Alberto Negri :- Iraq, rinascita o tramonto di una nazione Scene di caccia nel triangolo strategico Usa-Pakistan-Cina

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Alberto Negri - Iraq, rinascita o tramonto di una nazione

 Ci sono troppi Iraq per farne uno e le celebrazioni delle vittorie sono ingannevoli. Anche per la liberazione di Mosul il 9 luglio, dopo 9 mesi di assedio all’Isis, ci sono stati adeguati festeggiamenti ufficiali.
Continua pagina 9 Alberto Negri
Continua da pagina 1 Così come gli americani celebrarono il 9 aprile 2003 l’abbattimento delle statua di Saddam Hussein in Piazza Firdous a Baghdad. Non eravamo più di 300 ma negli obiettivi delle telecamere sembrava che ci fosse una folla strabocchevole mentre la città intorno era deserta e silenziosa, tramortita dalla fine del regime. Grandi i festeggiamenti anche per la cattura del raìs il 13 dicembre 2003 a Tikrit, seguita poi dalla feroce esultanza dei miliziani sciiti quando lo impiccarono il 30 dicembre 2006. Ma Al Qaida e la rivolta sunnita non erano certo finite e dopo sarebbe arrivato il Califfato proclamato a Mosul nel luglio 2014 da Al Baghdadi.
La liberazione di Mosul
Eppure i precedenti avrebbero dovuto metterci in guardia. Nell’estate del 1988 sul fronte Iran-Iraq, dopo otto anni di guerra e un milione di morti, ci furono anche allora scene di giubilo e a Baghdad i visitatori stranieri venivano accolti dai fuochi artificiali sul Tigri e abbondanti bevute alcoliche. Non c’erano dubbi dove puntavano gli investitori internazionali: l’Iraq appariva la meta di una grande ricostruzione post-bellica finanziata dall’oro nero mentre a Teheran gli scaffali erano tristemente vuoti e si faceva la spesa con le tessere annonarie.
Le monarchie arabe, le stesse che oggi litigano tra loro e con il Qatar per avere fallito l’obiettivo di abbattere Assad in Siria, avevano appoggiato la guerra del raìs contro la repubblica islamica sciita con prestiti di almeno 50-60 miliardi di dollari: i russi gli avevano venduto i carri armati, i francesi gli aerei, inglesi, americani e italiani ogni tipo di sistema d’arma. Qualche cosa era scivolato pure negli arsenali e nelle casse di Khomeini ma nell’ottica americana del “doppio contenimento”: in realtà non si voleva che quella prima guerra del Golfo tra sciiti e sunniti fosse vinta da nessuno dei due contendenti. Oggi di fronte all’espansione dell’influenza iraniana (e russa) in Medio Oriente, Washington, su spinta saudita e israeliana, è fortemente tentata dall’abbandonare quella linea strategica che ha bilanciato per anni le forze nel Golfo.
Chi avrebbe mai detto che l’Iraq dominato dal clan minoritario sunnita di Saddam, per decenni in superficie così laico e secolarista, sarebbe finito nel caos e poi anche nelle mani dei jihadisti del Califfato? E con quale risultato?
Per liberare Mosul c’è voluto il ritorno in Iraq degli americani, una coalizione internazionale e un esercito iracheno, addestrato sì dagli occidentali ma sostenuto fortemente da Teheran, dalle milizie curde, da quelle sciite, dai pasdaran del generale Qassem Soleimani e persino dagli Hezbollah libanesi. Cioè da quelli che negli anni Ottanta erano i peggiori avversari del regime baathista e dei sunniti e ancora oggi sono rappresentati come i nemici dell’Occidente, delle monarchie del Golfo e di Israele.
La conquista dell’Iran negli anni Ottanta era fallita e l’Iraq portava un fardello di un centinaio di miliardi di dollari di debito estero (Teheran soltanto sette con una popolazione tripla) che non avrebbe mai restituito con i prezzi del petrolio troppo bassi voluti dall’Opec e dal Kuwait: l’invasione della monarchia degli Al Sabah nell’agosto del ’90 era una via d’uscita per fare bottino, risollevare le finanze e cancellare una parte del debito. Qual è oggi l’eredità lasciata dalla guerra all’Isis?
L’eredità della guerra
L’Iraq, in apparenza, sembra essere messo meglio che nell’88. La ricostruzione materiale del Paese ricomincia a fare gola agli investitori. Il ministero del Petrolio ha annunciato che a fine anno Baghdad produrrà 5 milioni di barili. Il petrolio rappresenta la metà del Pil, il 90% delle esportazioni e delle entrate del governo. L’Iraq non produce quasi nulla, importa tutto: durante l’assedio di Mosul ogni giorno vedevamo entrare dal confine turco migliaia di camion e cisterne, che trasportavano dal latte alla benzina raffinata. Anche per questo le riserve sono crollate in un anno da 54 a 45 miliardi di dollari. Le guerre costano. In realtà l’industria e le infrastrutture irachene sono quasi ferme dalla prima guerra del Golfo del 1991: questo Paese negli anni 90 è stato sotto sanzioni strette per 12 anni e dopo il 2003 l’instabilità e il terrorismo hanno frenato gli investimenti. Fioriscono però corruzione e contrabbando: fanno affari d’oro i generali iracheni delle milizie, dei pasdaran iraniani, i businessmen turchi con la triangolazione Turchia-Kurdistan iracheno-Iran. Vecchi traffici, come il contrabbando di petrolio dell’Isis, tornano ad antichi e nuovi padroni che sfruttano le vie di sempre, come testimoniano le carcasse delle cisterne arrugginite e abbandonate lungo le strade.
Un’economia di rapina
Oltre a essere strettamente dipendente dal petrolio, quella irachena è un’economia di rapina dove il bottino è costituito dalla gestione dei traffici. Da questo punto di vista l’Isis aveva parzialmente riequilibrato la bilancia dal lato dei sunniti, sfavoriti dopo la caduta di Saddam rispetto a sciiti e curdi. All’apice della sua espansione nel 2014 l’Isis aveva messo le mani su 800 milioni di dollari presi dalle casse di un centinaio di banche pubbliche e private irachene e gestiva un bilancio di due miliardi di dollari l’anno. Questo era già, in un certo senso, il mini-stato sunnita del Siraq. La fine territoriale del mini-stato però difficilmente sarà anche quella dell’entità e dell’identità jihadista.
In sostanza i problemi etnico-settari, con la relativa redistribuzione delle risorse petrolifere e finanziarie, che avevano agevolato la nascita del Califfato non si risolvono con la caduta di Mosul. Anzi riemerge tutta la fragilità dell’Iraq post-Saddam: il Kurdistan iracheno (Krg) è uno stato nello stato dal 1991, le milizie peshmerga sono state addestrate e armate in chiave anti-Califfato, da americani, tedeschi, italiani e ora il suo leader, Massud Barzani, punta con un referendum, indetto il 25 settembre, all’indipendenza (compreso il centro petrolifero di Kirkuk) cui si oppongono sia la Turchia sunnita di Erdogan che l’Iran sciita degli ayatollah. I riflessi strategici sui curdi turchi e siriani sono evidenti. Possiamo intuire a che cosa sarà dedicato il prossimo festeggiamento ma quasi sicuramente anche la fine formale dell’Iraq potrebbe essere un’altra effimera celebrazione.


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Alberto Negri-Scene di caccia nel triangolo strategico Usa-Pakistan-Cina


Perché gli Usa minacciano di tagliare gli aiuti al Pakistan? L’accusa a Islamabad di sostenere i jihadisti non è nuova, ma è solo una parte della storia. Eppure per decenni il Pakistan è stato considerato dagli Stati Uniti come il maggiore alleato fuori dalla Nato. «Questo è un pezzo del muro di Berlino caduto nell’89, gli americani me lo hanno inviato con un biglietto: è anche merito suo, generale, se è caduto»: l’ex capo dei servizi pakistani Hamid Gul me lo mostrò durante un’intervista dopo l’11 settembre 2001. Il Pakistan aveva avuto un ruolo centrale nell’organizzare in Afghanistan la resistenza anti-sovietica dei mujaheddin.
Ma i pakistani furono anche coloro che sostennero l’avanzata su Kabul dei talebani del mullah Omar per aprire un corridoio strategico ed economico tra Pakistan e Asia centrale. L’operazione fu lanciata quando Benazir Bhutto, poi uccisa nel 2007 da un attentato, era premier, dal 1993 al ’96: considerata nell’iconografia la donna che voleva cambiare il Pakistan, nei fatti si adeguava alla Realpolitik di un Paese dove hanno quasi sempre dominato le forze armate che gestiscono, più o meno direttamente, anche il 40-50% dell’economia. Chiusa dall’India, con cui è in un conflitto perenne e inestricabile in Kashmir, Islamabad ha sempre considerato l’Afghanistan una parte irrinunciabile della sua “profondità strategica”.
Per questo il gioco dei pakistani nella guerra al terrorismo e ai jihadisti è sempre stato ambiguo. Bin Laden è stato ucciso ad Abbottabad, il mullah Omar è morto in un ospedale di Karachi. I gruppi radicali sono stati manovrati in funzione anti-indiana nel Kashmir e per tenere un piede dentro l’Afghanistan. Sono tutte cose che gli americani conoscono perfettamente: il Pakistan è vittima del terrorismo ma anche uno degli sponsor dei gruppi islamisti, peraltro generosamente finanziati dall’Arabia Saudita che ha puntato a diffondere nel mondo musulmano la sua versione wahabita dell’Islam.
Ma oggi quello che rende ancora più acuta la tensione tra Washington e Islamabad è la presenza cinese. La Cina ha investito 50 miliardi di dollari nel progetto di corridoio sino-pakistano che ha il suo terminale nel porto di Gwadar, un crocevia tra Medio Oriente, Sud-Est asiatico e Asia centrale in grado di garantire un percorso più breve ai rifornimenti energetici cinesi. Oltre 15 mila soldati pakistani sono schierati per proteggere i cantieri cinesi dagli attentati.
Il Pakistan rappresenta un partner strategico fondamentale per la Cina, che negli ultimi anni ha aumentato il proprio coinvolgimento nel Paese nonostante il peggioramento dello scenario di sicurezza pakistano.
Più gli interessi nazionali si proiettano oltre i confini cinesi, più diventa difficile mantenere la rigida aderenza al principio di non interferenza per Pechino, che ha iniziato a mostrare verso questa dottrina un approccio sempre più pragmatico. L’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua difesa dell’economia statunitense sotto il motto “America First” non ha fatto altro che aggiungere tensioni.
Nei progetti infrastrutturali della Nuova Via della Seta la Cina si è impegnata a iniettare 900 miliardi di dollari: un rischio finanziario ma anche geopolitico perché molti di questi piani riguardano aree da alta instabilità e incidono su equilibri strategici apparentemente consolidati.
Qual è la posta in gioco? Ci sono tre potenze nucleari, Cina, India e Pakistan più una quarta, gli Usa insediati in Afghanistan che si disputano con la Russia l’influenza tra Asia orientale e centrale e Subcontinente indiano attraverso le vie commerciali, energetiche e marittime.
Gli americani non vinceranno mai la guerra afghana, così come mai nessuna potenza l’ha vinta prima di loro. Ma la vittoria ha un valore assai relativo: l’importante per Washington è continuare a restare in Afghanistan. Se i pakistani possono destabilizzare Kabul con gli attentati dei talebani o della rete Haqqani, gli americani possono fare lo stesso nei confronti di Islamabad e tenere una pistola puntata contro gli investimenti cinesi nel corridoio del Pakistan. È lo stesso metodo che ha usato Pechino sostenendo il regime della Corea del Nord in East Asia.
Così vanno le cose tra le potenze che manovrano gli attori locali: qualcuno di questi ogni tanto va fuori controllo, abbatte come Bin Laden le Due Torri a New York oppure ispira ai jihadisti gli attentati nelle città europee o come l’ineffabile Kim Jong-un minaccia una guerra nucleare. Ma sono “danni collaterali”: la partita strategica è un’altra, il predominio globale.

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