Fulvio Scaglione: Le radici del nuovo terrorismo europeo. Strage di Barcellona, dove germina questo male

 
 
 
Siamo di fronte, ormai, a un terrorismo compiutamente europeo, nel senso che nasce qui e ha caratteristiche che rispondono alla situazione dei nostri Paesi.
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Se vogliamo farci un’idea più chiara di quanto è successo a Barcellona, e insieme di quanto negli ultimi anni succede nelle grandi città d’Europa (Parigi, Nizza, Berlino, Londra), dobbiamo dimenticare le rivendicazioni di Daesh. Le residue milizie dal Califfato sono schiacciate in pochi angoli di Siria e Iraq e hanno ben altro a cui pensare. Il terrorismo che ci colpisce, dunque, non è più importato, forse non è più nemmeno ispirato dall’esterno. Siamo di fronte, ormai, a un terrorismo compiutamente europeo, nel senso che nasce qui e ha caratteristiche che rispondono alla situazione dei nostri Paesi. Che agisca nel nome dell’islamismo non cambia nulla: colpisce qui perché qui sta il suo interesse a colpire. Non perché voglia aiutare la causa di qualcuno che combatte in Medio Oriente o in Nord Africa.
È un fenomeno nuovo, di cui ci siamo forse accorti con ritardo. A cui ha fatto da levatrice, però, la serie di accordi economici e politici raggiunta nel 2016 tra la Russia impegnata a soccorrere Bashar al-Assad in Siria e la Turchia ancora scossa dal fallito colpo di Stato. Tra impegni sui gasdotti e sul commercio, Vladimir Putin e Recep Erdogan trovarono l’intesa politica che portò la Turchia a chiudere il confine con la Siria. Cioè a bloccare la via maestra che aveva fin lì portato a Daesh ricambi e rifornimenti. Da quel momento, non a caso, iniziò il declino del califfato e delle sue milizie. Per quanto riguarda noi, chiudere quel confine significò impedire ai volontari europei di raggiungere le truppe jihadiste sui fronti di Siria e Iraq.
Non fu una conseguenza di poco conto: dei circa 70mila foreign fighters che partirono da decine di Paesi diversi per mettersi al servizio di al-Baghdadi, almeno 6-7 mila (secondo le stime più prudenti) erano arrivati dall’Europa, il che vuol dire soprattutto Francia, Regno Unito e Germania. A quelli che non poterono partire dall’Europa si sono aggiunti, negli ultimi tempi, i superstiti e i reduci. Cioè quei foreign fighters europei che sono sopravvissuti alle guerre del Medio Oriente e sono tornati a casa. Uomini allenati all’odio, induriti dalla battaglia, abituati a uccidere, esperti nell’uso delle armi e delle tattiche della guerriglia.
Così, in Europa, oggi abbiamo una certa quantità di persone fanatiche, che un tempo si sarebbero trasformate in militanti e avrebbero magari preso la via del Medio Oriente e adesso invece sono "bloccate" qui. Dove però, a differenza di prima, dispongono di ispiratori e istruttori: i reduci di Daesh, appunto.
Nasce così il nuovo terrorismo europeo. Che infatti allinea una schiera quasi infinite di persone anonime, grigie, quasi sempre sconosciute ai servizi di sicurezza. Molto spesso immigrati in apparenza perfettamente integrati, come coloro che hanno colpito a Londra o a Levallois-Perret alle porte di Parigi. Individui, invece, pieni di frustrazione e rabbia, di colpo pronti a sacrificare la vita altrui e la propria in attentati che sono per loro natura, tra l’altro, pieni di spirito suicida. Che altro si può dire di chi prova a falciare turisti o soldati con un automezzo preso a noleggio?
Sono queste le reclute del nuovo terrorismo europeo. E colpiscono nelle grandi città per due ragioni. Perché far scorrere il sangue nel centro di Parigi o accanto al Parlamento di Londra, sul lungomare di Nizza o sulla rambla di Barcellona affollati di turisti, vuol dire ottenere una risonanza mondiale per i propri gesti. Ma anche perché le metropoli sono il grande stagno in cui nuotano questi alieni contemporanei. Certo, non le strade piene di vetrine o i quartieri dei localini alla moda, ma quei non-luoghi che pure sono altrettanto tipici delle grandi città: le periferie abbandonate, i palazzoni dove si ammassa l’immigrazione più recente, le carceri dove al piccolo delinquente viene fornita una causa e una fede, i centri di raccolta dei fedeli dove la religione è manipolata ad arte. Il nostro Medio Oriente è lì. Il nostro terrorismo anche. È lì che dobbiamo vincere la buona battaglia.
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Anche Barcellona, dunque, con le sue Ramblas così affollate di turisti da provocare l’ira e qualche rappresaglia degli abitanti, è entrata nel mirino del terrorismo. Dopo Parigi, Nizza, Berlino, Londra e altre grandi città europee, il capoluogo della…
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Anche Barcellona, dunque, con le sue Ramblas così affollate di turisti da provocare l’ira e qualche rappresaglia degli abitanti, è entrata nel mirino del terrorismo. Dopo Parigi, Nizza, Berlino, Londra e altre grandi città europee, il capoluogo della Catalogna ama un prezzo altissimo alla furia islamista: tredici morti e decine di feriti, più un membro del commando assassino ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia. Un altro degli attentatori, secondo le prime notizie, sarebbe agli arresti.
Non è il caso, adesso, di dilungarsi sulle modalità dell’attentato né sui suoi attori. Un’altra volta un veicolo lanciato sulla folla, a Barcellona un furgone preso a noleggio proprio come l’auto con cui, otto giorni fa, si tentò di far strage di un gruppo di soldati nel sobborgo parigino di Levallois-Perret. In Francia un algerino di 37 anni, Hamou B., ignoto all’antiterrorismo. Ieri, in Spagna, l’attenzione si è subito posata su un altro nordafricano, Driss Oukabir.
Ormai lo sappiamo, è questa la forma contemporanea del terrorismo. Converrà invece interrogarsi su due altri aspetti di questo incubo europeo. Il primo è questo: si dovrà forse fare qualche verifica statistica ma la sensazione netta è che gli attacchi di questo genere si siano moltiplicati a partire dal 2016, cioè da quando la Turchia (con il regime di Erdogan scosso dal tentato colpo di Stato), riallacciati i rapporti con la Russia, ha chiuso il confine con la Siria. Da quel momento l’Isis e i diversi gruppi terroristici, privati di una via fondamentale per il ricambio di uomini e mezzi, hanno cominciato a perdere terreno.
La chiusura di quel confine ha impedito agli islamisti europei (autoctoni o immigrati) di muoversi liberamente e li ha costretti a trovare un modo per «combattere» non sugli ormai irraggiungibili fronti siriani ma in casa. Cioè in Europa, da dove tra il 2011 e il 2016 erano partiti per arruolarsi nelle milizie del Califfato almeno 6 mila uomini, secondo le stime più conservative.
Una minaccia enfatizzata da un effetto non troppo collaterale. Il ritorno in patria (che in Europa vuol dire soprattutto Francia, Regno Unito e Germania) dei jihadisti superstiti in fuga dal Medio Oriente. Uomini sperimentati al campo di battaglia, bene addestrati, capaci quindi di contagiare altri il fanatismo dell’ideologo e la freddezza dello stragista.
Se in questo quadro inseriamo le modalità degli attacchi e i profili dei terroristi, ci rendiamo conto che il campo di battaglia ideale del nuovo terrorismo islamista è proprio la grande città. Non per una questione politico-religiosa, perché nelle metropoli europee trionfi la modernità, la parità dei sessi, il consumismo, l’erotismo e le mille altre cose invise a chi vuol riportare l’orologio della storia indietro fino ai primi califfi dopo Maometto. I fanatici sono già molto oltre. Ma semplicemente perché nelle nostre città, dove vivono ormai sette europei su dieci, è assai più facile colpire.
A Barcellona, Berlino, Londra e Nizza per fare una strage è bastato un automezzo, cioè la «cosa» più comune in una metropoli dopo le persone. Il bersaglio è enorme, non lo si può mancare: è la città stessa.
Il terrorismo, oggi, non è solo islamista, è anche urbano. Dunque varrà la pena di ripetere ciò che si è detto e scritto tante volte, è cioè che lo stagno in cui nuotano questi pesci, e cioè gli aspiranti jihadisti delusi, i jihadisti di ritorno e gli squilibrati che questi e quelli possono coinvolgere e sfruttare, sono le grandi e spesso poco controllate periferie, i quartieri poveri o degradati, i palazzi dove si ammassa la prima immigrazione, le carceri dove al piccolo delinquente viene offerta una causa, le moschee improvvisate o fasulle dove pure si raccolgono i fedeli.
Proprio in questi luoghi-non luoghi, che lasciamo ai margini della nostra vita quotidiana, lavora senza far rumore ma intensamente la fabbrica del radicalismo. Ed è lì che, invece di girare lo sguardo, dovremmo puntare tutta la nostra attenzione.
 
 
 
Quello portato dal trentasettenne algerino Hammou B., che ha falciato con l’automobile un gruppo di soldati nel sobborgo parigino di Levallois-Perret, è stato, per la Francia, dal gennaio 2015 a oggi, l’ottavo attacco contro membri delle forze…
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Quello portato dal trentasettenne algerino Hammou B., che ha falciato con l’automobile un gruppo di soldati nel sobborgo parigino di Levallois-Perret, è stato, per la Francia, dal gennaio 2015 a oggi, l’ottavo attacco contro membri delle forze nazionali di sicurezza, e il ventiseiesimo atto terroristico. Decine le vittime in un Paese che da quasi tre anni vive in stato di emergenza. Nell’Europa angosciata dal terrorismo islamista, la Francia è indubbiamente il Paese più colpito e proprio per questo ciò che vi accade fa scuola e dev’essere analizzato con attenzione.
In Francia, per esempio, abbiamo imparato a conoscere i cosiddetti «lupi solitari», che poi così solitari non sono mai. Dovremmo ribattezzarli «lupi anonimi», perché il grigiore è la loro suprema caratteristica. Anche Hammoun B. era ignoto all’antiterrorismo, come molti dei suoi compari. Uno tanto qualunque che per ora non si riesce nemmeno a sapere se fosse un cittadino francese (di nuovo: come molti altri terroristi) o un immigrato clandestino. Aveva, altra caratteristica ricorrente, qualche piccolo precedente per reati di poco conto. Erano tipi più o meno come lui, per risalire la serie degli attentati, anche i gemelli Kouachi che compirono la strage nella redazione del Charlie Hebdo. Come lo era il loro complice Koulibaly, l’assassino del supermarket ebraico, che qualche anno prima era stato addirittura segnalato dal proprio datore di lavoro e inserito in un gruppo di giovani che aveva incontrato il presidente Sarkozy.
Gente qualunque, insomma, uscita dalle periferie, insoddisfatta e rabbiosa, decisa a vendicarsi di qualcosa. Ma anche solitaria? Lasciando perdere l’Isis, che rivendicherebbe pure un tamponamento in autostrada, siamo proprio sicuri che dietro i «lupi solitari» non ci sia qualcuno che riempie loro la testa, indica l’obiettivo, suggerisce la tattica, fornisce qualche aiuto? È chiaro che questi squilibrati che s’improvvisano terroristi sono spendibili, sacrificabili. Hammoun B., per investire i soldati a Levallois-Perret e poi tentare la fuga, ha usato un’auto presa a noleggio, quindi dotata di ogni sistema per essere facilmente localizzata. Ma spendibili da chi? Sacrificabili per quale scopo? L’idea di colpire proprio i soldati che prendono parte all’operazione antiterrorismo «Sentinelle», alloggiati in una caserma senza insegne, è stata davvero sua e solo sua?
È quest’ampia zona d’ombra che si estende tra l’atto solitario e il complotto, tra il lupo randagio e il branco organizzato, ciò che più ci spaventa. E che ci pare ancor più terribile nella stagione in cui, per istinto più che per razionale convinzione, tendiamo a credere che tutto abbia tregua, non solo il lavoro. Ovviamente non è così. Né lo sarà finché non riusciremo a puntare una luce più potente su ciò che davvero accade in quel mondo ancora largamente incognito, fatto di periferie, immigrazione, emarginazione, delinquenza e speculazioni pseudo-religiose, che pulsa in tante grandi città d’Europa. E non solo in Francia, dove pure le banlieu, protagoniste nel 2005 di una vera rivolta, innescatasi poi di nuovo a Parigi nel febbraio di quest’anno dopo l’arresto e il pestaggio di un ragazzo da parte della polizia, sono un soggetto sociologico ben identificato e studiato.
È un lavoro cui le forze di sicurezza si dedicano da tempo in tutta Europa e che ci ha evitato guai anche peggiori. Un lavoro, però, che deve diventare priorità sociale. Lasciar crescere mondi paralleli e inesplorati non è democrazia ma imprevidenza.
E non è una buona ricetta per la tranquillità cui tutti i cittadini, anche quelli venuti da altri Paesi, aspirano per sé e per le proprie famiglie.
 
 

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