OPINIONE. Gaza: la città che nessuno vuole
Roma, 15 luglio 2016, Nena News – Mentre i Palestinesi
ricordano il 68° anniversario della “catastrofe”, che comportò l’esodo
forzato della popolazione indigena e la creazione dello Stato di
Israele, una nuova Nakba sembra scatenarsi accanto a quella mai finita:
quella derivante dalla frattura politica tra Hamas e Fatah.
La divisione, il blocco e l’irragionevole leadership di Hamas hanno
conseguenze catastrofiche sulla Striscia di Gaza: altissimi tassi di
disoccupazione, incremento dei suicidi, razionamento dell’energia
elettrica, mancanza di acqua e di strutture che possano fornire cure
mediche adeguate, diffusione della povertà e blocco totale della
Striscia, aumento delle tasse sui beni di prima necessità imposto da
Hamas, corruzione, sfiducia generalizzata del popolo nei confronti delle
istituzioni e tra istituzioni stesse, inasprimento della repressione
politica e degli arresti arbitrari ai danni degli attivisti.
Da questa situazione è scaturito un
generale pessimismo, ben rappresentato da una battuta che circola tra la
popolazione di Gaza: “La polizia ha arrestato un tizio perché aveva
ancora speranza”. Nessuna speranza. Nessun futuro.
Il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, è stato aperto per due giorni dopo tre mesi.
Erano trentamila i palestinesi che chiedevano di uscire, ma le autorità
egiziane hanno consentito solo a 747 persone di transitare, in
condizioni insostenibili e con palesi violazioni dei diritti umani fondamentali.
Un viaggio che dovrebbe durare cinque minuti, un’ora al massimo tenendo
conto delle procedure burocratiche come il controllo dei bagagli e dei
passaporti, si prolunga invece per ventiquattro, persino per quarantotto
ore; centinaia di palestinesi sono costretti ad attendere in zone
recintate in tutto simili a prigioni, sul versante egiziano del Valico
di Rafah.
L’Egitto ha governato la Striscia di Gaza dal 1948 al 1967:
molti suoi abitanti hanno studiato nelle università egiziane
sviluppando, con il tempo, una rete di legami sempre più solida. Ma oggi
la situazione politica egiziana è cambiata e i Gazawi sono diventati
nemici per la sicurezza del Paese. Lo scorso anno, mi sono visto negare
dalle autorità israeliane il permesso di entrare in Palestina, ma il
trattamento che ho ricevuto è stato comunque migliore di quello
riservato a molti miei compatrioti negli aeroporti egiziani o nelle
terre di confine, nonostante i Palestinesi non abbiano mai organizzato
gruppi armati o scatenato conflitti contro l’Egitto, a differenza di
Giordania, Libano e Siria.
Viene da chiedersi quale sia la
ragione dell’accanimento e della disumanizzazione contro i palestinesi
da parte delle autorità egiziane. Se è vero che il
governo non è meno rigido con la sua stessa popolazione, c’è da
ricordare che per i Palestinesi l’Egitto è solo una terra di transito
verso altre destinazioni. Sembra invece che il Cairo voglia inviare un
messaggio forte e chiaro a tutti: “Gaza, i suoi abitanti e i loro
problemi non ci riguardano, che soffrano pure lontano da noi.”.
La situazione del confine meridionale si estende anche a quello giordano. Da
quando l’esercito israeliano ha consentito di raggiungere il Paese ai
gazawi dotati del permesso di transitare in Cisgiordania, la sicurezza
ha operato delle restrizioni sia per i palestinesi di Gaza sia per
quelli che provengono da Gaza ma vivono in West Bank.
Una decisione che ha seguito quella di Israele, di consentire ai
palestinesi di lasciare Gaza a patto di non farvi ritorno per un anno,
in palese violazione dei diritti umani. Amman deve aver percepito che
Israele sta gradualmente riversando sulla Giordania il problema di Gaza.
Ma questo non spiega l’obbligo di
visto per i palestinesi di Gaza, sottoposti a un trattamento diverso
rispetto a quelli della West Bank, che possono transitare in Giordania
senza restrizioni. Se Gaza ha avuto rapporti più stretti
con l’Egitto, la Cisgiordania li ha invece intrattenuti con Amman: la
fiducia nei confronti dei Gazawi è minore; anzi, Gaza è considerata una
minaccia alla sicurezza del Pese. Anche Amman lancia un messaggio
chiaro: “La Striscia e i suoi abitanti non ci riguardano, che stiano
alla larga da noi”.
Anche Israele riveste un ruolo fondamentale per Gaza. Ormai da dieci
anni, le impone un rigido blocco, il suo esercito ha ucciso oltre 5.000
palestinesi nel corso delle tre aggressioni compiute tra il 2008 e il
2014. Israele vorrebbe annettere la Cisgiordania, lasciando ai
palestinesi lo Stato di Gaza. Non è una proposta nuova; già Martin
Gouterman aveva parlato di Gaza come della Singapore mediorientale. Nel
2004, l’idea di Sharon era di fermare la creazione di uno Stato
palestinese per fondare uno Stato di Gaza, evitando così le discussioni
sui rifugiati, sulla questione di Gerusalemme e sui confini. Il Governo
israeliano è disposto a tutto pur di sbarazzarsi di Gaza o per chiuderne
i confini definitivamente. Il problema non è solo Hamas, ma la storia
della relazione tra i gazawi e l’Occupazione.
Lo stesso vale per l’Autorità
Nazionale Palestinese e per la classe dirigente di Fatah a Ramallah, che
non ha alcun interesse a sottrarre la Striscia al controllo di Hamas.
Nonostante i colloqui con Hamas sulla riconciliazione o sulla gestione
degli interessi nazionali e regionali, la leadership dell’ANP non
potrebbe garantire le posizioni, le cariche diplomatiche e i benefit
governativi, non solo per Hamas, ma anche per gli abitanti di Gaza. A Ramallah, Gaza è vista come un malato di scabbia a cui nessuno vuole avvicinarsi.
Questa sensazione è confermata dall’elargizione di fondi agli enti
locali, che non tengono conto delle esigenze di Gaza, e dalle nomine
degli alti funzionari, che quasi mai provengono dalla Striscia. Tale
atteggiamento cela un’ostilità non solo verso Hamas, ma più in generale
verso Gaza; nessuno bada ai suoi interessi; la Striscia e la
Cisgiordania non sono considerate come un’entità unica, un unico popolo e
il seme di un futuro stato unico.
La percezione è che Gaza e i suoi
abitanti siano stati di fatto abbandonati, lasciati nelle mani di Hamas,
che può fare di loro tutto ciò che vuole una scelta che sta
trasformando la Striscia, gradualmente ma in modo sistematico,
nell’habitat ideale per il fondamentalismo, in una bomba a orologeria che potrebbe esplodere con conseguenze gravissime.
L’unico modo per evitare che questo
accada è agire con urgenza. La comunità internazionale dovrebbe smettere
di considerare Gaza come l’oggetto di una crisi umanitaria e iniziare a
ragionare sulla crisi politica. L’ANP dovrebbe
considerarla come un’entità che le appartiene e rappresentare gli
interessi della sua popolazione, che al momento si vede negati i diritti
fondamentali, compresa la libertà di movimento. Al momento, l’Autorità
Nazionale Palestinese lavora solo per un gruppo molto ristretto di
persone, che costituiscono la nuova borghesia di Gaza, mentre la
stragrande maggioranza della popolazione soffre in modo inimmaginabile.
Anche Egitto e Giordania dovrebbero rivedere le loro posizioni e
smettere di considerare gli abitanti della Striscia solo come minacce
alla sicurezza; probabilmente, smetterebbero di essere un potenziale
pericolo se venissero loro garantiti i diritti umani di base.
Mahmoud Jouda, scrittore e attivista di Rafah, ha scritto sul suo
profilo Facebook: “ Se vi dicono che c’è speranza a Gaza, non stateli a
sentire. Anche qualora si raggiungesse la riconciliazione politica, non
sarebbe efficace, perché sarebbe il frutto di una spartizione tra
correnti. Il problema non riguarda solo i confini geografici. Gaza è una
nave che affonda e l’unica soluzione è la salvezza individuale. Per non
morire, si può solo abbandonare la nave.” È questa, purtroppo, la
tragica realtà di Gaza, una città che nessuno vuole. Nena News
*(Traduzione di Romana Rubeo)
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