Paola Caridi : Non li abbiamo protetti, i nostri figli | invisiblearabs
Non
li abbiamo protetti, i nostri figli 22 luglio 201722 luglio 2017 -
Paola Confesso un dolore, e una impotenza. In questa stagione di
violenza, a Gerusalemme, gli agnelli sacrificali sono quasi sempre
giovani. Ragazzi. E’ successo anche ieri. Tre ragazzi palestinesi
ammazzati per mano israeliana,…
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Confesso un dolore, e una impotenza. In questa stagione di
violenza, a Gerusalemme, gli agnelli sacrificali sono quasi sempre
giovani. Ragazzi. E’ successo anche ieri. Tre ragazzi palestinesi
ammazzati per mano israeliana, rispettivamente da un colono, la polizia
di frontiera, l’esercito. Palestinese il ragazzo che ha ucciso tre
coloni israeliani dentro un insediamento in Cisgiordania.

Riesco a malapena a sopportare la vista di quelle foto, bei ragazzi, istruiti, nella toga che si indossa nella cerimonia per il diploma di maturità. Il Tawjihi, meta ambita per le famiglie e i loro figli. La maturità, la porta di ingresso nel mondo. Quella porta di ingresso gli è stata sbattuta in faccia, ieri, per Gerusalemme. Per Gerusalemme, per una città che è allo stesso tempo casa e identità, terra e politica, appartenenza e sofferenza quotidiana.
Le foto rimbalzano nel web, su twitter soprattutto. Mohammed Mahmud Sharaf, di 17 anni. Mohammed Lufti. Mohammed Abu Ghneim. E così, le parole che ho scelto sono quelle che sono riuscita a scrivere nel mio testo teatrale, Cafè Jerusalem. I protagonisti sono gli abitanti della città, nascosti proprio dalla fama e dall’importanza di Gerusalemme. Protagonisti reali, e allo stesso tempo fantasmi, in un gioco di rimandi tra i tempi della storia e quelli della vita. Musa, nel testo, è uno di quei ragazzi, osservati per i dieci anni in cui sono stata anche io un’abitante di Gerusalemme. Nura è la protagonista, la voce narrante, la coscienza.
Musa: La prima volta avevo 13 anni. Ero lì, fuori dalla Porta di Erode, lungo le grandi Mura antiche. Appena uscito da scuola, sulla via per tornare a casa. Elias, Hanna, Mohammed, e io, tutti noi assieme. Come sempre, dalle 8 della mattina, quando entravamo a scuola, e Suleiman, il custode, ci urlava dietro perché eravamo in ritardo. Fino a sera, per strada, dentro la Gerusalemme vecchia.
Scappavamo. Io, Elias, Hanna, Mohammed. Correvamo, e le scarpe facevano rumore come gli zoccoli dei cavalli che ci inseguivano. Alti, belli, spaventosi. I cavalli della polizia.
Quando mi hanno preso, è arrivata di colpo sino ai piedi. Calda. No, tiepida, consolante. E poi di colpo fredda. I jeans bagnati, pieni di piscio.
Mi sono vergognato. Ho pensato a mia madre, a quante me ne avrebbe dette. I jeans nuovi, sporchi, da lavare. Ho pensato a mia madre e al suo dolore. Ma mi avevano insegnato a essere forte, a non versare una lacrima, nel caso gli israeliani mi avessero preso.
“Qual è il problema?”, mi diceva Ammo Mahdi. “Tanto, è toccato a ognuno di noi…”.
Le manette di plastica, quelle che, da altre parti del mondo, servono a legare rami. Non le mani.
E la benda che ti mettono sulla fronte, per non vedere dove ti portano. La camionetta che sbanda, la nausea che ti prende perché non vedi niente, e non ti puoi reggere, dietro, nel cassone della camionetta. E poi via al centro interrogatori.
Nura: è scesa silenziosa. Tiepida, sulla guancia, quell’unica lacrima. Ho cercato di fermarla, ma i nostri figli valevano quella lacrima. Più della mia dignità. Più del sumud, della fermezza e della pazienza.
Lo aspettavo, quel momento, quel dolore lancinante. Fermi, che fate? Slikhà, slikhà! No, per pietà. È solo un bambino. E si fa la pipì addosso. Tiepida, come quell’unica lacrima.
Non li abbiamo protetti, non li abbiamo protetti i nostri figli, e lo sapevamo. Un figlio maschio, un onore e una gioia, e poi, come tutte noi, un dolore che squarcia il petto.
Le madri, e le foto dei figli, morti, uccisi, suicidi, in galera, invalidi, saltati per aria, stravolti, pazzi, con un mitra in mano o un mitra puntato contro.
Figli perduti. Ragazzi perduti. In ogni stagione di questa guerra per te, Gerusalemme.
Ma tu, Gerusalemme, lo vali tutto questo dolore? Le vali, Gerusalemme, le vite dei nostri figli?
Io ti scomunico. Scomunico la tua santità!
Musa: Donna, che dici! Gerusalemme la vale la mia vita! E la tua. Gerusalemme è la nostra storia. Senza di lei, non esisteremmo.
Nura: non bestemmiare, ragazzo… Esistiamo, e senza di lei. Carne e ossa. Piscio e lacrime. Anche se lei, la Città, è la nostra storia. Non solo la nostra. Storia.
Nello spettacolo che abbiamo portato in giro in questi ultimi due anni in molti teatri d’Italia, Pino Petruzzelli è Musa (e poi Moshe). Carla Peirolero è Nura. Le musiche sono dei Radiodervish.

Riesco a malapena a sopportare la vista di quelle foto, bei ragazzi, istruiti, nella toga che si indossa nella cerimonia per il diploma di maturità. Il Tawjihi, meta ambita per le famiglie e i loro figli. La maturità, la porta di ingresso nel mondo. Quella porta di ingresso gli è stata sbattuta in faccia, ieri, per Gerusalemme. Per Gerusalemme, per una città che è allo stesso tempo casa e identità, terra e politica, appartenenza e sofferenza quotidiana.
Le foto rimbalzano nel web, su twitter soprattutto. Mohammed Mahmud Sharaf, di 17 anni. Mohammed Lufti. Mohammed Abu Ghneim. E così, le parole che ho scelto sono quelle che sono riuscita a scrivere nel mio testo teatrale, Cafè Jerusalem. I protagonisti sono gli abitanti della città, nascosti proprio dalla fama e dall’importanza di Gerusalemme. Protagonisti reali, e allo stesso tempo fantasmi, in un gioco di rimandi tra i tempi della storia e quelli della vita. Musa, nel testo, è uno di quei ragazzi, osservati per i dieci anni in cui sono stata anche io un’abitante di Gerusalemme. Nura è la protagonista, la voce narrante, la coscienza.
Musa: La prima volta avevo 13 anni. Ero lì, fuori dalla Porta di Erode, lungo le grandi Mura antiche. Appena uscito da scuola, sulla via per tornare a casa. Elias, Hanna, Mohammed, e io, tutti noi assieme. Come sempre, dalle 8 della mattina, quando entravamo a scuola, e Suleiman, il custode, ci urlava dietro perché eravamo in ritardo. Fino a sera, per strada, dentro la Gerusalemme vecchia.
Scappavamo. Io, Elias, Hanna, Mohammed. Correvamo, e le scarpe facevano rumore come gli zoccoli dei cavalli che ci inseguivano. Alti, belli, spaventosi. I cavalli della polizia.
Quando mi hanno preso, è arrivata di colpo sino ai piedi. Calda. No, tiepida, consolante. E poi di colpo fredda. I jeans bagnati, pieni di piscio.
Mi sono vergognato. Ho pensato a mia madre, a quante me ne avrebbe dette. I jeans nuovi, sporchi, da lavare. Ho pensato a mia madre e al suo dolore. Ma mi avevano insegnato a essere forte, a non versare una lacrima, nel caso gli israeliani mi avessero preso.
“Qual è il problema?”, mi diceva Ammo Mahdi. “Tanto, è toccato a ognuno di noi…”.
Le manette di plastica, quelle che, da altre parti del mondo, servono a legare rami. Non le mani.
E la benda che ti mettono sulla fronte, per non vedere dove ti portano. La camionetta che sbanda, la nausea che ti prende perché non vedi niente, e non ti puoi reggere, dietro, nel cassone della camionetta. E poi via al centro interrogatori.
Nura: è scesa silenziosa. Tiepida, sulla guancia, quell’unica lacrima. Ho cercato di fermarla, ma i nostri figli valevano quella lacrima. Più della mia dignità. Più del sumud, della fermezza e della pazienza.
Lo aspettavo, quel momento, quel dolore lancinante. Fermi, che fate? Slikhà, slikhà! No, per pietà. È solo un bambino. E si fa la pipì addosso. Tiepida, come quell’unica lacrima.
Non li abbiamo protetti, non li abbiamo protetti i nostri figli, e lo sapevamo. Un figlio maschio, un onore e una gioia, e poi, come tutte noi, un dolore che squarcia il petto.
Le madri, e le foto dei figli, morti, uccisi, suicidi, in galera, invalidi, saltati per aria, stravolti, pazzi, con un mitra in mano o un mitra puntato contro.
Figli perduti. Ragazzi perduti. In ogni stagione di questa guerra per te, Gerusalemme.
Ma tu, Gerusalemme, lo vali tutto questo dolore? Le vali, Gerusalemme, le vite dei nostri figli?
Io ti scomunico. Scomunico la tua santità!
Musa: Donna, che dici! Gerusalemme la vale la mia vita! E la tua. Gerusalemme è la nostra storia. Senza di lei, non esisteremmo.
Nura: non bestemmiare, ragazzo… Esistiamo, e senza di lei. Carne e ossa. Piscio e lacrime. Anche se lei, la Città, è la nostra storia. Non solo la nostra. Storia.
Nello spettacolo che abbiamo portato in giro in questi ultimi due anni in molti teatri d’Italia, Pino Petruzzelli è Musa (e poi Moshe). Carla Peirolero è Nura. Le musiche sono dei Radiodervish.
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