Israele e l’Intifada dei detenuti palestinesi. Gli ordinari cattolici, “ascoltate il grido dei prigionieri”
Dal 17 aprile è in atto uno
sciopero della fame da parte dei prigionieri politici palestinesi nelle
carceri israeliane, “per la libertà e la dignità”, come è stato definito
dal suo promotore Marwan Barghouthi, leader di Al-Fatah in carcere da
15 anni. Sono circa 1.800 i prigionieri, su un totale di 6.500, di
diverse carceri, Ashkelon, Nafha, Ramon, Hadarim, Gilboa e Beersheba,
che da tre settimane rifiutano il cibo. La protesta intende sollevare
attenzione sulle condizioni "disumane" in cui i detenuti sono costretti a
vivere. Gli ordinari cattolici di Terra Santa hanno espresso sostegno
ai carcerati. Intanto nelle prigioni israeliane un gruppo di sacerdoti,
religiosi, religiose e laici porta avanti un servizio a favore dei
detenuti (non politici) cristiani
Dal 17 aprile scorso è in atto uno sciopero della fame da parte dei
prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane, “per la
libertà e la dignità”, come è stato definito dal suo promotore Marwan
Barghouthi, leader di Al-Fatah in carcere da 15 anni. Sono circa 1.800 i
prigionieri, su un totale di 6.500, di diverse carceri, Ashkelon,
Nafha, Ramon, Hadarim, Gilboa e Beersheba, che da tre settimane
rifiutano il cibo.
“Richieste legittime e umane”. L’ambasciatrice in Italia dello Stato di Palestina, Mai Alkaila,
illustrando alla stampa lo sciopero in corso, “una Intifada dei
detenuti”, ha spiegato che si tratta “dell’ultima scelta per ottenere
una risposta alle loro legittime richieste, dopo aver perso la speranza
che vengano rispettate le leggi e le Convenzioni internazionali che
garantiscono i loro diritti umani all’interno delle carceri. Insistiamo
sul fatto che le richieste dei detenuti sono legittime e umane, e per
questo devono essere esaudite”. In ballo “l’istallazione in prigione di
telefoni pubblici per i detenuti palestinesi affinché possano comunicare
con le loro famiglie”; “la regolarità delle visite ogni due settimane
senza ostacoli da nessuna parte”; “i permessi ai detenuti di fare
fotografie con le famiglie ogni tre mesi”; “l’aumento della durata della
visita da 45 minuti a un’ora e mezza”. E poi ancora “esami medici
periodici, possibilità di essere assistiti da medici specializzati
provenienti da fuori del carcere; rilascio dei detenuti ammalati, e in
particolare di coloro che sono disabili o affetti da mali incurabili”. I
detenuti chiedono anche garanzie “di un trattamento umano durante il
loro trasporto; fine della politica d’isolamento e della politica di
detenzione amministrativa, permesso per i detenuti di avere libri,
giornali, indumenti e cibo e di tenere gli esami di maturità (Tawjihi)
in modo ufficiale e condiviso”. In questi ultimi giorni, ha denunciato
l’ambasciatrice,
“i detenuti non possono ricevere visite dai loro parenti e dai
loro legali e sono sotto la costante minaccia di ricevere la nutrizione
forzata permessa da una legge di Israele ma ritenuta dalle
Organizzazioni internazionali, Onu in testa, una forma di tortura
degradante che mette a rischio la vita di chi è in sciopero della fame”.
“Ascoltare il grido dei prigionieri”. Un sostegno ai detenuti è venuto dalla Commissione “Giustizia e pace”,
che opera in seno all’Assemblea degli Ordinari cattolici di Terra
Santa, che nei giorni scorsi ha diffuso una nota in cui invita “le
autorità israeliane a
sentire il grido dei prigionieri, rispettare la loro dignità umana
e ad aprire una nuova porta verso la costruzione della pace.
L’obiettivo di questo atto disperato è quello di far luce, sia a livello
locale che internazionale, sulle condizioni disumane in cui sono
detenuti dalle Autorità israeliane. I detenuti invocano il
rispetto dei loro diritti umani e della loro dignità, come riconosciuto
dal diritto internazionale e dalla Convenzione di Ginevra, e la fine
della detenzione amministrativa.
Come cristiani siamo inviati a lavorare per la liberazione di
ogni essere umano e per la creazione di una società umana in cui ci sia
uguaglianza per tutti, israeliani e palestinesi”.
L’impegno della Chiesa cattolica locale nelle carceri di Israele.
Ed è proprio sulla direzione segnata da queste ultime parole che si
muove la pastorale delle carceri del Patriarcato Latino di Gerusalemme,
voluta più di 20 anni fa dall’allora patriarca latino di Gerusalemme,
oggi emerito, Michel Sabbah. Padre David Neuhaus ne è
il responsabile e coordina, con padre Kirill Kozlovsky, un team di oltre
10 persone, tra cui sacerdoti, religiosi e religiose e laici:
“Attualmente – dice padre Neuhaus – assistiamo un centinaio di detenuti
cristiani, tra loro anche donne e qualche ortodosso, in cinque carceri.
Non si tratta – spiega – di detenuti politici, in quanto ci viene
permesso di incontrare solo quelli condannati per crimini comuni che
vanno dal traffico di droga all’omicidio e con pene più o meno lunghe.
Sono di diverse nazionalità, arabi cristiani, eritrei, ucraini, russi,
filippini, nigeriani, indiani, rumeni, etiopi e latino-americani,
soprattutto colombiani arrestati per traffico di droga”. In genere nelle
nostre visite, che avvengono una volta al mese portiamo un po’ di
conforto, parliamo, preghiamo. A Natale e a Pasqua possiamo celebrare la
messa. Chi vuole può confessarsi ”.
“I detenuti – racconta il sacerdote – sono felici di queste
visite, riceviamo sempre una bella accoglienza. Da parte nostra
cerchiamo anche di facilitare le visite dei familiari.
In alcuni casi siamo un tramite per le famiglie per portare anche
aiuto finanziario ai loro congiunti in carcere. Ma accade anche che
siano i detenuti a mandare soldi alle famiglie, almeno quelli cui è
permesso lavorare in prigione”.
Una via di dialogo. Assistere i detenuti cristiani
nelle prigioni israeliane ha, inoltre, un altro risvolto “molto
positivo” ed è legato al dialogo interreligioso. “Il nostro servizio –
sottolinea padre Neuhaus – è reso possibile grazie anche alla
collaborazione con i rabbini delle varie prigioni. Ci coordiniamo con
loro per tutto quello che riguarda le nostre visite. Un lavoro che facilita il dialogo con ebrei ed è molto bello
soprattutto perché i rabbini che dirigono il lavoro nelle prigioni sono
persone consacrate all’aiuto di questi poveri con un ideale molto
simile al nostro.
Non si pensa a cristiani e a ebrei ma al bene dei prigionieri”.
Con la speranza concreta che sia così anche in questa vicenda.
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