Paola Caridi :Tahrir a Gerusalemme?
Tahrir
a Gerusalemme? 27 luglio 2017 - Via i metal detector. Via anche
le telecamere. Via le strutture d’acciaio, sul tipo delle ‘americane’
che si usano in teatro. Nessuno si attendeva che la crisi di Al Aqsa, a
Gerusalemme, potesse registrare in meno di due settimane un primo,
fondamentale t...
www.invisiblearabs.com Via anche le telecamere. Via le strutture d’acciaio, sul tipo delle
‘americane’ che si usano in teatro. Nessuno si attendeva che la crisi di
Al Aqsa, a Gerusalemme, potesse registrare in meno di due settimane un
primo, fondamentale traguardo. La situazione, certo, è ancora
delicatissima, ma i fatti concreti ci sono. Ed è interessante
registrarli e analizzarli con la necessaria attenzione.
Tre i livelli attraverso i quali leggere la crisi. Un livello
istituzionale locale, vale a dire la dinamica tra le autorità israeliane
e il Waqf, l’organismo religioso-amministrativo che sovrintende alla
Spianata delle Moschee e al patrimonio. Un livello squisitamente
diplomatico, soprattutto regionale (la Giordania). E infine un livello
per nulla secondario: la mobilitazione dei gerosolimitani palestinesi.
Il primo piano, quello istituzionale, è stato – a quel che appare – il
deus ex machina della strategia palestinese. Il Waqf ha, cioè, elaborato
sin da subito una strategia coerente e soprattutto costante: nessun
cedimento sulla sovranità formale e sostanziale sulla Spianata delle
Moschee, nessun cedimento sulla modifica unilaterale dello status quo,
coinvolgimento dei fedeli sulla difesa di un simbolo identitario allo
stesso tempo religioso e nazionale. Una linea dura, a prima vista. In
particolare sui metal detector, che la lettura ultranazionalista di
destra e islamofoba (ben presente in Europa e in Italia) ha minimizzato
come mera questione di sicurezza. Una lettura di questo tipo, calata a
Gerusalemme, è un’offesa all’intelligenza e alla conoscenza dei luoghi.
In una terra dove milioni di palestinesi sono sottoposti a una vigilanza
costante, e alle perquisizioni giornaliere a Ramallah, a Betlemme, a
Nablus, alle porte della Città Vecchia di Gerusalemme, i metal detector
attorno alla Spianata rappresentano allo stesso tempo una questione di
sovranità e di difesa della dignità. Soprattutto quando, a incidere
sull’attuazione di queste misure, è il peso del movimento dei coloni.
Succede quotidianamente ai checkpoint di Betlemme, di Hebron/Khalil, di
Nablus: la presenza dei coloni acutizza le misure di sicurezza, tutte a
favore dei coloni e a sfavore dei palestinesi. Lo spettro della
cosiddetta hebronizzazone di Gerusalemme Vecchia è ben presente ai
palestinesi della città, molti dei quali sono eredi e figli di famiglie
di commercianti di Hebron, costretti a spostarsi a Gerusalemme dopo la
chiusura securitaria delle strade attorno alla moschea Ibrahimi. Il
Waqf, dunque, ha fatto quadrato. E la popolazione palestinese di
Gerusalemme lo ha seguito, utilizzando una strategia di disobbedienza
civile che ha le sue radici nell’intifada del 1987. D’altro canto, la
capacità di mobilitazione e di blocco della città è nella storia
contemporanea di Gerusalemme: basta ricordare la grande rivolta araba
del 1936-39 e guardarsi quella meravigliosa documentazione fotografica
della rivolta che è conservata nell’archivio di Eric Matson alla
National Library di Washington. La Giordania, a sua volta, non poteva
non sostenere il Waqf. Vuoi perché sono gli stessi palestinesi a
riconoscere, negli ultimi anni, un sostegno forte da parte della
monarchia hashemita sulle questioni della Spianata delle Moschee. Vuoi
perché le decisioni tutte securitarie del governo Netanyahu hanno messo
in fortissimo imbarazzo re Abdallah, e lo hanno lasciato in prima linea
di fronte a una opinione pubblica sensibilissima. Quando si è verificato
l’ancora ambiguo e tragico episodio che ha coinvolto un membro della
sicurezza dell’ambasciata israeliana ad Amman, la Giordania è entrata
con tutto il suo peso nel gioco diplomatico. Due civili giordani uccisi.
Un membro della sicurezza dell’ambasciata israeliana che parla di
aggressione e di legittima difesa. Una gatta da pelare per la diplomazia
giordana, che ha agito – mutatis mutandis – con la stessa fermezza con
la quale agì nel 1997, per dirimere il delicatissimo caso dell’attentato
a Khaled Meshaal ad Amman per mano del Mossad. Anche in questo caso, il
personale israeliano non ha ricevuto il permesso di lasciare la
Giordania, e Netanyahu (che anche allora, nel 1997, era premier) ha
dovuto negoziare. Una trattativa in cui – ci sono pochi dubbi – è
entrata che la crisi di Al Aqsa. Con i risultati che abbiamo visto. C’è
però anche un terzo livello, per nulla secondario, in questa storia. È
la mobilitazione dei palestinesi di Gerusalemme. Disobbedienza civile.
Preghiera. Violenza limitata sostanzialmente al lancio di pietre.
Coesione estrema. Costanza. Ad alcuni è sembrata la versione
gerosolimitana di piazza Tahrir. Di certo, dal punto di vista delle
immagini e dei segni della città, vedere le mura antiche circondate dai
poliziotti israeliani, e i poliziotti circondati a loro volta da fedeli
in preghiera è qualcosa di nuovo. Innovativo. Qualcosa che andrà studiato.
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