Nathan Thrall :I 50 anni di occupazione israeliana. E i prossimi
Quello che ho visto in 30 anni di cronaca dell'occupazione israeliana
The New York Times, 02.06.2017
https://www.nytimes.com/2017/06/02/opinion/sunday/the-past-50-years-of-israeli-occupation-and-the-next.html
GERUSALEMME - Tre mesi dopo la guerra
del 1967, nel partito Mapai, allora al governo in Israele, ci fu una
discussione sul futuro dei territori appena conquistati. Golda Meir, che
sarebbe diventata capo del governo israeliano un anno e mezzo più
tardi, chiese al primo ministro Levi Eshkol che cosa intendesse fare con
gli oltre un milione di arabi che vivevano ormai sotto il comando
israeliano.
"Capisco la domanda", rispose
scherzosamente Eshkol. "Vuoi la dote, ma non ti piace la sposa!" La Meir
rispose: "La mia anima desidera ricevere la dote, e che qualcun altro
si prenda la sposa".
In questo giorno di 50° anniversario
della guerra è chiaro che nel corso del mezzo secolo successivo Israele è
riuscito a soddisfare il desiderio della signora Meir mantenendo il
controllo della terra a tempo indefinito ma senza sposarsi con gli
abitanti. Questo stato di cose, che ha sempre resistito al cambiamento e
ha dimostrato di essere sostenibile pur essendo spesso ritenuto
impropriamente come uno stato di limbo temporaneo, si è appoggiato su
tre pilastri principali: il sostegno americano, la debolezza palestinese
e l'indifferenza israeliana. Insieme, questi tre elementi assicurano al
governo israeliano che la continuazione dell'occupazione sia molto meno
costosa delle concessioni necessarie per porvi fine.
A sua volta ciascun pilastro attinge
il proprio sostegno da un mito fondamentale promosso dai leader della
società americana, palestinese o israeliana. Per gli americani, il mito
che l'occupazione sia insostenibile è un elemento cruciale nel mantenere
e giustificare lo sforzo finanziario e diplomatico degli Stati Uniti in
favore dell'occupazione. Dalle sedi del Dipartimento di Stato agli
editoriali dei principali quotidiani e dalle dichiarazioni di
organizzazioni pacifiste come J Street, gli americani si sentono
ripetere che Israele dovrà scegliere, e molto presto, di concedere ai
palestinesi la cittadinanza o l'indipendenza, e scegliere se rimanere
una democrazia o diventare uno stato di apartheid.
Tuttavia nessuno di questi gruppi
chiede agli Stati Uniti di forzare questa presunta scelta imminente,
nonostante tutte le volte in cui Israele ha dimostrato di preferire
un'opzione diversa e molto più facile - l'occupazione indefinita - senza
subire nessuna conseguenza reale. L'unica vera conseguenza della
continua occupazione è l'importante aumento del finanziamento americano,
con Israele che riceve ormai più assistenza militare statunitenese che
tutto il resto del mondo messo assieme. Scambiando qualche dito puntato
con una pressione, questi gruppi trascorrono troppo tempo a formulare le
loro critiche agli insediamenti e all'occupazione e troppo poco a
chiedere che cosa si possa fare in concreto per contrastarli.
Il sostegno della teoria secondo la
quale Israele non potrebbe continuare a sottomettere i palestinesi a
lungo, e dunque gli Stati Uniti non saranno complici in altri decenni di
sottomissione, è una parata apparentemente infinita di pericoli
incombenti, ognuno dei quali, si sostiene o si spera, costringerà
Israele a porre fine alla sua occupazione nel prossimo futuro.
All'inizio la minaccia era un attacco
dagli stati arabi. Ma questa possibilità si è dissolta presto: Israele
ha fatto una pace separata con lo stato più forte, l'Egitto; gli stati
arabi si sono dimostrati incapaci anche di difendere lo stato sovrano
del Libano dall'invasione israeliana; e negli ultimi anni molti stati
arabi hanno addirittura smesso di rispettare il loro tradizionale
boicottaggio di Israele.
Poi c'era la minaccia demografica di
una maggioranza palestinese tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Ma
le statistiche ufficiali sulle popolazioni israeliana e palestinese
indicano che gli ebrei sono ormai da molti anni una minoranza nel
territorio controllato da Israele e questo non ah causato alcuna
ripercussione: la maggioranza delle nazioni del mondo continua a parlare
del dominio non democratico di una minoranza ebraica come di un futuro
ipotetico e non come di un presente inaccettabile.
Civili palestinesi e soldati
israeliani attendono l'arrivo degli agenti di polizia palestinese a Gaza
nel 1994. (Susan Meiselas / Magnum Foto)
Più tardi è arrivata la minaccia di
una rinnovata violenza palestinese. Ma Israele, con l'esercito più forte
della regione, ha ripetutamente dimostrato di poter controllare e
reprimere qualsiasi esplosione di resistenza che i palestinesi, divisi e
esausti, siano in grado di sostenere.
Anche le minacce successive sono
risultate vane. L'accresciuto potere di nazioni nominalmente
pro-palestinesi come l'India e la Cina non ha avuto effetti negativi su
Israele, che ha rafforzato i suoi legami con entrambi i paesi. Il
movimento BDS (Boicotaggio, Disinvestimento, Sanzioni), sebbene si
faccia sentire in alcuni campus americani, non è ancora riuscito a fare
alcun danno all'economia di Israele o al livello di qualità della vita
dei suoi cittadini, che è tra i più alti del mondo.
Sostenuta da alcuni intellettuali
palestinesi e da loro alleati, l'idea della creazione di un solo stato,
la cosiddetta soluzione a stato unico, non è stata fatta propria da
nemmeno una fazione palestinese ed è molto lontana da avere un sostegno
maggioritario in Cisgiordania e Gaza. E anche se la proposta diventase
popolare, Israele potrebbe facilmente contrastarla ritirandosi dalla
Cisgiordania, come ha fatto con Gaza nel 2005.
L'ultima, anche se certamente non la
meno importante, di questa lista di minacce è la prospettiva di un
cambiamento politico in America e nella sua comunità ebraica. Le
opinioni su Israele sono sempre più polarizzate e i sondaggi mostrano
una maggioranza di democratici favorevole ad alcune sanzioni economiche o
altre azioni contro gli insediamenti israeliani. Tra gli ebrei
americani, un crescente tasso di matrimoni con non ebrei sta diminuendo
l'attaccamento a Israele e le organizzazioni ebraiche sono sempre più
divise sul sostegno da dare al paese. Nonostante questo travaglio,
soprattutto tra gli ebrei liberal, i sondaggi durante quasi quattro
decenni mostrano che il sostegno americano a Israele nelle sue politiche
contro i palestinesi non ha fatto che aumentare e nessuna stretta di
mano si è tradotta in cambiamenti nella politica americana.
Per i politici americani, gli
incentivi finanziari alle campagne elettorali dettano ancora un sostegno
incondizionato di base per Israele. Gli Stati Uniti hanno elargito
oltre 120 miliardi di dollari al paese dall'inizio dell'occupazione,
hanno speso decine di miliardi di dollari per sostenere regimi
pro-israeliani che governano popolazioni anti-israeliane in Egitto e
Giordania e hanno fornito ulteriori miliardi di all'Autorità palestinese
a condizione che continui a prevenire attacchi e proteste contro gli
insediamenti israeliani. E queste spese non considerano il costo per la sicurezza americana causato dal risentimento arabo e musulmano nei
confronti degli Stati Uniti per aver permesso e finanziato l'oppressione
dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.
Per la maggior parte, anche i
palestinesi hanno fatto molto per sostenere lo status quo. Il mito
sostenuto dai dirigenti del governo palestinese è che cooperare con
l'occupazione di Israele - cosa che rende l'occupazione meno costosa,
più invisibile agli israeliani e più facile da sostenere - porterà in
qualche modo alla sua fine. Ciò accadrà, seconda questa teoria, perché
la buona condotta palestinese porterebbe una pressione da parte della
soddisfatta opinione pubblica israeliana, o perché Israele, una volta
privato di pretesti, sarà costretto dagli Stati Uniti e dalla comunità
internazionale a concedere ai palestinesi la loro indipendenza.
Questo è il mito che sottende il
sostegno ininterrotto degli accordi di Oslo, anche molto dopo la loro
scadenza nel 1999. Il mito sta anche alla base del piano biennale
dell'ex primo ministro Salam Fayyad per costruire le istituzioni di uno
Stato palestinese e dei 12 anni di quiescenza e stretta cooperazione di
sicurezza con Israele sotto il presidente Mahmoud Abbas in Cisgiordania.
Una controparte di questo mito,
sostenuto dai funzionari israeliani e rigurgitato dai politici
americani, è che Israele non farà concessioni sotto pressione ma le farà
se verrà trattato con comprensione. I fatti storici dimostrano l'esatto
contrario.
Le forti pressioni da parte degli
Stati Uniti, inclusa la minaccia di sanzioni economiche, costrinse
Israele a evacuare Sinai e Gaza dopo la crisi di Suez del 1956. Hanno
anche costretto Israele a impegnarsi per un parziale ritiro dal Sinai
nel 1975. Hano fatto accettare a Israele il principio del ritiro dai
territori occupati nella guerra del 1967, tra cui la West Bank, negli
accordi di Camp David del 1978. E hanno obbligato Israele a ritirarsi
dopo le incursioni nel Libano meridionale nel 1977 e nel 1978.
Allo stesso modo, è stata la pressione
palestinese, manifestazioni di massa e violenza comprese, che hano
provocato ogni parziale ritiro israeliano dal territorio palestinese. Il
primo ministro Yitzhak Rabin, che accettò i primi ritiri israeliani da
parti della Cisgiordania e di Gaza, fece la prima proposta per
un'autonomia palestinese nel 1989, mentre era il ministro della difesa
che tentava di spengere la prima intifada. Anche Yitzhak Shamir, allora
primo ministro e un fortemente contrario alla cessione di territorio
agli arabi, presentò un piano di autonomia per i palestinesi quello
stesso anno.
Nel 1993, mentre l'intifada si
sviluppava in un conflitto sempre più militarizzato nel 1993 e Israele
aveva sigillato i territori occupati nel marzo di quell'anno, i
negoziatori israeliani tennero incontri segreti con i palestinesi vicino
a Oslo. Lì, chiesero la fine dell'intifada e trovarono rapidamente un
accordo offrendo l'evacuazione del governo militare e la creazione di
un'autonomia palestinese. Nel 1996, gli scontri e le rivolte noti come
la rivolta del tunnel portarono direttamente alla promessa del primo
ministro Benjamin Netanyahu di negoziare un ritiro dalla maggior parte
di Hebron, che Israele si impegnò formalmente di fare alcuni mesi dopo.
Durante la seconda intifada, gli
attacchi con i razzi da Gaza erano aumentati di sette volte nell'anno in
cui il primo ministro Ariel Sharon annunciò l'evacuazione di Israele
(secondo il punto di vista di Israele, l'esercito si era ritirato e
iniziarono i lanci di razzi, ma in realtà i lanci di razzi erano già
iniziati prima del ritiro). Poco dopo il disimpegno da Gaza e la fine
dell'intifada, una pluralità di israeliani votarono per il Partito
Kadima, guidato dal primo ministro Ehud Olmert, che proponeva una
piattaforma di ritiro da circa il 91 per cento della Cisgiordania che si
trova ad est della barriera di separazione.
Tuttavia col diminuire delo spargimento di sangue, il senso di urgenza di Israele sul problema palestinese svanì rapidamente. Nessuna proposta seria per il ritiro unilaterale è stata fatta fino a quando il livello di violenza nella Cisgiordania e a Gerusalemme ha ricominciato a salire alla fine del 2015.
Infine, il mito più diffuso per
Israele è che non esisterebbe un partner palestinese per la pace. I
palestinesi sarebbero irrimediabilmente su una linea di rifiuto, non
rinunciano ai loro obiettivi impossibili e non hanno mai accettato veri
compromessi, nonostante tutte le generose proposte israeliane. La verità
è che la storia del movimento nazionale palestinese è una lunga serie
di sconfitte militari e concessioni ideologiche. Ciascuna di queste ha
spostato lentamente l'Organizzazione di liberazione della Palestina
(OLP) dal rifiuto di ogni presenza israeliana all'accettazione e al
riconoscimento di Israele sui confini del 1967, compromettendo il 78%
della Palestina storica. Per anni, la comunità internazionale ha
bersagliato e bullizzato l'OLP per farle accettare uno stato palestinese
in Cisgiordania e Gaza, ovvero nel restante 22 per cento.
Quando l'OLP finalmente lo ha fatto,
nel 1988, le è stato tirato il tappeto da sotto i piedi. I palestinesi
si sono svegliati scoprendo che il 22 per cento della patria era stato
ridefinito come il loro massimo obiettivo. Shimon Peres fu tra i pochi
leader israeliani a riconoscere la grandezza della concessione dei
palestinesi. La definì "il più grande successo" di Israele.
Nell'ultimo quarto di secoli, durante i
negoziati intermittenti condotti dall'America, l'impotenza dei
palestinesi ha portato a ulteriori concessioni L'OLP ha accettato che
Israele annetta blocchi di insediamenti, acconsentito a rinunciare a
vaste porzioni di Gerusalemme Est, riconosciuto che qualsiasi accordo
sul ritorno dei rifugiati palestinesi debba soddisfare le preoccupazioni
demografiche di Israele e accettato varie limitazioni sulle capacità
militari e sulla sovranità di un futuro stato di Palestina.
Durante questo periodo, ai palestinesi
non è mai stato offerto quello che Israele ha concesso a tutti i paesi
limitrofi: il ritiro completo dal territorio occupato. L'Egitto ha
ottenuto la sovranità sull'ultimo metro di sabbia del Sinai. La
Giordania ha stabilito la pace sulla base del precdente confine
internazionale, recuperando 381 chilometri quadrati. La Siria ha
ricevuto una proposta nel 1998 da parte del primo ministro Netanyahu
(che ha successivamente ritrattato) per un'evacuazione totale dalle
alture del Golan. E il Libano ha ottenuto un ritiro al confine definito
dalle Nazioni Unite senza concedere il riconoscimento di Israele, la
pace e neanche un accordo di cessate il fuoco.
I palestinesi però restano troppo
deboli, politicamente e militarmente, per assicurarsi un'offerta simile,
e gli Stati Uniti e la comunità internazionale non applicano la
pressione necessaria per costringere Israele a farne una. Al contrario,
gli Stati Uniti e i suoi alleati si prestano alla necessità di porre
fine all'occupazione, ma non fanno nulla per distogliere Israele dalla
sua opzione preferita di perpetuare l'occupazione: godere della dote
rifiutando la sposa.
Nathan Trall, un analista senior
dell'International Crisis Group, è l'autore del libro "L'unico
linguaggio che capiscono: forzare il compromesso in Israele e
Palestina". Questo è il primo di una serie di articoli che analizzeranno
il conflitto arabo-israeliano del 1967, a distanza di mezzo secolo.
Traduzione di Giacomo Graziani per l'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
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