«Discorso sul nemico»Stefano Massini intervista David Grossman,...
La Repubblica
Data: 26 maggio 2017
Pagina: 42
Titolo: «Discorso sul nemico»Stefano Massini intervista David Grossman,...
Data: 26 maggio 2017
Pagina: 42
Titolo: «Discorso sul nemico»Stefano Massini intervista David Grossman,...
Ti vorrei parlare, David, di un racconto impressionante. È il diario
di un viaggio compiuto da un uomo di potere che torna dov’è nato. Nel
tragitto osserva la società in cui vive, ormai trasfigurata dall’arrivo
di altre razze e dall’imporsi di nuove culture e nuove religioni. Ecco,
può sembrare il libro di qualche blogger, mentre invece è “Il suo
ritorno”, scritto nel V secolo dal latino Rutilio Namaziano. Il suo è
uno sguardo spietato: osserva la decadenza del tardo Impero, condanna
l’abominio delle invasioni gotiche e l’ascesa di questo rampante
Cristianesimo che fa saltar fuori catacombe dappertutto. In altre
parole, Namaziano è un conservatore convinto, che rifiuta ogni dialogo.
Il punto è che oggi di tutto questo sorridiamo, ben sapendo che
dall’innesto fra la cultura pagana e quella barbaro-cristiana è nato di
fatto il giardino medievale, e da esso il nostro mondo moderno. Eppure è
vero che il dialogo non è mai qualcosa di scontato, è sempre il
superamento di un istinto difensivo.
David Grossman: Sì,
il dialogo come rischio. È sempre così quando si tratta di un confronto
su qualcosa di decisivo. E il rischio – che però devi accettare – è
quello di vedersi sconvolti dall’apertura di prospettiva. Perché in
questi casi ci troviamo davanti alla richiesta di un dialogo autentico,
cioè quello che richiede a entrambe le parti di scendere in campo non
solo con le proprie idee, ma con la propria personale vicenda umana, con
i profondissimi legami che certe idee hanno sui pilastri di
un’esistenza. Vedi, mi viene in mente la differenza che c’è, nella
politica israeliana fra l’ala di destra e quella di sinistra: non sono
solo argomenti, non sono solo posizioni tattiche, bensì una radicale
visione diversa delle cose, che non può non tradursi in un’opposta
personalità. Ne deriva che soprattutto in zone del pianeta dove lo
scontro è estremo, l’apertura al dialogo mette in discussione un modo di
esistere, ben più che solo un’idea.
S. M.: In questo passaggio
finisce l’interlocutore e inizia l’avversario: la definizione di nemico
comporta la percezione di un’allerta, implica una minaccia, e avendo
dunque a che fare con l’istinto nasce dalle viscere, non dalla
razionalità.
D.G.: Il dialogo diventa difficilissimo ogni qual
volta le controparti sentono di aver davanti non un avversario
dialettico, ma una fonte di reale pericolo per sé e per il proprio
gruppo di appartenenza.
S.M.: Nel contesto in cui tu vivi il
pericolo è reale. Ma anche in Europa assistiamo a una tendenza ormai
costante, da parte degli estremisti, a dipingere i fenomeni (penso a
quello migratorio) nei termini di uno scontro per lo spazio vitale se
non per le risorse minime. Questo attiva nelle masse un istinto di
sopravvivenza, e prende forma l’idea di nemico, con cui il dialogo è
negato, e con l’esso l’integrazione.
D.G.: Anche se quando
parliamo di integrazione fra gruppi etnici-religiosi c’è un aspetto
decisivo, ed è il fatto che ci sia fra i due una simmetria di propositi.
Nel tuo libro Qualcosa sui Lehman hai raccontato con grande forza il
lento inesorabile processo che portò una famiglia di ebrei askenaziti a
integrarsi con la cultura americana del XIX secolo. Ma ciò avveniva
perché quel piccolo gruppo era una minoranza desiderosa di entrare a far
parte di una famiglia sociale più grande, condividendone i costumi,
senza la minima pretesa di giudaizzare gli Stati Uniti. Altrove non è
sempre così: accade di sentire predicatori islamici che in Inghilterra o
Francia non fanno mistero di voler “prendere il controllo” della
nazione che li ospita, ed è comprensibile che qualcuno ne resti colpito,
pur sapendo che il mondo musulmano non è tutto allineato dietro a
questi assalti. Io so che, ad esempio, mi è successo di far caso al mio
comportamento quando mi trovo in un paese molto diverso come l’India: è
evidente che, nel loro essere più appartati, non amano la nostra
gestualità così aperta, così estroflessa. Ebbene, il mio modificare il
modo di muovermi costituisce un segnale di una disponibilità al
confronto: sto accettando di cambiare qualcosa di me per fare un passo
verso di loro.
S.M.: Senza che questo però significhi un tuo
rinnegare i motivi profondi per cui ti muovi in quel modo: il dialogo
non è un tradimento delle proprie convinzioni.
D.G.: E chi fa per primo un passo verso il confronto non è mai né il più debole né il meno convinto del proprio background.
S.M.: Questo è un errore grossolano da sfatare immediatamente: chi si
apre dà prova di ben più tempra rispetto a chi si chiude, per il
semplice fatto che si espone a quel rischio di cui parlavamo. E poi non
credi che l’essere umano, dotato di linguaggio dalle infinite sfumature,
sia essenzialmente predisposto al dialogo?
D.G.: Hai ragione, è
il rifiuto del dialogo a essere contro natura. E anche l’arte – momento
altissimo dell’umano essere – si basa sul principio di un confronto fra
chi crea e chi recepisce la creazione. È una forma anch’essa di dialogo,
non c’è arte nella manifestazione narcisista del proprio talento,
perché il vanto non vuole essere condiviso. Il dialogo, viceversa, è uno
spazio in cui non si entra mai soli, è una zona di mezzo in cui ognuno
entra con la propria peculiarità, e ne esce trasformato.
S.M.:
Una “zona di mezzo” che fra l’altro fa parte del DNA del Mediterraneo:
sia nella storia della Grecia che nella tradizione semitica il dialogo è
sempre stato trasmissione di conoscenze. Penso a come si è diffusa la
lavorazione del ferro, base della civiltà. E basta guardare alla mappa
delle lingue indoeuropee per trovarsi davanti un esempio clamoroso di
contaminazioni e ibridazioni fra linguaggi, dal sanscrito al latino fino
agli idiomi baltici. Eppure oggi - in un mondo in cui la comunicazione è
mille volte più facilitata – mi pare che il concetto di dialogo sia
troppo spesso confuso con la concessione di un diritto di parola:
dialogo non è solo riconoscere la legittimità di un interlocutore, ma
ascoltarlo con disponibilità reale.
D.G.: Sono assolutamente
d’accordo. E guarda che nessuno quanto me in questo momento può essere
convinto dell’importanza del diritto di parola: è un tema per me
all’ordine del giorno con la situazione che abbiamo in Israele fra
governo, opposizioni, forze armate. Il punto è che difendere la libertà
di parola è molto più semplice che difendere la necessità del dialogo:
solo in quest’ultimo tu accetti di guardare la realtà con gli occhi di
un altro – per di più magari un nemico -, e riscoprire perfino te stesso
da un’angolazione del tutto diversa. Il dialogo è di fatto la vera
esperienza dell’altro da te. Ed è quello che cerco di fare certo nel mio
scrivere, ma non solo in quello: è uno sforzo quotidiano tentare di
infiltrarmi sia nel modo di pensare israeliano che nel modo di pensare
palestinese. Devo farlo. E nel farlo non posso non vedere che non stanno
sullo stesso piano: noi siamo gli occupanti, loro gli occupati, noi
abbiamo risorse e potere, loro no. Ma, soprattutto, so che non potrà
esserci mai dialogo se prima non accetto di immedesimarmi in loro: cosa
vuol dire vederti irrompere soldati in camera mentre fai l’amore con tua
moglie? Cosa vuol dire a un posto di blocco essere umiliato davanti a
tuo figlio che ti credeva Superman? Sì, l’unica condizione per dialogare
è prendere gli occhi altrui.
S.M.: Tanto che molti regimi,
proprio per evitare l’apertura di pericolose brecce, vietano non solo le
relazioni diplomatiche ma perfino la conoscenza della letteratura o del
cinema dei paesi nemici. È quello che sta accadendo in Corea del Nord
nei confronti di Seul, i cui cittadini vengono tutti dipinti come
capitalisti incalliti dediti ai peggiori vizi.
D.G.:
L’immedesimazione fa paura, credimi, crea anticorpi all’odio. Ti
racconto un fatto che mi ha colpito molto: pochissimi giorni fa, a Tel
Aviv, eravamo invitati al Memorial di tutte le vittime. È una cerimonia
bellissima, e di grande coraggio: famiglie israeliane e palestinesi che
ricordano insieme i loro cari uccisi dalla parte avversa. Lo reputo da
sempre un momento importantissimo. Ebbene, il governo israeliano per la
prima volta in dodici anni ha negato i permessi necessari, con il
risultato che la cerimonia si è svolta senza i palestinesi. Mi chiedo:
di cosa si ha follemente terrore per agire così? Semplice: si teme che
il dolore altrui non ti appaia come il dolore di un nemico, bensì così
com’è: perfettamente identico al tuo.
Commenti
Posta un commento