briciola in più
da consumare. Non usano formule magiche, ma parlano di noi. E davanti
a questi stessi giovani, oggi, noi che cosa siamo in grado di
ribattere?
In
questi giorni ripensavo a Dietrich Bonhoeffer e ai suoi anni nel buio
della Germania nazista. Anche lì la follia, la menzogna, le violenze
mostruose continuavano a ripetersi, apparentemente uguali e
invincibili. E quale fu la sua strada per non abituarsi? Bonhoeffer
non rinunciò a interrogarsi sulle responsabilità politiche in
quella Germania in corsa verso il baratro. Però coltivò anche
un'altra domanda, più profonda; l'interrogativo che sarebbe
diventato centrale nel tempo della prigionia e nelle pagine di
Resistenza e resa.
Il teologo in carcere per aver detto no al nazismo si chiedeva: in un
mondo dove Dio non è più percepito (o è del tutto idolatrato, come
nella violenza jihadista di oggi), come parleremo ancora di Lui? E
concludeva: "Viene il giorno in cui sarà forse impossibile parlare
apertamente, ma noi pregheremo, faremo ciò che è giusto e il tempo
di Dio verrà".
E'
questa perseveranza l'antidoto vero all'abitudine. Una perseveranza
alimentata dalla preghiera, ma anche dalla domanda su ciò che è
giusto. Giusto qui per noi. Ma anche per tutti i nostri giovani
fratelli che non vogliamo lasciar trasformare in carne da macello
nelle mani dei maestri dell'odio.
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