Benny Morris e Daniel Blatman riprendono la discussione sulla scia dell’uscita del libro di Adel Manna “Nakba e sopravvivenza”
NOTA
REDAZIONALE: riteniamo interessante per il lettore seguire il dibattito
storiografico sulla guerra del ’47-’48 da cui è nato lo Stato di
Israele che viene proposto ai lettori israeliani dal quotidiano
“Haaretz”.
Come in altri articoli[vedi http://zeitun.info/?s=pulizia+etnica
]che abbiamo già tradotto, il principale protagonista è lo storico
ebreo- israeliano Benny Morris, autore negli anni ’90 di importanti
studi che hanno messo in serio dubbio la narrazione israeliana sugli
avvenimenti che portarono all’espulsione di centinaia di migliaia di
palestinesi, e che in seguito è passato ad un attivo sostegno delle
politiche dei governi israeliani, ed in particolare del Likud. In questo
caso se la prende con un suo collega israeliano-palestinese che ha
scritto un libro su quelle tragiche vicende. Come in precedenti
circostanze, sullo stesso giornale gli risponde un altro storico ebreo-
israeliano Daniel Blatman, che si è occupato di studiare l’Olocausto e i
movimenti ebraici europei non sionisti, come il Bund, partito
socialista ebraico .
Israele non ha messo in atto una “politica di espulsione” contro i palestinesi nel 1948
Il
problema dei rifugiati palestinesi fu il risultato di un piano
strategico sionista e della “pulizia etnica”, sostiene erroneamente lo
storico Adel Manna nel suo libro “Nakba e sopravvivenza”, in cui
“strage” ed “espulsione” compaiono in quasi tutte le pagine.
di Benny Morris – 29 luglio 2017
Ho
affrontato la lettura del nuovo libro del prof. Adel Manna, “Nakba e
sopravvivenza: lo storia dei palestinesi che sono rimasti con qualche
speranza ad Haifa e in Galilea, 1948-1956”. Conosco bene la narrazione
dei palestinesi – una narrazione di spossessamento e discriminazione, di
sventura storica e di infinita ingiustizia senza averne alcuna colpa.
In
questa narrazione c’è solo una parte che è nel giusto ed una quantità
di cattivi, tra i quali i sionisti sono i più importanti. La narrazione è
stata diffusa ormai da decenni dalla dirigenza palestinese e dagli
opinionisti arabi, così come dagli storici e studiosi arabi e dai loro
sostenitori, tra cui Walid Khalidi e Rashid Khalidi, Edward Said ed Ilan
Pappe. I loro libri riempiono gli scaffali delle biblioteche e delle
librerie dell’Occidente. In Israele, i loro scritti sono in buona parte
introvabili in quanto la maggior parte di essi non è stata tradotta in
ebraico.
Questo
vuoto non sarà riempito dalla pubblicazione, in ebraico, da parte
dell’istituto Van Leer e dalla casa editrice Hakibbutz Hameuchad, di
“Nakba e sopravvivenza”, (Nakba significa “catastrofe”, come è nota ai
palestinesi la guerra del 1948), ma questo non è il libro che speravo.
Manna, un musulmano di Majdal Krum in Galilea, ha studiato
all’Università Ebraica di Gerusalemme e per anni ha insegnato in varie
università e college. Il suo campo di studi comprende la storia della
Palestina, i palestinesi e Gerusalemme nel periodo ottomano e in quello
contemporaneo e il conflitto arabo-israeliano.
Da
una conoscenza superficiale di Manna, credevo che egli conoscesse la
storia della Palestina e dello Stato di Israele. Ho sperato che sarebbe
riuscito ad evitare la narrazione palestinese e a costruire una storia
basata sulla documentazione e sui fatti, dimostrando un’apertura
intellettuale e una visione dei due lati della medaglia. Sono rimasto
deluso. A dire la verità, Manna non nasconde il suo punto di partenza.
Nella sua introduzione c’è un impegno o una avvertenza che il libro è
scritto “dalla prospettiva dei sopravvissuti…Nel mio libro ho scelto di
non adottare la posizione dello storico imparziale che nei suoi scritti
lascia da parte le proprie posizioni personali ed ideologiche”, (forse
tutte o in gran parte già implicite nell’uso della parola
“sopravvissuti”- come se gli arabi che rimasero in Israele dopo il 1948
cercassero di sopravvivere ad una continua politica e ad una campagna
intese alla loro eliminazione).
Devo
avvertire i lettori che le 377 pagine dense e fitte di “Nakba e
sopravvivenza” sono affette da innumerevoli ripetizioni, sia di racconti
(per esempio, quello dell’esecuzione di cinque giovani arabi a Majdal
Krum il 5 novembre del 1948, che è raccontata almeno tre volte) e di
varie recriminazioni. La descrizione complessiva di quello che è
successo qui nel 1948 come “massacro ed espulsione” o “espulsione e
massacro” compare in quasi tutte le pagine almeno una volta, se non
varie. Quindi oserei dire che il numero di volte in cui nel libro
compare questa frase è superiore al numero di arabi che sono stati
uccisi in casi in cui hanno avuto luogo stragi.
Vale
la pena notare, peraltro, che massacri di arabi contro ebrei, e ce ne
sono stati, sono appena citati nel libro – e quando Manna fa riferimento
al massacro nella raffineria di petrolio ad Haifa il 30 dicembre 1947
lo definisce come un “attacco” o un “grave attacco”, non come un
massacro. Questo è il modo in cui le cose compaiono in una narrazione
rispetto ad un vero saggio storiografico.
Il
libro è diviso in due parti. Il primo affronta quello che successe nel
1948 e il secondo si concentra su quello che avvenne tra il 1949 e il
1957 agli arabi che rimasero in Israele, che si definiscono come
“abitanti palestinesi dello Stato di Israele” o come “arabi del 1948”.
In entrambe le parti l’enfasi è posta sul corso degli eventi nel nord –
la Galilea ed Haifa – con pochissimo spazio dedicato a quello che
successe nel centro e nel sud del Paese.
Nel
suo lavoro Manna fa ampio uso della stampa araba (cosa che approvo),
della stampa di sinistra ebraica e dei verbali di processi, soprattutto
sentenze dell’Alta Corte di Giustizia, relative alla minoranza araba ed
ai partiti politici arabi dal 1948 al 1957.
Buona
parte del libro si basa su interviste che lui o altre persone hanno
fatto ad arabi che hanno vissuto il 1948 e il primo decennio di vita
dello Stato di Israele. Manna difende appassionatamente il valore della
“storia orale” come una fonte attendibile per la ricostruzione degli
avvenimenti e di sentimenti del passato. Attraverso “Nakba e
sopravvivenza” egli “mostra” che quello che la gente ricorda 40 o 50
anni dopo i fatti è coerente con quello che viene raccontato nella
documentazione che è arrivata fino a noi da quegli anni (ciò
contrariamente alla mia non molto vasta esperienza, che ammetto, secondo
cui non c’è una tale coerenza, oppure gli intervistati semplicemente
non ricordano niente). Non fornisce dettagli su come le interviste sono
state condotte. A volte non dice neppure quando si sono svolte o chi ha
fatto l’intervista.
E’
ovvio che Manna ha fatto una ricerca di archivio molto povera
(praticamente tutte le sue note sono annotazioni archivistiche
approssimative e/o non corrette; per esempio la maggior parte dei
riferimenti all’Archivio dell’esercito israeliano). Quasi tutte le
citazioni da fonti primarie sono riferite di seconda mano da ricerche di
altre persone, compresi libri che ho scritto io (a proposito dei quali
Manna fa sia apprezzamenti positivi che riserve, alcune delle quali
giustificate). Ha accuratamente scelto cosa inserire nel suo libro e
cosa escludere.
Progetto strategico sionista
Per
lo più gli storici distorcono la storia non attraverso grossolane
falsificazioni ma piuttosto ignorando documenti e fatti importanti.
Riguardo alla guerra del 1947-49, la storia di Manna è semplice: gli
ebrei espulsero gli arabi dai luoghi in cui vivevano e lo fecero anche
negli anni successivi alla guerra; non ci fu un conflitto tra due
movimenti nazionali, ognuno dei quali con richieste legittime; di fatto
non ci fu neppure una guerra: ci fu solo un’espulsione e nient’altro.
A
merito di Manna, egli nota che i dirigenti degli arabi di Palestina e
quelli arabi della regione rifiutarono effettivamente il piano di
spartizione [della Palestina tra ebrei sionisti e palestinesi, ndt.]
(adottato dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 novembre
1947, che secondo Manna era immorale), ma dimentica di citare che il
giorno seguente alcuni palestinesi aprirono il fuoco e iniziarono
attacchi che in alcune settimane si ingigantirono fino a diventare una
guerra civile generalizzata – la prima fase della guerra che andò dal
novembre 1947 al maggio 1948. Per come la vede Manna, la guerra
semplicemente scoppiò; nessuno le diede inizio.
Il
suo argomento centrale, di fatto il tema del libro, è che il problema
dei rifugiati palestinesi sia nato come conseguenza di un progetto
sionista che venne coscientemente adottato fin dall’inizio e in
conseguenza di una messa in pratica sistematica di questo progetto: “Il
trasferimento degli arabi dalle zone del Paese verso i vicini Stati
arabi era diventato un obiettivo dichiarato fin dal rapporto della
commissione Peel [commissione del potere mandatario inglese in seguito
alla più importante rivolta palestinese contro inglesi e sionisti, ndt.]
del 1937. Il piano dell’offensiva ebraica (Piano D), messo in atto
nell’aprile 1948, era un importante anello nella pianificazione
dell’espulsione dei palestinesi, (ma) la politica di pulizia etnica fu
molto più estesa e complessa di qualunque piano scritto… In Galilea una
politica di pulizia etnica venne messa in pratica nelle prime fasi della
guerra, in zone che erano state destinate allo Stato ebraico in base al
piano di spartizione [della Palestina deciso dall’ONU, ndt.].
Manna
indica due azioni iniziali dell’Haganah [principale milizia armata
sionista, da cui è nato l’esercito israeliano, ndt.] subito nel dicembre
1947 (le azioni a Khisas e a Balad al-Sheikh) come manifestazioni del
“desiderio da parte dei dirigenti dell’Yishuv (la popolazione ebraica
del Paese prima della fondazione dello Stato di Israele) che nessun
palestinese rimanesse nella Galilea orientale e nella pianura costiera.”
In seguito menziona come risultato di questa politica l’ “espulsione”
degli abitanti di Tiberiade, Safed, Beit She’an, Giaffa, Haifa e Acri
nell’aprile e maggio del 1948. Manna continua a dire che durante la
seconda metà della guerra, dal maggio 1948 al gennaio 1949 – durante la
guerra convenzionale che fece seguito all’invasione della Palestina da
parte degli Stati arabi vicini – la politica di Israele fu e rimase
l’espulsione della popolazione araba locale. Infine Manna sostiene che
questa politica fu ancora perseguita dal 1949 al 1956. Secondo lui il
divieto di ritorno dei rifugiati e le espulsioni di massa di
“infiltrati” nei primi anni dopo il 1948 furono manifestazioni di questa
politica, e nota che la sua stessa famiglia fu era tra le persone
espulse da Majdal Krum in Libano nel 1949.
Manna
afferma che Israele usò leggi contro l’infiltrazione per espellere
quanti più arabi possibile dal nascente Paese, comprese persone che non
erano infiltrate ma risultavano non possedere un certificato del
registro dell’anagrafe o una carta d’identità israeliana. Indica persino
il massacro di Kafr Qasem [in cui, in concomitanza con la guerra contro
l’Egitto per il controllo del canale di Suez, 48 ignari contadini
palestinesi con cittadinanza israeliana di ritorno dai campi vennero
uccisi dall’esercito israeliano che, senza informarli, aveva anticipato
il coprifuoco in vigore nelle zone arabe del Paese, ndt.] nella
cosiddetta “Zona del Triangolo” del 29 ottobre 1956 come una
manifestazione di questa politica.
Le
argomentazioni di Manna non sono convincenti. Ha ragione quando dice
che c’era una politica di espropriazione delle terre e di
discriminazione contro gli arabi che rimasero in Israele (benché il
governo militare e l’imposizione di restrizioni alla libertà di
movimento fossero misure logiche alla luce dei tentativi di distruggere
l’Yishuv e della continua ostilità, compresa la violenza da parte degli
arabi nei Paesi limitrofi, tra cui rifugiati dalla Palestina, contro lo
Stato di Israele ed i suoi abitanti ebrei). Ma, una politica di
espulsione dal 1949 al 1956? Se ci fosse stata una simile politica,
perché non venne messa in pratica? Perché il numero di arabi in Israele è
aumentato costantemente, in parte per le infiltrazioni di rifugiati
all’interno di Israele che, nel corso degli anni, ottenero la carta
d’identità?
L’autore
sostiene anche che l’intenzione di Israele era di approfittare della
campagna del Sinai per espellere la minoranza araba dal Paese, ma il
piano è fallito a causa della mancata partecipazione della Giordania
alla guerra. Anche questo non ha fondamento. In Israele c’erano
sicuramente figure di spicco, tra cui il capo di stato maggiore
dell’esercito Moshe Dayan, che negli anni ’50 speravano che scoppiasse
un’altra guerra e permettesse a Israele di occupare la Cisgiordania o
forse persino di espellere in Giordania gli arabi israeliani. Tuttavia
non si trattava di una “politica” statale.
Nessun ordine di espulsione
Torniamo
al 1948. Se Manna avesse letto i documenti dell’archivio dell’Haganah,
dell’archivio dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] o degli archivi di
Stato di Israele (o la versione aggiornata del 2003 del mio libro sul
problema dei rifugiati “La nascita del problema dei rifugiati
palestinesi rivisto”), avrebbe scoperto che non ci fu una politica di
espulsione dei “palestinesi” e che l’Haganah non espulse arabi prima
dell’aprile 1948 (con l’eccezione degli abitanti arabi di Cesarea, in
cui le motivazioni non avevano niente a che fare con la lotta contro gli
arabi). Avrebbe anche trovato che l’Haganah e i dirigenti dell’Agenzia
Ebraica (il governo dell’Yishuv) si attennero alla politica di
accettazione del piano di spartizione (benché certamente non ne fossero
contenti), che includeva una numerosa minoranza araba nello Stato
ebraico che si stava formando. Il 24 marzo 1948 Yisrael Galili, capo del
comando nazionale dell’Haganah (e di fatto il vice del ministro della
Difesa David Ben-Gurion) emise un ordine generale alle brigate e ai
settori dell’Haganah perché si attenessero alla politica del momento di
lasciare al loro posto e di garantire la pace e la sicurezza delle
comunità arabe nella zona destinata al nascente Stato (salvo che in casi
eccezionali per ragioni militari).
Persino
nel passaggio dell’Yishuv a una strategia di attacco nell’aprile e
maggio 1948 dopo quattro mesi di strategia difensiva, i suoi dirigenti e
membri dello Stato Maggiore dell’Haganah non adottarono una politica di
“espulsione degli arabi” e le varie unità operarono in modo diverso a
seconda della zona. Il “piano D”, dal 10 marzo 1948, non obbligava ad
“espellere gli arabi” – anche se ai comandanti di brigata era stato dato
il permesso di espellere le popolazioni arabe o di consentire loro di
restare. Molto dipendeva dalle caratteristiche degli arabi del posto,
dal comportamento degli abitanti e dalla personalità dei comandanti
ebrei, oltre che dalle circostanze in ogni singola zona.
Ad
Haifa fu la dirigenza araba che chiese ai suoi abitanti di andarsene
(il sindaco ebreo, Shabtai Levy, e gli attivisti del sindacato dei
lavoratori Histadrut [sindacato sionista, ndt.] chiesero loro di
rimanere); a Tiberiade non ci furono espulsioni (benché forse le
autorità del mandato britannico incoraggiarono l’esodo degli arabi); a
Giaffa la popolazione se ne andò a causa della pressione militare
ebraica e della previsione di un’occupazione ebraica dopo il ritiro
delle truppe britanniche; a Safed scapparono a causa della conquista
della città da parte del Palmach [milizia armata sionista inserita
nell’Haganah, ndt.], non in conseguenza di ordini per espellerli; ad
Acri non ci fu un ordine di espulsione e la maggioranza degli abitanti
rimase in città dopo che venne occupata il 18 maggio.
Manna
ha ragione quando dice che durante l’operazione “Hiram” alla fine dell’
ottobre 1948 e nelle settimane successive i soldati dell’IDF misero in
atto una serie di massacri (a Saliha, Hula, Jish, Safsaf, Eilabun,
Majdal Krum, Arab al-Mawasi e altrove) e qui e là espulsero villaggi
(Jish, Eilabun, Birim e altri). Ed è anche vero che il trattamento dei
drusi [minoranza religiosa considerata eretica dai musulmani, ndt.](che
avevano in effetti stretto un’alleanza con l’Yishuv) e dei cristiani fu
diversa da quello dei musulmani, che nei mesi precedenti avevano
attaccato l’Yishuv. Tuttavia non ci fu una politica e non ci fu
uniformità di comportamento tra le unità e gli ufficiali.
Il
12 novembre Ya’akov Shimoni, un funzionario del ministero degli Esteri
(che in precedenza era stato un importante membro del servizio di
intelligence dell’Haganàh (lo Sha’i)), visitò la Galilea con altri
funzionari del ministero e parlò con i soldati e con altri ufficiali e
funzionari sul campo. Scrisse: “Il trattamento (a Hiram) degli abitanti
arabi della Galilea come nei confronti dei rifugiati arabi che stavano
vivendo nei villaggi della Galilea o nelle loro vicinanze ha riflettuto
un comportamento casuale ed è stato diverso da luogo a luogo in base
alle iniziative di un comandante o dell’altro o di un ufficiale e
dell’altro dei vari dipartimenti del governo: in un luogo hanno espulso e
in un altro hanno lasciato la popolazione sul posto; in un posto hanno
accettato la resa di un villaggio e in un altro invece no; in un posto
hanno favorito i cristiani e in un altro hanno trattato cristiani e
musulmani allo stesso modo senza distinzione; in un posto hanno persino
consentito ai rifugiati che erano scappati in un primo momento dopo la
conquista di tornare alle proprie case, e in un altro non l’hanno
permesso.”
E
il 18 novembre Shimoni aggiunse: “Troppe mani stanno mescolando la
polenta…Loro (i comandanti dell’IDF) non hanno nessun ordine chiaro in
mano o una prassi chiara riguardo al modo di comportarsi con gli arabi.”
E’
vero che dopo la visita di Ben-Gurion ai comandi del fronte
settentrionale alla fine dell’operazione “Hiram” venne emanato alle
brigate dell’esercito un ordine (generico) a nome di Moshe Carmel,
comandante del fronte, per “aiutare” gli abitanti ad andarsene, ma la
direttiva arrivò troppo tardi e non venne messa in pratica alla lettera.
In un posto espulsero [la popolazione araba], in un altro non lo
fecero.
L’argomentazione
di Manna è che i massacri dell’operazione “Hiram” vennero organizzati
“dall’alto” e intendevano far scappare gli arabi. Tuttavia: 1) Manna non
ha nessuna documentazione che dimostri un simile rapporto e 2) in molti
dei villaggi in questione fughe o espulsioni di massa non avvennero in
seguito a massacri, né a Dir al-Assad né a Majdal Krum (qui Manna si
sbaglia riguardo al suo villaggio: non ci fu un’espulsione da Majdal
Krum), né a Arab al-Mawasi, né a Jish né a Hule. E’ possibile che
comandanti sul campo abbiano pensato che un massacro avrebbe portato a
una fuga di massa; forse un’ansia di vendetta, o solo semplice crudeltà
erano la causa di queste uccisioni. Non ci sono prove in un senso o
nell’altro, salvo sul fatto che unità di tre diverse brigare (la Golani,
la Settima e la Carmeli) misero in atto una serie di massacri durante
quelle settimane.
C’è
in effetti il sospetto – ma sulla base del materiale che è a
disposizione dell’analisi pubblica è impossibile arrivare alle
conclusioni certe nel modo in cui lo fa Manna. Ma è vero che gli
esecutori di questi crimini non furono puniti (in apparenza grazie
all’intervento del ministro della Difesa).
In
più bisogna notare che dal giugno 1948 la politica del governo di
Israele fu di proibire ai rifugiati di tornare nel Paese, e che questa
politica venne messa in pratica durante tutta la guerra e nel dopoguerra
in modo sistematico (benché decine di migliaia di rifugiati riuscirono
ad infiltrarsi nel Paese o venne loro consentito di tornare nel quadro
di un “ricongiungimento familiare” o con accordi speciali. Per esempio,
il vescovo George Hakim e centinaia di altri cristiani, come gli
abitanti di Eilabun, tornarono grazie a detti accordi e alla fine
ottennero la cittadinanza israeliana, come gli stessi genitori di Manna,
che si infiltrarono nel Paese dopo un lungo periodo nel campo di
rifugiati di Ain al-Hilweh in Libano).
“Successo parziale”
Per
cui è stato così che alla fine della guerra 125.000 arabi rimasero
nello Stato di Israele e 160.000 alla fine del 1949, la maggioranza dei
quali nel nord. Manna non spiega per niente come ciò accadde, citando
solo quelli, tra i 20.000 e i 30.000, che vennero cooptati all’interno
della popolazione del Paese nel maggio 1949 con l’annessione allo Stato
del “Triangolo”, che va da Umm al-Fahm fino a Kafr Qasem. Egli sostiene
che questi individui utilizzarono vari metodi per “sopravvivere”
(collaborando con le autorità, nascondendosi in grotte nei pressi dei
loro villaggi, e così di seguito). Non spiega perché, se c’era davvero
una politica complessiva di espulsione, non sia stata messa in pratica,
perché l’esercito e la polizia non espulsero semplicemente gli arabi
rimasti, villaggio dopo villaggio, e lasciarono anche un gran numero di
arabi ad Haifa, Acri e Giaffa, molti dei quali musulmani.
Riguardo
a Nazareth, in cui la maggior parte della popolazione araba rimase,
Manna giustamente nota la sensibilità israeliana verso l’opinione
pubblica del mondo cristiano. Ma riguardo a Majdal Krum? A chi
all’estero sarebbe importato che gli abitanti del villaggio di Manna o
di quelli vicini – Sakhnin, Dir Hana, Arrabeh, oggi tutti grandi
villaggi o cittadine – venissero espulsi alla fine dell’ottobre 1948?
Nell’estate del 1948 l’IDF consigliò al governo che Acri venisse
svuotata dei suoi abitanti. Perché, se l’espulsione era la prassi, non
vennero espulsi fuori dal Paese, a Giaffa o altrove? Ben-Gurion temeva
il suo ministro per le Minoranze, Bechor Sheetrit (che si oppose
all’espulsione degli abitanti di Acri)?
Non
ci sono spiegazioni per tutto ciò, tranne l’assenza di una qualunque
politica di espulsione, anche se Ben-Gurion e molti altri volevano che
nello Stato ebraico rimanessero quanti meno arabi possibile, e
certamente non ci fu un’ espulsione sistematica come sostiene Manna. Non
fu la “tenacia” degli abitanti dei villaggi che impedì la loro
espulsione – se ci fosse stato un ordine di espulsione, se ne sarebbero
andati (come successe a Caesarea, Eilabun, Lod, Ramle e in altri luoghi
in cui agli abitanti venne ordinato di andarsene).
“Nonostante
i molti tentativi da parte dell’esercito e di altri elementi di
espellere gli arabi dalla zona, il successo fu solo parziale,” scrive
Manna. Un’assurdità. Quando qualcuno punta contro di te e contro la tua
famiglia un fucile e ti dice di andartene, soprattutto dopo che ha già
ucciso alcuni dei tuoi vicini, tu te ne vai. Le spiegazioni di Manna
sono semplicemente poco serie.
L’autore
ha apportato un significativo contributo al discorso sugli arabi in
Israele, sottolineando l’influenza della Nakba sulle loro vite e
mentalità negli anni successivi al 1948. Queste cose non sono state
interiorizzate da molti ebrei israeliani. Ci sono molti passi del libro
in cui Manna critica il suo stesso popolo. Descrivendo le azioni degli
arabi nella rivolta del 1936-1939, ad esempio, li accusa di aver
commesso “gravi atti di terrorismo contro soldati e civili, incendiando
campi e distruggendo proprietà…Il terrorismo venne impiegato anche
all’interno della stessa comunità araba, soprattutto contro gli
oppositori della rivolta.”
Scrive
anche che i dirigenti della rivolta, compreso Haj Amin al-Husseini
[Gran Muftì di Gerusalemme e leader politico palestinese, ndt.]
assunsero “posizioni estremiste e intransigenti, che causarono gravi
danni” ai palestinesi. Tuttavia questi lampi di lucidità critica sono
davvero rari. A un certo punto Manna critica i palestinesi (ed i loro
storici?) e afferma che non hanno ancora condotto “un dibattito critico e
serio sulla storia della Nakba e sulle sue implicazioni.” Si direbbe
che ha ragione.
Per la Nakba non c’era bisogno di una “politica di espulsione”
A
differenza di quanto sostiene Benny Morris, il saggio di Adel Manna
“Nakba e sopravvivenza” è un libro stimolante, degno di nota per il suo
approccio metodologico nel presentare una storia credibile e sfaccettata
della tragedia palestinese del 1948
Di Daniel Blatman – 4 agosto 2017
Le
critiche di Benny Morris all’importante libro “Nakba e sopravvivenza:
la storia dei palestinesi che sono rimasti ad Haifa e in Galilea,
1948-1956” di Adel Manna (vedi articolo “Israele non aveva una “politica
di espulsione” contro i palestinesi nel 1948,” 29 luglio) sono parte
dei tentativi dello storico – durati in modo continuativo per 15 anni –
di negare quello che egli sosteneva in passato: che Israele mise in atto
una pulizia etnica a tutti gli effetti durante la guerra di
indipendenza di Israele del 1948. (“Nakba”, che significa catastrofe, è
il termine utilizzato dagli arabi per descrivere la guerra, quando più
di 700.000 arabi fuggirono o furono espulsi dalle loro case durante un
periodo di circa due anni).
In
passato Morris lo ha affermato con encomiabile coraggio. In un
dibattito con lo scrittore israeliano Aharon Megged sulle pagine di
Haaretz nel 1994 dichiarò: “Il nuovo materiale fattuale che è stato reso
pubblico nei documenti (per esempio: dettagli che sono stati celati
riguardo a massacri, espulsioni ed espropri condotti dalle forze di
difesa ebraiche nel 1948 e negli anni seguenti) hanno dato luogo a una
diversa interpretazione dell’impresa sionista. La principale aspirazione
del sionismo era di risolvere i problemi del popolo ebraico nella
Diaspora con la costruzione di un’entità statale che sarebbe stata un
rifugio per gli ebrei e un Paese modello.”
“Ma,”
continuava Morris, “i sionisti avevano anche altri obiettivi: prendere
il controllo della Terra di Israele dal mare al fiume [Giordano] per
sostituire i palestinesi che vi vivevano: per cacciarli fuori dal Paese
nel momento decisivo le forze di difesa del movimento sionista diedero
espressione al bisogno bellicoso ed espansionista che è sempre stato
alla base dell’ideologia sionista, e fecero in modo – sia con mezzi per
farli fuggire e espellerli, o impedendo il ritorno dei rifugiati – di
spingere fuori dai confini dello Stato in formazione la grande
maggioranza degli arabi che vivevano nelle zone che divennero lo Stato
di Israele, ed anche di allargare lo Stato oltre le linee disegnate
dalla risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU nel 1947 [che diede
il beneplacito alla partizione della Palestina, ndt.].”
Il
Benny Morris del 1994 ha fatto un lavoro migliore per spiegare quello
che il dott. Manna afferma nel suo libro. Ma negli ultimi anni Morris ha
cercato di “correggere un errore” e di dimostrare che le conclusioni a
cui è arrivato con le sue ricerche sull’espulsione dei palestinesi erano
in realtà sbagliate. Non so cosa gli abbia fatto cambiare le
conclusioni riguardo alla catastrofe che Israele inflisse al popolo
palestinese nel 1948. Quello che è peggio è il fatto che Morris critichi
maliziosamente una ricerca che sta cercando, in modo equilibrato e
critico, di affrontare la Nakba e le sue conseguenze da un punto di
vista che non corrisponde alla narrazione sionista – una narrazione che
anche Morris aveva duramente contestato in passato per i suoi
preconcetti ideologici.
Morris
nella sua recensione afferma: “Riguardo alla guerra del 1947-49, la
storia di Manna è semplice: gli ebrei espulsero gli arabi dai luoghi in
cui vivevano e lo hanno fatto anche negli anni successivi alla guerra;
non è avvenuto un conflitto tra due movimenti nazionali, ognuno dei
quali con richieste legittime; di fatto non c’è neppure stata una
guerra: c’è stato solo un’espulsione e nient’altro.” Ma questa non è
un’affermazione simile a quelle che egli stesso aveva fatto 23 anni fa?
Nel
suo libro Manna fa uno stimolante tentativo di scrivere una storia
sfaccettata della tragedia palestinese, e il suo approccio metodologico è
degno di nota. Ha ragione quando sostiene che la ricerca israeliana
riguardante gli avvenimenti che hanno riguardato il 1948 soffre del
problema di una separazione innaturale tra la “ricerca ebraica” e la
“ricerca araba”. In altre parole, tra la storia scritta dagli storici
ebrei e quella scritta dagli storici arabi. Ci sono molte ragioni di
questa divisione, dal fatto di comprendere le lingue pertinenti
all’influenza delle narrazioni nazionali sullo storico.
A
differenza di molti dei suoi critici, Manna parla correntemente
l’arabo, l’ebraico e l’inglese, ed è questa la ragione per cui, per
esempio, può leggere ed esaminare non solo documenti ufficiali
dell’Haganah (la milizia armata ebraica pre-statale), ma può anche
analizzare la stampa araba e altre fonti arabe. In altre parole, a
differenza di Morris, le cui ricerche si basano principalmente sui
documenti ufficiali degli archivi israeliani ed inglesi, Manna presenta
un quadro complesso e più credibile della tragedia palestinese.
La
tendenziosità di Morris è chiara, per esempio, anche nelle sue critiche
a Banna riguardo alle interviste che ha raccolto dai sopravvissuti
della Nakba, che sono ora uomini e donne anziani. Com’è possibile,
contesta Morris, che dopo così tanti anni la gente ricordi quello che
accadde realmente? Secondo Morris ” Attraverso ‘Nakba e sopravvivenza’
egli «mostra» che quello che la gente ricorda 40 o 50 anni dopo i fatti è
coerente con quello che viene raccontato nella documentazione che è
arrivata fino a noi da quegli anni (ciò contrariamente alla mia non
molto vasta esperienza, che ammetto, secondo cui non c’è una tale
coerenza, oppure gli intervistati semplicemente non ricordano niente).”
In
altre parole secondo Morris quello che importa realmente per
comprendere “quello che accadde realmente” è quello che ha trovato lui
negli archivi israeliani o britannici. Strano, dato che in una
recensione che scrisse nell’edizione ebraica di Haaretz (“Quei rifugiati
non hanno nessun posto in cui tornare, 24 novembre 1992) in una
raccolta enciclopedica pubblicata dall’Instituto per gli Studi
Palestinesi sui villaggi palestinesi che furono cancellati dalle mappe
nel 1948, pensava in modo diverso: “Gli autori non hanno intervistato
rifugiati (e tra pochi anni non ne rimarrà nessuno”), affermò.
Benny
Morris crede ancora che il ruolo dello storico non sia altro che quello
di raccontare ai suoi lettori quello che ha trovato in un archivio e in
documenti resi pubblici da qualche organizzazione governativa o meno.
Se gli studi sull’Olocausto, per esempio, avessero continuato ad essere
basati su un approccio simile – come è stato in realtà il caso della
storiografia tedesca negli anni ’70 – non avremmo saputo praticamente
niente sulle vite degli ebrei e sui loro tentativi di sopravvivere
durante gli anni della loro grande tragedia, come oggi sappiamo grazie
alle molte testimonianze degli stessi sopravvissuti.
Ed
è proprio quello che fa Manna: propone la storia della tragedia
nazionale del suo popolo dal punto di vista della vittima, del
sopravvissuto. La politica di Israele sul problema palestinese e la
politica di espulsione non sono il cuore del libro: quello che vi si
trova è la storia dell’espulsione e della sopravvivenza.
Anche
sulla questione dell’espulsione Morris si agita nel tentativo di
allontanare se stesso da quello che era una volta. Ma qui cammina su un
terreno minato: ricercatori seri del fenomeno della violenza di massa
non devono trovare una prova inequivocabile dell’esistenza di una
“politica di espulsione” per arrivare alla conclusione che sono stati
commessi crimini contro l’umanità. Egli asserisce che non ci fu una
politica di questo tipo, e se ci furono direttive emesse per perpetrare
massacri nei villaggi palestinesi esse furono comunicate, egli afferma,
“attraverso un ordine (generico).”
Si
potrebbe pensare che quando gli Ottomani decisero di espellere gli
armeni nel 1915 lo abbiano pubblicato sulla stampa ufficiale, o quando
Ratko Mladic decise di massacrare oltre 7.000 musulmani bosniaci, uomini
e ragazzi, a Srebrenica nel 1995 abbia reso pubblico il suo ordine.
Ordini e istruzioni di attuare tali crimini sono dati oralmente, in
discussioni riservate e in modo implicito, in un linguaggio ambiguo. Ciò
non significa che quelli che li mettono in atto non sappiano
esattamente quello che intende la persona che dà questi ordini ambigui.
Morris
scopre la prova definitiva della debolezza delle affermazioni di Manna
riguardo alle espulsioni nel fatto che alla fine della guerra 160.000
arabi rimasero all’interno di Israele. Questa è un’espulsione? Se ci
fosse stata una politica di espulsione, chiede, come è possibile che
siano rimasti così tanti palestinesi? Ciò mi ricorda quello che hanno
scritto i negazionisti dell’Olocausto nei primi anni dopo la II guerra
mondiale. Una soluzione finale? Di cosa state parlando? Com’è possibile
che centinaia di migliaia di ebrei siano rimasti in ogni Paese europeo, e
milioni in Unione Sovietica? Forse, sostengono questi antisemiti, molte
centinaia di migliaia morirono per le dure condizioni in vari posti –
ma…camere a gas e uccisioni di massa?
Ovviamente
nessuna ricerca è priva di errori e di affermazioni imprecise. Questo è
vero anche per la ricerca di Manna, e Morris cita alcune di queste. Ma
il libro di Manna è un importante contributo allo studio della tragedia
palestinese e soprattutto una rara opportunità per il lettore ebreo di
comprendere gli aspetti umani della grande catastrofe che l’indipendenza
nazionale del suo popolo ha inflitto a membri di una nazione che ha
vissuto in questo Paese per molti anni prima di essa.
(traduzione di Amedeo Rossi)
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