Palestina, lo sciopero della fame come forma di lotta
Manifestazione
di piazza, il 27 aprile scorso a Gerusalemme, in favore dei detenuti
palestinesi in sciopero della fame. (foto Sliman Khader/Flash90)
terrasanta.net
Lo
sciopero della fame, storica forma di protesta dei prigionieri politici
palestinesi nelle carceri israeliane, torna di nuovo come strumento di
lotta politica.
Torna
la battaglia degli stomaci vuoti, storica forma di protesta dei
prigionieri politici palestinesi, oggi scelta di nuovo come strumento di
mobilitazione delle masse. Se fin dagli anni immediatamente successivi
all'occupazione del 1967, i detenuti palestinesi si sono organizzati
nelle carceri per chiedere un miglioramento delle condizioni di vita ma
anche per cementare la società fuori, la sconfitta del movimento dei
prigionieri segnata dalla firma degli accordi del 1993 aveva provocato
uno stallo.
Oggi 1.500 prigionieri lo sfidano.
Dietro le loro richieste c'è tanto, messaggi i cui destinatari sono
multipli: con lo sciopero della fame Libertà e Dignità,
lanciato dal leader di Fatah incarcerato Marwan Barghouti il 17 aprile
(dal 1974, per decisione dell'Olp, Giornata dei Prigionieri), i detenuti
si rivolgono a Israele, al popolo palestinese e alla sua Autorità
Nazionale.
Al primo chiedono il rispetto dei
diritti dietro le sbarre, la fine della pratica dell'isolamento come
forma punitiva, regolare accesso alle cure mediche e alle visite di
legali e familiari, la fine dell'uso sistematico e pervasivo di
detenzione amministrativa e tortura. Alla società palestinese chiedono
di unirsi intorno ad un movimento da sempre considerato spina dorsale
della lotta di liberazione, capace di mobilitare e unificare le diverse
anime palestinesi. All'Anp chiedono di fare della questione dei
prigionieri una priorità del negoziato.
C'è chi
la definisce una faida interna, tra la base e i vertici di Fatah, che da
parte loro considerano tale lettura un regalo a Israele, un modo per
sminuire la forza della protesta. Di certo, vista la caratura di
Barghouti, un problema interno esiste ed è figlio di quella che più di
un analista descrive come la mancanza di strategia politica di lungo
periodo della leadership dei Territori Occupati.
Ci
provano i prigionieri: a digiuno dal 17 aprile, con un numero sempre
maggiore di adesioni (anche tra le fila di Hamas e Fronte Popolare per
la liberazione della Palestina, seppur su base individuale), sono
riusciti a mobilitare le piazze. Non con i numeri del passato ma
iniziative e sit-in si stanno tenendo con costanza sia a Gaza
sia in Cisgiordania. Giovedì 27 aprile è stato indetto uno sciopero
generale in tutti i Territori in solidarietà con gli stomaci vuoti dei
detenuti: migliaia di negozi, scuole e banche chiusi, saracinesche
abbassate e strade pressoché vuote sia nelle grandi città che nei
villaggi e i campi profughi. Venerdì la stessa Fatah ha chiamato alla
“giornata della rabbia”.
Israele risponde. Dopo
aver dichiarato di non voler scendere a patti con i prigionieri, ha
reagito dentro le carceri con un inasprimento delle misure punitive:
isolamento per i detenuti in sciopero, raid nelle celle, perquisizioni,
confische di libri ed effetti personali, trasferimenti da un carcere
all'altro. Atteso il rifiuto a non mettere in dubbio il sistema
giuridico applicato ai residenti dei Territori, sottoposti a legge
militare e non civile. E le differenze di trattamento sono palesi: se un
palestinese viene giudicato da corti militari, può essere trattenuto
senza accuse ufficiali per 90 giorni (estendibili di altri 90) e non
vedere un avvocato per tre mesi, un israeliano è giudicato da tribunali
civili, può essere trattenuto senza accuse al massimo 30 giorni e deve
vedere un avvocato entro 21.
E i prigionieri
scioperano. Stomaci vuoti per modificare, per quanto possibile, la vita
in carcere. Sullo sfondo, le vittorie segnate in passato dal movimento
dei prigionieri, passato attraverso fasi diverse. Dal 1974 in poi gli
scioperi di massa hanno rispecchiato la storia del movimento di
liberazione fuori. «Se subito dopo il 1967 è servito del tempo prima che
i prigionieri si organizzassero – ci spiega il ricercatore ed ex
prigioniero politico, Murad Jadallah – nei primi anni Settanta si forma
una nuova consapevolezza: non si chiede più soltanto una prigionia più
“umana”, ma si fa un passo politico. Ovvero il rispetto dei diritti in
quanto prigionieri politici».
Con la crescita del
numero di detenuti, nel tempo, il movimento cambia: nei primi anni a
prevalere sono i prigionieri della diaspora, ovvero i combattenti ai
confini, in Siria e Libano, ma anche contadini e operai analfabeti. Ai
secondi si insegna a leggere, si dà una formazione politica; con i primi
si instaurano legami con l'esterno. «La vera svolta si ha con l'aumento
del numero di prigionieri residenti dentro i confini della Palestina
storica. È in quel momento che si definisce una vera e propria strategia
e lo sciopero della fame diviene strumento principale della lotta. Ed è
in quel momento, a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, che si
registrano i primi decessi per alimentazione forzata da parte delle
autorità carcerarie».
Con Oslo il movimento
crolla. Tagliati fuori dall'intesa raggiunta tra Olp e Israele nel 1993,
i prigionieri – a quelli “tradizionali” si erano nel frattempo aggiunti
i primi detenuti di Hamas – si sentono abbandonati e vedono (forse
prima degli altri) gli errori fatali compiuti dalla leadership
palestinese. «Nasce l'Anp che instaura con il movimento dei prigionieri
un rapporto del tutto diverso, quasi di welfare. Garantisce stipendi alle famiglie, ma non parla di negoziare il loro rilascio».
La crisi è dura e si prolunga per anni, quelli della Seconda intifada
(2000-2004) e quelli successivi quando spuntano per la prima volta gli
scioperi della fame individuali. «Si tratta di singoli prigionieri –
conclude Jadallah – che combattono la loro battaglia contro la
detenzione amministrativa, ma che non coinvolge il resto del movimento:
il digiuno perde la sua natura politica e collettiva». Fino al 17 aprile
2017, nella speranza dei detenuti una nuova chiave di volta della loro
lotta dal carcere.
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