Il disegno egemone di Riyadh nella crisi del mondo sunnita
Controllo del prezzo del petrolio,
diversificazione dell’economia, leadership in Medio oriente. Questo
spiega le tensioni col Qatar, la Turchia e l’Iran, oltre che con gli
Stati Uniti, l’Oman e il Kuwait. La guerra in Yemen e il disprezzo
dell’Onu. Due modelli di islam: il wahhabismo e la Fratellanza
musulmana.
Milano (AsiaNews) - Una serie di profondi radicali cambiamenti è
in atto a livello politico di governo in Arabia Saudita. Negli ultimi
mesi la monarchia saudita si è resa protagonista a livello
internazionale attraverso “forti” iniziative politiche, che gli esperti
non hanno difficoltà a leggere nel segno di una medesima trama in cui
l’Arabia Saudita aspira ad assumere la leadership incontrastata a
livello politico, economico e militare non solo del mondo arabo islamico
di fede sunnita, ma anche e soprattutto del quadrante geopolitico
mediorientale.
L’impegno nella sanguinosa guerra nello Yemen a sostegno dei clan
sunniti; lo strategico accordo concluso con la Presidenza Trump per
l’acquisto di colossali forniture militari Usa nell’arco un decennio;
la condanna congiunta del sovrano Salman e del presidente Trump a
livello diplomatico dell’Iran sciita come presunto demoniaco artefice
del terrorismo internazionale; ma forse più di ogni altra vicenda la
pesantissima crisi diplomatica con il piccolo, ma ricchissimo emirato
sunnita del Qatar, hanno messo a dura prova la già precaria stabilità
del Golfo Arabico, che nei due decenni successivi all’aggressione di
Saddam Hussein all’emirato del Kuwait era riuscito a mantenersi indenne
dalle terribili guerre che devastano il Medio Oriente.
Mai come oggi il Consiglio di cooperazione del Golfo,
l’organizzazione internazionale che riunisce sotto un trattato le varie
monarchie, emirati e potentati sovrani degli Stati del Golfo, si trova
diviso ed in aperta crisi a seguito delle aggressive, muscolari,
addirittura minacciose mosse diplomatiche di Riyadh e dei suoi alleati
Emirati Arabi Uniti – Abu Dhabi e Dubai – Bahrein, Egitto nei confronti
del Qatar, emirato sunnita assai poco disposto ad assoggettarsi alla
politica di potenza della monarchia wahhabita di Riyadh e attento
piuttosto ad un dialogo più articolato con il governo sciita di Teheran e
con le dottrine politiche islamiche contrapposte al wahhabismo, come ad
esempio la Fratellanza Musulmana.
Per completare il quadro di questa complessa situazione si consideri
la recentissima nomina da parte di re Salman del nuovo principe
ereditario al trono di Arabia Saudita, Mohammad bin Salman (v. foto),
le cui posizioni di falco anti-sciita e di convinto assertore del ruolo
di leadership nel mondo sunnita della monarchia wahabita di Ryadh sono
note agli osservatori internazionali.
Ma cosa sta davvero accadendo in seno al mondo arabo sunnita coagulato attorno alle ricchissime monarchie del Golfo Arabico?
L’Arabia Saudita – al pari di altri Stati che hanno ormai assunto un
ruolo economico finanziario egemone a livello internazionale, come
l’India e la Cina – sta elaborando una strategia politica mirante ad
assumere un ruolo di global player addirittura a livello mondiale nel
settore delle materie prime energetiche petrolifere. Una prova concreta è
data dal progetto Vision 2030, un piano economico, finanziario,
politico molto ambizioso con il quale la monarchia wahhabita intende
diversificare la propria economia in campo internazionale per assumere
un ruolo di arbitro del settore petrolifero, in concorrenza se non in
conflitto addirittura con gli altri players: Usa, Paesi Opec e
soprattutto l’Iran sciita, che aspira a rientrare nell’arena del
commercio internazionale dei prodotti petroliferi.
Per raggiungere questo obiettivo la monarchia di re Salman ha
necessità di un solido sistema di alleanze regionali politiche con i
Paesi limitrofi, ed il collante di tale alleanze è l’ideologia islamica
wahhabita. Come efficacemente ha notato Charles Kupchan, analista
politologo liberal Usa, in Medio Oriente i Paesi un tempo emergenti
ormai hanno conquistato una autonomia economico finanziaria e per questa
ragione non intendono più seguire i modelli delle alleanze con le
democrazie occidentali, ma intendono sviluppare un’autonomia geopolitica
in cui il sistema delle alleanze regionali (e dei conflitti regionali)
prende il posto purtroppo del ruolo dell’Onu a livello di cooperazione
diplomatica internazionale.
Ciò è proprio quanto sta accadendo in seno al mondo arabo sunnita: le
iniziative della monarchia saudita hanno innescato una sorta di effetto
domino, una reazione a catena da parte di quegli Stati islamici sunniti
che non condividono la dottrina wahhabita dell’esercizio del potere
politico nel mondo islamico.
Sotto il profilo politico ideale di concezione dello Stato, il mondo
islamico sunnita oggi si contrappone tra i sostenitori della rigorosa
iper-tradizionalista dottrina wahhabita incarnata per eccellenza dalla
monarchia saudita – le cui linee guida in verità sono state assunte a
modello ideale anche del criminale regime politico del califfato
dell’Isis– ed i seguaci della Fratellanza Musulmana, la dottrina
politica massimalista comunitaria islamica nata in Egitto e sviluppatasi
in molti Stati del Medio Oriente.
Il conflitto annoso che contrappone queste due differenti concezioni
dell’esercizio del potere politico sovrano attraverso il primato della
religione islamica si rispecchia negli schieramenti che sono subito
scesi in campo dopo l’aggressione diplomatica saudita al Qatar.
La Turchia dell’autocratico leader Erdogan è il principale alleato
dell’emirato del Qatar: entrambi questi Stati infatti sostengono ed
incarnano il progetto dei Fratelli Musulmani di riforma rivoluzionaria
radicale del governo politico dei Paesi islamici avviatosi con le
Primavere arabe del 2011; lo stesso Akp, il partito del presidente
Erdogan, è visto dagli analisti come la proiezione turca dei Fratelli
Musulmani, che mirano a scalzare le sclerotiche classi politiche dei
principati arabi. La potente emittente all news del mondo arabo, Al
Jazeera, è stata una delle armi principali del Qatar per porre sotto
accusa i regimi e governi che perseguitano i Fratelli Musulmani ,come
l’Egitto alleato fedele di Riyadh, e sostenere la stagione delle
Primavere arabe guidate dalla Fratellanza.
Non si deve infine sottovalutare che nel territorio del piccolo
emirato del Qatar sono presenti forze armate turche, e che dopo
l’ultimatum diplomatico inviato al Qatar dall’Arabia Saudita e dai suoi
alleati il governo di Ankara ha deciso l’invio di altri 200 militari a
Doha, la capitale del Qatar: il timore di un colpo di Stato nell’emirato
non è purtroppo un’ipotesi virtuale.
In questo quadro a forti chiaroscuri, l’Arabia Saudita non pare
essere in grado di vincere la partita in modo unilaterale: non solo
Turchia ed Iran sono avversari politici non irrilevanti per il progetto
politico di Riyadh, ma la stessa ipotesi di creare una “fortezza”
sunnita del mondo arabo a guida wahhabita potrebbe degenerare in un
conflitto regionale assai pericoloso.
Gli stessi altri Paesi membri del Consiglio del Golfo, come il
Kuwait e l’Oman, guardano con timore ed apprensione ad un conflitto
regionale, mentre l’ipotesi più ragionevole che appare sulla carta
sarebbe quella della ricomposizione a livello internazionale delle
tensioni del mondo arabo, coinvolgendo necessariamente tutti gli
interlocutori che gravitano politicamente, economicamente e quindi
militarmente su questa ricchissima area petrolifera.
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