Nathaniel Berman – 11 maggio 2017,Tikkun
I. Perché adesso?
Durante
lo scorso decennio la ripresa dei dibattiti sulla legalità, in
particolare sulla legalità delle colonie israeliane in Cisgiordania, è
diventata un aspetto inatteso della discussione pubblica su
Israele/Palestina. Questa ripresa è stata principalmente il prodotto di
due tipi di forze. Per
un verso, chi appoggia la colonizzazione ha sostenuto che la diffusa
opinione internazionale sull’illegalità delle colonie è semplicemente
sbagliata. Questi
sostegni vanno da un “Rapporto sullo Stato delle Costruzioni nella
Regione della Giudea e Samaria” (il “Rapporto della Commissione Levy”)
del governo israeliano nel 2012, fino agli articoli pubblicati sulla
stampa di destra e agli attivisti che appoggiano senza sosta queste
posizioni nelle reti sociali. Dall’altro,
l’illegalità delle colonie è stata fortemente sostenuta dagli attivisti
delle campagne critiche nei confronti di Israele, soprattutto dal
movimento BDS. Questo articolo prenderà in considerazione in primo luogo
l’uso dell’argomento della legalità a favore della colonizzazione,
valutandone la validità ed esaminando il significato contestuale di
questo ritorno.
La
ripresa del dibattito sulla legalità è sorprendente perchè, di primo
acchito, sembra in contrasto con gli attuali sviluppi globali. Di sicuro
c’è stato un periodo, all’incirca tra il 1990 e il 2003, in cui il
dibattito internazionale sull’uso della forza è stato pervaso da
argomentazioni giuridiche. A posteriori è stupefacente quanto del
dibattito sull’invasione del Kuwait nell’agosto 1990 e sulla risposta
militare guidata dagli Stati uniti nel gennaio 1991 sia stato inquadrato
in un contesto giuridico. Il periodo che ne è seguito è stato una
specie di età dell’oro per i giuristi di diritto internazionale. La
convinzione che la fine della Guerra Fredda significasse che le leggi
internazionali che regolano l’uso della forza potessero “finalmente”
essere applicate, che il Consiglio di Sicurezza potesse “finalmente”
giocare il ruolo per il quale era stato istituito, divenne praticamente
unanime. Anche quando simili speranze vennero infrante nel corso del
decennio – in particolare per l’incapacità internazionale di bloccare il
genocidio in Ruanda del 1993 -, il discorso sul diritto internazionale
rimase un punto fermo fondamentale dell’opinione pubblica mondiale
sull’uso della forza. Ogni intervento – od ogni assenza di intervento –
venne accompagnato da vivaci dibattiti sulla sua legalità. L’invasione
del Kosovo da parte della NATO nel 1999, nonostante – o forse proprio a
causa di ciò – la sua dubbia legalità, produsse una grande quantità di
discussioni giuridiche originali.
Ora
quel periodo sembra un lontano passato, benché non si possa
identificare il momento preciso della sua fine. Il Kosovo ha giocato un
ruolo, come anche la decisione degli USA di non chiedere l’approvazione
del Consiglio di Sicurezza perl’invasione dell’Afghanistan. Tuttavia
entrambe queste azioni potrebbero essere plausibilmente (se non
incontestabilmente) giustificate in base a teorie di lungo periodo
(intervento umanitario nel primo caso, auto-difesa nel secondo). Ma
furono l’invasione americana dell’Iraq nel 2001 e la successiva, anche
se riluttante, acquiescenza nei suoi confronti da parte di gran parte
della comunità internazionale, che indicarono il fatto che le norme
internazionali sull’uso della forza avevano perso il loro potere di
determinare la politica internazionale. Con l’invasione russa della
Crimea nel 2014, entrambe le “superpotenze” di un tempo hanno
chiaramente dimostrato il proprio disprezzo per queste norme
internazionali. Di sicuro molti hanno condannato quell’invasione in base
ad una flagrante illegalità, ma questi termini sono sembrati ben
lontani dal nuovo carattere discorsivo del dibattito internazionale.
Nel conflitto Israele/Palestina, il dibattito giuridico ha giocato a lungo un ruolo centrale, anche se intermittente. Benché
io non possa qui ripercorrerne l’intera storia, è sufficiente dire che
il conflitto è stato modellato in modo decisivo dal dibattito su, e
dall’adozione di, strumenti internazionali come il Mandato [inglese,
ndtr.] in Palestina del 1922, la Risoluzione [dell’ONU, ndtr.] sulla
partizione [della Palestina, ndtr.] del 1947, la Risoluzione 242 del
Consiglio di Sicurezza del 1967 [che chiedeva il ritiro delle truppe
israeliane dalla Cisgiordania, ndtr.], e così di seguito. Ma ci sono stati periodi in cui la questione della legalità pareva più o meno irrilevante per gli sviluppi politici in corso.
A
mio parere, furono gli accordi di Oslo del 1993 e le loro conseguenze
che hanno in gran parte favorito la più recente (anche se temporanea)
marginalizzazione delle questioni giuridiche fondamentali del conflitto,
come la legittimità dello Stato di Israele, il diritto
all’autodeterminazione del popolo palestinese, la legalità delle colonie
e via di seguito. Il riconoscimento reciproco dello Stato di Israele e
dell’esistenza del popolo palestinese da parte di Rabin e di Arafat nel
1993 si impegnava a mettere da parte dibattiti a somma zero su pretese
legali opposte e totalizzanti. Al
loro posto, Oslo sembrò (anche se per poco) presagire una particolare
attenzione verso un pragmatico adeguamento degli interessi reciproci, la
creazione di una società palestinese e una israeliana complementari e
l’oblio graduale di richieste incompatibili sulla terra e sulla sua
storia.
La
morte di Oslo ha avuto dimensioni sia immediate che graduali, con cause
troppo complesse per essere discusse in questa sede. La seconda
Intifada ha segnato la sua fine – anche se alcune delle sue strutture
formali hanno resistito, e continuano ad esistere. Tuttavia questa fine
non è stata inizialmente accompagnata da un ritorno alla centralità del
dibattito giuridico. Ciò è stato in parte dovuto alla violenza che l’ha
accompagnata: sembrava che né i principi giuridici né gli interessi
concreti da quel momento in poi sarebbero più stati importanti, ma solo
la forza bruta.
Tuttavia,
come sempre in questo conflitto, la forza bruta non ha deciso la
questione, e la battaglia ideologica a somma zero è ritornata all’ordine
del giorno: da una parte, la delegittimazione di Israele come tale;
dall’altra, la delegittimazione di ogni rivendicazione palestinese sulla
terra. O, per usare una
sintesi corrente: i sostenitori di una “soluzione dello Stato unico”,
che sia Israele o Palestina, sembrano aver conquistato il sopravvento
nel determinare il dibattito internazionale, utilizzando argomentazioni
giuridiche per proporre richieste inconciliabili.
II. Che cos’è la legge?
Passo
a una rassegna delle questioni giuridiche relative alle colonie,
iniziando da quelle basilari. Una discussione giuridica esaustiva
richiederebbe un intero libro (o più di uno); mi sono sforzato qui di
prendere in considerazione le questioni più importanti.
Israele è uno Stato (nel significato delle leggi internazionali, non in quello americano – cioè un Paese indipendente). La
sua statualità è stata riconosciuta da molti altri Stati e, cosa più
importante, dalla sua condizione di Stato membro dell’ONU. Se qualunque
altro Stato dovesse usare la forza contro la sua “integrità territoriale
o indipendenza politica…, o in qualunque altro modo incompatibile con
le finalità delle Nazioni Unite,” violerebbe l’articolo 2(4) della Carta
delle Nazioni Unite, una delle regole più sacre delle leggi
internazionali successive alla Seconda Guerra Mondiale. Ad
un livello giuridico formale, problemi quali la “legittimità” del
Sionismo, le rivendicazioni storiche ebraiche sulla terra ed altre sono
semplicemente irrilevanti per lo status giuridico dello Stato di
Israele.
Per
parte loro, i palestinesi sono stati riconosciuti dall’ONU, da molti
Stati e dalla Corte Internazionale di Giustizia (la “CIG”, ovvero la
“Corte Internazionale”) come “popolo” con il diritto all’
“autodeterminazione”. In
base alla Risoluzione 2625 (1970) dell’Assemblea Generale, la maggior
parte delle cui norme sono considerate dall’autorità giudiziaria
internazionale come vincolanti, il diritto all’autodeterminazione può
essere messo in pratica in uno di questi tre modi: “la costituzione di
uno Stato sovrano ed indipendente, la libera associazione o integrazione
con uno Stato indipendente o la formazione in qualunque altro status
politico determinata da un popolo.” Quindi, in quanto “popolo”, i
palestinesi sono in possesso del diritto, anche se non ancora messo in
pratica, di scegliere una di queste tre opzioni. C’è una netta
preferenza internazionale perché il diritto di auto-determinazione venga
realizzato attraverso uno Stato indipendente, come espresso nelle
prassi statuali durante la decolonizzazione e nella Risoluzione 1514
(1960) dell’Assemblea Generale, che ha preceduto la 2625 e documento
fondamentale nel processo di maturazione dell’auto-determinazione come
diritto internazionale generale.
La
dimensione territoriale dello Stato di Israele e l’autodeterminazione
palestinese richiedono la discussione di almeno altre due questioni
giuridiche. La prima riguarda lo status della “Linea Verde”, il confine
che ha delimitato Israele in base agli accordi armistiziali del 1949 tra
Israele e i suoi vicini, in particolare l’Egitto e la Giordania. Gli
accordi dichiararono esplicitamente che non erano definitivi riguardo
alle rivendicazioni giuridiche delle due parti, comprese quelle
territoriali. Tuttavia gli anni successivi al 1949 videro un crescente
riconoscimento internazionale, per lo meno di fatto, della Linea Verde
come il confine dello Stato di Israele. Il
momento esatto in cui questo riconoscimento di fatto ha acquisito un
valore legale può essere difficile da indicare, anche se a quanto pare
si è ampiamente verificato. Pertanto, nella sua sentenza del 2004 sul Muro di sicurezza israeliano, la CIG ha accolto implicitamente lo status de jure della
Linea Verde – in particolare nella sua dichiarazione secondo cui le
disposizioni della Convenzione di Ginevra per i territori occupati si
applicano ai “territori palestinesi…ad est della Linea Verde,”
dichiarando implicitamente che sono inapplicabili ai territori ad ovest
della Linea Verde perché si trovano all’interno del territorio sovrano
di Israele.
Questa
dichiarazione della CIG ci porta al termine legale “occupazione”. I
recenti sostenitori della colonizzazione negano insistentemente che
questo termine possa essere applicato alla Cisgiordania. Essi affermano
che il termine “occupazione” si possa applicare solo quando un
territorio è stato tolto da uno Stato sovrano ad un altro Stato sovrano.
La Cisgiordania non ha avuto un riconoscimento internazionale fin dal lontano crollo dell’Impero ottomano. Gli
inglesi, succeduti agli Ottomani nel governo della Palestina, erano
solo un “Potere mandatario” , una specie di fiduciario che amministrava
il territorio in nome della Società delle Nazioni. La
Giordania, che conquistò la Cisgiordania nella guerra del 1948, venne
condannata da tutti per la successiva annessione – un’annessione
riconosciuta formalmente solo dalla Gran Bretagna e forse, a un livello
informale e de facto, dagli
USA. L’annessione venne inizialmente condannata in quanto illegale
dalla Lega Araba, che per poco non espulse la Giordania per questo
problema.
Nel
1968 Yehuda Blum, uno studioso israeliano di diritto internazionale e
diplomatico, fornì quello che forse fu il primo, e il più influente,
argomento legale per una rivendicazione israeliana della Cisgiordania:
la teoria della “mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata, ndtr.] “. In
base a questa teoria, l’insieme delle norme internazionali che regolano
“l’occupazione in situazioni di conflitto” non si applica a causa
dell’assenza di un legittimo potere governante precedente a cui il
territorio potesse essere “restituito”. Tuttavia Blum non arrivò fino al
punto di negare che si applicasse il termine “occupazione in situazione
di conflitto”. Piuttosto, la “mancanza di qualcuno a cui restituire [la
terra occupata, ndtr.]” significava che venissero applicate solo le
norme “dirette a salvaguardare i diritti umani della popolazione”, e non quelle “che garantiscono i diritti di restituzione al potere legittimo”. Gli
attuali sostenitori della rivendicazione israeliana, tuttavia, hanno
assunto con decisione il punto da cui Blum si è astenuto: la negazione
della reale esistenza di un’ “occupazione”. [1]
In
ogni caso, la rilevanza della “mancanza di un potere sovrano a cui
restituire [la terra occupata, ndtr.] ” per la legge internazionale
dell’occupazione è stata solidamente rifiutata dalla Corte
Internazionale di Giustizia (così come da quasi ogni altra autorità)
nella sua decisione del 2004, come ho rimarcato in precedenza. La CIG ha
fondato il suo rifiuto sullo scopo delle disposizioni fondamentali
delle Convenzioni di Ginevra, dei lavori preparatori (registrazione
delle discussioni tra le parti della Convenzione), della successiva
conferma dei pareri delle parti delle Convenzioni e di molte risoluzioni
del Consiglio di Sicurezza – i metodi standard utilizzati per
determinare il significato delle disposizioni di un trattato. Inoltre,
come evidenzierò in seguito, la dichiarazione della Corte che tutte le
disposizioni delle Convenzioni di Ginevra che governano l’occupazione di
forze ostili si applicano alla Cisgiordania è ampiamente supportata
dalle politiche complessive sottintese in queste disposizioni, così come
altri sviluppi legali, su tutti il diritto all’autodeterminazione.
(Noto
di non avere qui lo spazio per discutere della legalità
dell’occupazione in quanto tale, ma solo quella della legalità delle
colonie in ogni territorio
occupato. Si potrebbe sostenere in modo plausibile che l’inizio
dell’occupazione fosse legale nel 1967, in quanto esercizio del diritto
all’auto-difesa, ma che, come ha mostrato recentemente Aeyal Gross,
rimane la questione se sia diventata illegale a causa del modo in cui è
stata condotta. [2])
L’argomento
principale per sostenere l’illegalità delle colonie si basa su uno dei
principali scopi delle regole che governano l’occupazione ostile:
l’obbligo da parte dell’occupante di non cambiare il carattere del
territorio occupato oltre a ciò che è richiesto da necessità
strettamente militari. Questo
scopo è alla base di una norma fondamentale sull’occupazione,
codificata nell’articolo 43 delle Disposizioni dell’Aja del 1907:
l’obbligo per lo Stato occupante di “prendere tutte le misure in suo
potere per ripristinare, e garantire, il più possibile, l’ordine
pubblico e la sicurezza, rispettando al contempo, eccetto in casi
estremi, le leggi in vigore nel Paese.” Questa politica indica anche la
proibizione di obbligare gli abitanti a giurare fedeltà allo Stato
occupante (art. 45) e di confiscare la proprietà privata (art. 46), così
come le norme sulla proprietà pubblica: “Lo Stato occupante deve essere
visto solo come un amministratore ed usufruttuario di edifici pubblici,
beni immobili, foreste e proprietà agricole dello Stato ostile, e
situate nel Paese occupato. Esso deve salvaguardare il patrimonio di
queste proprietà ed amministrarle in base alle norme sull’usufrutto”
(art. 55). Gli articoli 46 e 55 non prevedono nessun terreno su cui un
occupante possa costruire un insediamento civile, ancora meno di
carattere permanente.
Di
sicuro, le disposizioni dell’Aja sembrano supporre l’esistenza di un
“potere sovrano a cui restituire [la terra occupata]” e vedere il ruolo
dello Stato occupante come una specie di amministratore per questo
potere sovrano fino ai negoziati di un trattato di pace. La teoria della
“mancanza di un potere sovrano a cui restituire [la terra occupata,
ndtr.]” definirebbe ogni disposizione riguardante questo assunto
inapplicabile alla Cisgiordania. E, di conseguenza, ci si potrebbe
benissimo chiedere: per chi lo Stato occupante sarebbe un amministratore
in assenza di un potere sovrano legittimo, per chi sarebbe obbligato ad
osservare le norme di usufrutto riguardo alla proprietà pubblica, in
nome di chi gli sarebbe vietato imporre il proprio sistema normativo –
e, in generale, i diritti di chi dovrebbe salvaguardare?
La
risposta in base alle attuali leggi internazionali è chiara: la
beneficiaria di tutte queste norme è la popolazione, o piuttosto il
“popolo”, dei territori occupati. Va ricordato che persino Blum ha
affermato che, in assenza di un precedente potere sovrano legittimo,
queste norme intese a garantire i “diritti umani della popolazione” sono
applicabili alla Cisgiordania, riconoscendo quindi che l’assenza di un
“potere a cui restituire” non implica l’assenza di un beneficiario di
almeno alcuni dei diritti concessi dalla legge dell’occupazione. Di
sicuro Blum ha fatto una distinzione tra tali “diritti umani” e le
rivendicazioni politiche – queste ultime, in base alla sua teoria,
inapplicabili in virtù dell’assenza di un precedente potere legittimo. E
la posizione di Blum sarebbe stata plausibile nel 1907.
Ma
la distinzione di Blum non è più valida in base alle attuali leggi
internazionali, a causa del diritto all’ autodeterminazione, che
riconosce i diritti politici di “popoli” non ancora organizzati in uno
Stato sovrano, e l’applicazione delle leggi internazionali in generale,
con i valori che rappresentano. In base a questo riconoscimento dei
diritti politici dei popoli senza Stato, il beneficiario dello status
simile a quello fiduciario del territorio occupato, in assenza di un
precedente potere sovrano legittimo, deve essere “il popolo” del
territorio. E’ a suo
beneficio che lo Stato occupante deve governare il territorio, astenersi
da cambiamenti giuridici non necessari, salvaguardare la proprietà
pubblica, e via di seguito.
L’argomentazione
a favore della colonizzazione (e quindi dell’annessione) – secondo cui
l’assenza di un precedente potere sovrano legittimo rende il territorio
disponibile all’appropriazione da parte dell’occupante – ignora quindi
del tutto l’emergere graduale nelle leggi internazionali del diritto
all’autodeterminazione politica. Sebbene
l’autodeterminazione dei popoli possa essere maturata pienamente nel
diritto internazionale generale solo dopo il 1960, il principio regolò
buona parte della ridefinizione dei confini europei nel primo
dopoguerra. Woodrow Wilson fornì nel 1918 una delle sue prime e più
esplicite formulazioni nel discorso “Quattro principi”, quando dichiarò
che “popoli e province non devono essere barattati da un potere sovrano
all’altro come se fossero beni mobili e pedine di un gioco” – un
principio che va direttamente in senso contrario rispetto alla teoria
della “mancanza di un potere sovrano per la restituzione.”
In
effetti, il concetto del diritto internazionale prima del XX° secolo,
che il diritto all’autodeterminazione rigetta esplicitamente, è
l’antenato diretto della teoria della “mancanza di un potere sovrano per
la restituzione” : quello di “ terra nullius”,
terra che non è di proprietà di nessuno e di conseguenza disponibile
per l’acquisizione. Questa nozione ha un lungo ed ignobile percorso
nella storia dell’imperialismo, le cui fasi sono state tratteggiate dal
giudice della CIG Ammoun nel caso del Sahara occidentale del 1975:
(1) L’antichità romana, quando ogni territorio che non fosse romano era nullius.
(2)
L’epoca delle grandi scoperte del XVI° e XVII° secolo, durante la quale
ogni territorio che non era di un sovrano cristiano era nullius.
(3) Il XIX° secolo, durante il quale ogni territorio che non fosse di proprietà di un cosiddetto Stato civilizzato era nullius.
Nel caso del Sahara occidentale la CIG respinse totalmente la nozione di terra nullius,
dichiarando che “territori abitati da tribù o popoli che hanno
un’organizzazione sociale e politica” non possono essere visti come terrae nullius dal
punto di vista legale. Poiché tutte le “tribù” e i “popoli” hanno
“un’organizzazione sociale e politica,” la Corte correttamente dichiarò
che solo un territorio disabitato può eventualmente essere nullius. Pertanto
l’ “acquisizione di sovranità” su un qualunque territorio abitato non
può essere “effettuata unilateralmente attraverso un’ ‘occupazione'”, ma
piuttosto solo tramite “accordi conclusi con i poteri locali”, che tali
poteri locali siano o meno i rappresentanti di Stati.
Torniamo
ora alla norma giuridica fondamentale che regola specificamente la
colonizzazione, l’articolo 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra:
“Il potere occupante non deve deportare o trasferire parti della propria
popolazione civile nel territorio che occupa.” Il significato di questa
disposizione è stato duramente messo in discussione nel contesto della
Cisgiordania. I fautori della colonizzazione sostengono che si riferisce
solo ai trasferimenti forzati di popolazione, e lo mette in relazione
con le deportazioni di massa naziste nei campi di concentramento. Questa
interpretazione considera i due termini, “deportazione” e
“trasferimento” come sinonimi. Tuttavia l’autorevole commento sulle
Convenzioni di Ginevra da parte del Comitato Internazionale della Croce
Rossa (“CICR”) del 1958 ne fa una lettura molto diversa:
E’
intesa a proibire una pratica adottata durante la Seconda Guerra
Mondiale da certe potenze, che trasferirono parte della propria
popolazione in territori occupati per ragioni politiche e razziali o con
lo scopo, come esse sostennero, di colonizzare questi territori. Tali
trasferimenti peggiorarono la situazione economica della popolazione
nativa e misero in pericolo la sua esistenza come etnia separata.
Nelle
parole della CIG nel 2004, la norma proibisce “non solo le deportazioni
o i trasferimenti forzati di popolazione come quelli messi in atto
durante la Seconda Guerra Mondiale, ma anche qualunque misura presa da
un potere occupante per organizzare o incoraggiare trasferimenti di
parti della sua stessa popolazione nel territorio occupato.” Questa
interpretazione, sostenuta dal CICR, dalla CIG e dalla maggior parte dei
giuristi internazionali, è in linea con il quadro politico complessivo
delle leggi sull’occupazione, secondo cui gli Stati occupanti devono
evitare di fare passi per cambiare il carattere del territorio occupato –
e tentativi di modificare il carattere demografico con insediamenti, e a
maggior ragione qualunque passo unilaterale verso l’annessione, vanno
direttamente in senso contrario rispetto a questa politica.
III. E riguardo a Sanremo?
Uno
degli aspetti più sorprendenti della recente argomentazione a favore
della colonizzazoine è la sua ossessione per tre testi, di circa un
secolo fa, che sono culminati nella nascita del Mandato in Palestina
della Società delle Nazioni: la “Dichiarazione Balfour” (1917), la
Risoluzione di Sanremo (1920) e il Mandato sulla Palestina (1922). Questi
documenti hanno un signficato giuridico diverso. La “Dichiarazione
Balfour” britannica, che “vede(va) con favore la costituzione in
Palestina di un focolare per il popolo ebraico”, era una dichiarazione
unilaterale di politica da parte di uno Stato impegnato, all’epoca, in
una lotta militare per il controllo della Palestina. Di per sé, non ha
nessun valore giuridico internazionale. La Risoluzione di Sanremo fu un
accordo tra quattro Stati (Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone),
che dichiararono la propria intenzione di accettare alcune condizioni
per essere inclusi nei Mandati in Palestina, in Siria (che evidentemente
includeva il Libano) e nella Mesopotamia (che sarebbe presto stata
chiamata Iraq).
I
quattro Stati concordarono che il Mandato in Palestina sarebbe stato
concesso alla Gran Bretagna che sarebbe stata “responsabile della messa
in pratica della Dichiarazione (Balfour)”. Di
nuovo, la risoluzione era una dichiarazione politica da parte di
quattro Stati, ma non aveva un valore giuridico indipendente. Infine, il
Mandato sulla Palestina, un trattato internazionale vincolante tra la
Gran Bretagna e la Società delle Nazioni, nel suo preambolo adottò la
Dichiarazione Balfour e fornì un certo numero di disposizioni
dettagliate per la sua attuazione. Di questi documenti, solo il Mandato,
un trattato internazionale, era legalmente vincolante – il che rende
l’attuale enfasi dei sostenitori della colonizzazione sulla
Dichiarazione Balfour e sulla Risoluzione di Sanremo alquanto
inspiegabile da un punto di vista giuridico.
In ogni caso, persino il Mandato ha perso ogni rilevanza giuridica attuale. Il
Mandato ed i testi che lo hanno preceduto furono scritti in un periodo
totalmente diverso, prima di una lunga serie di radicali cambiamenti di
fatto e giuridici nella situazione internazionale e regionale. Prima
di tutto, questi documenti furono adottati prima della fondazione dello
Stato di Israele, internazionalmente riconosciuto. La fondazione dello
Stato fece più che ottenere l’obiettivo della ” costituzione in
Palestina di un focolare per il popolo ebraico”: lo ha sovra-realizzato –
in quanto il vago termine “focolare”, una definizione senza un preciso
significato giuridico nel 1917 o in qualunque tempo precedente o
successivo, venne scelto proprio per evitare la promessa di uno Stato
ebraico. Un confronto del
Mandato sulla Palestina con qualunque altro trattato successivo alla
Prima Guerra Mondiale lo evidenzia: quando l’intenzione era quella di
garantire la creazione di uno Stato indipendente per i popoli, il testo
lo affermava esplicitamente.
Si
potrebbe cavillare ulteriormente sul linguaggio della Dichiarazione
Balfour (per esempio, sembra promettere solo che “il focolare per il
popolo ebraico” sarebbe stato da qualche parte “in Palestina”, piuttosto che prevedere la costituzione della
Palestina nel suo complesso come focolare ebraico). Tuttavia, la
fondazione dello Stato di Israele, con la sua sovra- realizzazione della
politica del “focolare”, è sufficiente a rendere superate le relative
disposizioni del Mandato. In base a una norma definita da molto tempo
che guida i trattati internazionali, “rebus sic stantibus,”
un “fondamentale cambiamento delle circostanze” che alteri le
condizioni di base sotto le quali le disposizioni di un trattato sono
state adottate rende nullo il loro carattere vincolante.
Altre due disposizioni sono spesso menzionate dai fautori della colonizzazione. La
prima è la disposizione del Mandato che chiede alla Gran Bretagna di
“incoraggiare…un insediamento concentrato da parte degli ebrei sul
territorio.” Di nuovo, con la decadenza di tutte le disposizioni
relative al “focolare” in seguito all’esecutività del rebus sic stantibus, anche questa disposizione è obsoleta. Quindi la fondazione di uno Stato di Israele internazionalmente riconosciuto rende piuttosto assurda l’obbligatorietà di un potere mandatario straniero di “ incoraggiare…un insediamento concentrato”.
La seconda disposizione è l’articolo 80 della Carta dell’ONU. L’articolo
80 è parte del capitolo XII della Carta, che stabilisce la costituzione
di un “Sistema internazionale di amministrazione fiduciaria” per
sostituire i Mandati della Società delle Nazioni. L’articolo 80 prevede
che “niente nel” capitolo XII “deve essere interpretato in sé e per sé
per alterare in alcun modo i diritti, qualunque essi siano, di ogni
Stato o popolo o le disposizioni di documenti internazionali esistenti.”
I sostenitori della colonizzazione, facendo ricorso ad un articolo
scritto da Eugene Rostow nel 1978, interpretano questa norma come se
mantenesse in vigore tutte le disposizioni del Mandato sulla Palestina
in relazione ad ogni parte del territorio che non sia stata “assegnata” –
un termine che utilizzano per significare un territorio non ancora
concesso a un potere sovrano internazionalmente riconosciuto.
Questa tesi è confutabile sotto almeno due aspetti. Anzitutto l’effettività del rebus sic stantibus, che
rende obsolete le disposizioni del focolare ebraico del Mandato, non è
un portato del capitolo XII, e quindi le limitazioni dell’articolo 80
semplicemente non sono pertinenti. In secondo luogo, la trasformazione
dell’auto-determinazione in un diritto internazionale non solo ha
cambiato la situazione giuridica (rafforzando l’argomento del rebus sic stantibus),
ma significa anche che il territorio non può essere considerato “non
assegnato”, semplicemente in quanto non c’è un potere sovrano
riconosciuto su di esso. In
ogni caso tutti questi argomenti sono stati implicitamente rifiutati
dalla CIG, da quasi tutti i giuristi e dalla comunità internazionale
degli Stati.
IV. E riguardo alla Risoluzione 242?
Un
altro vecchio dibattito che i fautori della colonizzazione hanno
rispolverato riguarda il significato della Risoluzione 242 del Consiglio
di Sicurezza, adottata nel novembre 1967. Tra
le altre cose, la risoluzione chiede “il ritiro delle forze armate di
Israele da territori occupati” durante la Guerra dei Sei Giorni. I
sostenitori della colonizzazione affermano che l’assenza di un articolo
determinativo prima della parola “territori” significa che la
risoluzione non chiede ad Israele di ritirarsi da tutti i
territori occupati durante la guerra e che questa disposizione può
essere rispettata ritirandosi da uno qualsiasi dei territori occupati –
per esempio, ritirandosi dal Sinai in base agli accordi di Camp David
del 1979. Simili
argomentazioni spesso implicano il confronto tra il testo in francese ed
in inglese, sottigliezze grammaticali tra l’inglese e il francese e
affermazioni di varie persone coinvolte nella stesura della risoluzione.
Chi appoggia la colonizzazione sostiene anche che la risoluzione
legittima così le colonie israeliane.
Queste
argomentazioni sono piuttosto sconcertanti. Anche se la questione
grammaticale fosse corretta (cosa che non è affatto certa), la
risoluzione deve essere interpretata alla luce delle norme giuridiche
internazionali generali sui territori occupati. In base a queste norme,
un territorio occupato durante una guerra non può essere annesso
unilateralmente. Peraltro questo divieto è stabilito nella stessa Risoluzione 242, il cui secondo paragrafo introduttivo “sottolinea
l’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la guerra…” Anche
se l’interpretazione di “territori” a favore della colonizzazione fosse
corretta, la risoluzione stabilirebbe semplicemente che, in una
soluzione negoziata del conflitto, le parti sarebbero libere di
accettare cambiamenti dei confini di anteguerra. Questa
lettura rende compatibile il secondo paragrafo dell’introduzione con la
(controversa) interpretazione della parola “territori”. Faccio anche notare che la risoluzione non cita per niente le colonie.
In
ogni caso, la risoluzione deve essere interpretata alla luce di
sviluppi giuridici successivi, su tutti il quasi universale
riconoscimento dei palestinesi come “popolo” con un diritto
all’auto-determinazione. La risoluzione non menziona i palestinesi, che compaiono solo come anonimi “rifugiati”.
V. E riguardo ad Howard Grief?
Uno
degli aspetti deludenti delle argomentazioni giuridiche a favore delle
colonie è la loro apparente indifferenza verso le regole fondamentali
che presiedono alla definizione dello Stato nel diritto internazionale.
Ribadiscono ripetutamente l’esistenza di un piccolo numero di autori
giuridici che hanno argomentato la legalità delle colonie, ignorando le
migliaia che hanno espresso parere contrario, come anche le istituzioni
autorevoli che hanno sostenuto la stessa cosa (quasi tutti gli Stati, le
Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, il Comitato
Internazionale della Croce Rossa, ecc.). Sostengono la superiorità degli
argomenti degli autori da loro scelti e adducono che, quanto meno, la
questione è “controversa” e che l’illegalità non può essere considerata
definitivamente stabilita.
Gli
autori giuridici citati a favore delle colonie sono un gruppo
eterogeneo – comprendono alcuni avvocati di livello internazionale, come
anche studiosi giuridici in altri campi che si sono occupati in certa
misura di diritto internazionale; le carriere di alcuni di loro
includono posizioni ufficiali nel governo di Israele. Uno di questi
ultimi, particolarmente citato dai sostenitori delle colonie, è Howard
Grief, un per altro oscuro avvocato canadese che è stato consulente
ministeriale durante il governo Shamir, che pare sia responsabile della
loro ossessione per la Risoluzione di San Remo. Quasi tutti sono
personaggi chiaramente appartenenti alla destra o persino all’estrema
destra dello spettro politico – compreso Howard Grief, la cui richiesta
alla Corte Suprema israeliana di dichiarare illegittimi gli accordi di
Oslo è stata sbrigativamente liquidata come “una posizione politica”.
Qualunque siano le variegate competenze in merito di questo gruppo, gli argomenti che
prendono di mira le singole persone sono irrilevanti. Il diritto
internazionale non è una scienza esatta in cui qualcosa può essere
oggettivamente vera, anche se la grande maggioranza delle autorità non
la riconosce come tale. E non è neppure un’indagine etica in cui (almeno
secondo alcune teorie etiche) un valore può essere superiore agli altri
nonostante il parere della maggioranza. Né si occupa di una ricerca
religiosa sul disegno divino di una sacra scrittura. Al contrario, il
diritto internazionale si definisce come relativo all’accordo tra Stati,
al consenso o quasi-consenso degli studiosi e alle autorevoli
interpretazioni istituzionali dei testi. Secondo le categorie
universalmente accettate (codificate, tra l’altro, nello Statuto della
Corte Internazionale di Giustizia), le fonti del diritto internazionale
sono: 1) i trattati ratificati dagli Stati; 2) il “diritto
consuetudinario internazionale” – prassi statali ampiamente diffuse che
si trasformano in norme giuridiche in virtù della loro accettazione in
quanto tali dalla maggioranza degli Stati (quest’ultima nota con
l’espressione latina “opinio juris”);
3) “principi legislativi generali” – principi della legislazione
interna agli Stati, che sono così diffusi da diventare norme giuridiche
internazionali.
Inoltre,
poiché molte controversie riguardano l’interpretazione dei trattati,
dovremmo sottolineare che il principio che governa la formazione del
diritto consuetudinario internazionale – che può essere sintetizzato
nella formula “prassi + opinio juris”
– ricompare in forma solo leggermente differente in relazione
all’interpretazione di testi giuridici potenzialmente ambigui. Come
stabilito nella Convenzione di Vienna sul “Diritto dei Trattati”:
Si dovrà prendere in considerazione, insieme al contesto:
-
ogni successivo accordo tra le parti relativo all’interpretazione del trattato o all’applicazione delle sue disposizioni;
-
ogni successiva prassi nell’applicazione del trattato che stabilisca l’accordo delle parti riguardo alla sua interpretazione;
-
tutte le norme pertinenti di diritto internazionale applicabili alle relazioni tra le parti.
La
polemica sull’erroneità del consenso preponderante riguardo
all’illegalità delle colonie – condiviso da Stati, Corti e dall’ampia
maggioranza dei giuristi di diritto internazionale – fraintende la
natura del diritto internazionale. Si può, ovviamente, contestare in
tutto o in parte il diritto internazionale. Ma trattarlo come se
contenesse una verità eterna, che un singolo studioso o un gruppo di
studiosi potrebbe scoprire indipendentemente da un simile consenso, è
semplicemente un equivoco.
VI. Il dibattito come sintomo tragico ….e un’ultima fandonia
Come
ho detto all’inizio, la mia opinione complessiva è che questa strana
rinascita del dibattito giuridico sia un sintomo di una crescente
sfiducia in una possibile soluzione del conflitto in un contesto che
darebbe almeno una parziale espressione ad ognuna delle aspirazioni
nazionaliste in confitto. Ma indica anche un fenomeno ancor più
inquietante. Come è stato evidenziato per anni da molti osservatori, la
soluzione dei due Stati – che a molti, me compreso, sembra tuttora
fornire l’unico schema che potrebbe plausibilmente condurre ad una
giusta e pacifica risoluzione del conflitto – è contraddetta da una
“realtà di uno Stato unico” per la quale serve come alibi.
Inoltre,
poiché l’occupazione appare sempre più permanente, l’argomentazione
giuridica comincia ad apparire sempre più staccata dalla realtà, perché
la permanenza è proprio la condizione che le norme giuridiche intendono
impedire. E ancora, per tutte le ragioni esposte prima, una volta che
[il termine] “occupazione” diventa obsoleto, l’alternativa non è
legittimare la sovranità israeliana sulla Cisgiordania, come pretendono i
sostenitori delle colonie. Piuttosto, può essere sostituita solo da
termini quali “colonialismo” e “apartheid”, categorie storiche che
descrivono sistemi di governo in cui i coloni e la maggioranza della
popolazione sono governati da due sistemi giuridici e in cui solo i
primi hanno la cittadinanza e i diritti civili e politici. Nel contesto
di una “realtà di uno Stato unico”, la campagna contro l’applicabilità
della forma legale “occupazione” è quindi davvero agghiacciante.
Bisogna
menzionare qui un’ ultima, spiacevole fandonia. I sostenitori delle
colonie contestano che coloro che ritengono che tutte le colonie debbano
essere evacuate auspicano che la Cisgiordania sia “judenrein”
[libera dagli ebrei, ndtr.], paragonando così gli oppositori delle
colonie ai nazisti. Questo è falso, davvero osceno, per così tanti
aspetti ed in così tanti modi, che ci vorrebbe un altro saggio per
citarli tutti. Dato che la mia attenzione qui si incentra sul diritto
internazionale, mi limiterò ad un solo punto. Il progetto coloniale non
può essere onestamente descritto come uno sforzo da parte di singoli
ebrei di affittare o acquistare case e il cui diritto di farlo dovrebbe
essere garantito da qualcosa come una legge anti-discriminazione. Il
progetto coloniale implica lo spostamento collettivo di parti della
popolazione civile di uno Stato in un territorio sotto occupazione
militare di quello Stato.
Il
progetto è stato avviato e continua ad essere diretto da dirigenti,
dello Stato e non, la cui intenzione dichiarata era, ed è, agevolare la
definitiva imposizione della sovranità israeliana sull’intero territorio
o su parte di esso. Il progetto è stato avviato soprattutto (benché non
esclusivamente), e continua ad essere ampiamente gestito, da persone
guidate da un’ideologia nazionalista-messianica, che ritiene che la
proprietà della terra da parte dello Stato di Israele e/o del popolo
ebraico sia disposta dalla volontà divina. Il progetto è condotto con
l’appoggio dell’intera potenza militare israeliana e da una massiccia
spesa del governo in case ed infrastrutture. In breve: le questioni
giuridiche essenziali non riguardano la discriminazione abitativa o la
proprietà privata –e ancor meno il giudizio morale dei singoli coloni.
Se
alcuni coloni sono estremisti violenti e razzisti e molti sono
semplicemente indifferenti alla realtà umana dei palestinesi in quanto
individui e in quanto popolo, altri sono normali famiglie attirate in
Cisgiordania dagli incentivi economici del governo, alcuni sono esempi
di spiriti apolitici e vi sono persino alcuni, come il rabbino Menachem
Froman, che sono sinceri pacifisti. Le questioni giuridiche riguardano
le azioni di uno Stato tenuto al rispetto di norme internazionali che
regolano un territorio occupato durante un conflitto armato, norme che
proibiscono atti che mirino all’imposizione unilaterale della sovranità
su tale territorio ed alla subordinazione della sua popolazione, di cui
il progetto di colonizzazione è la forma più eclatante.
1)
Bisogna anche notare che gli scritti successivi di Blum, pubblicati
dopo Oslo, indicano che non attribuisce più la stessa rilevanza alla
teoria che propose nel 1968.
2) Aeyal Gross, “The writing on the wall: rethinking the international law of occupation” [ “La scritta sul muro: ripensare le leggi internazionali sull’occupazione”] (Cambridge, 2017).
Nathaniel
Berman è professore di Affari Internazionali, Diritto e Cultura Moderna
della cattedra Rahel Varnhagen presso il Centro Cogut per le Discipline
Umanistiche della Brown University, e condirettore del progetto
“Religione e Internazionalismo”.
Ha di recente pubblicato “Passion and ambivalence: colonialism, nationalism and international law” [“Passione e ambivalenza: colonialismo, nazionalismo e diritto internazionale”] (Brill, 2012).
(traduzione di Amedeo Rossi e Cristiana Cavagna)
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