OPINIONE. Gaza: la città che nessuno vuole

 OPINIONE. Gaza: la città che nessuno vuole
Giovedì, 27 Aprile 2017
I gazawi sono stati abbandonati e sono stati lasciati nelle mani di Hamas che fa di loro cosa vuole. Questa politica sta trasformando Gaza


Gaza
  Open Democracy
Roma, 15 luglio 2016, Nena News – Mentre i Palestinesi ricordano il 68° anniversario della “catastrofe”, che comportò l’esodo forzato della popolazione indigena e la creazione dello Stato di Israele, una nuova Nakba sembra scatenarsi accanto a quella mai finita: quella derivante dalla frattura politica tra Hamas e Fatah.
La divisione, il blocco e l’irragionevole leadership di Hamas hanno conseguenze catastrofiche sulla Striscia di Gaza: altissimi tassi di disoccupazione, incremento dei suicidi, razionamento dell’energia elettrica, mancanza di acqua e di strutture che possano fornire cure mediche adeguate, diffusione della povertà e blocco totale della Striscia, aumento delle tasse sui beni di prima necessità imposto da Hamas, corruzione, sfiducia generalizzata del popolo nei confronti delle istituzioni e tra istituzioni stesse, inasprimento della repressione politica e degli arresti arbitrari ai danni degli attivisti.
Da questa situazione è scaturito un generale pessimismo, ben rappresentato da una battuta che circola tra la popolazione di Gaza: “La polizia ha arrestato un tizio perché aveva ancora speranza”. Nessuna speranza. Nessun futuro.
Il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, è stato aperto per due giorni dopo tre mesi. Erano trentamila i palestinesi che chiedevano di uscire, ma le autorità egiziane hanno consentito solo a 747 persone di transitare, in condizioni insostenibili e con palesi violazioni dei diritti umani fondamentali. Un viaggio che dovrebbe durare cinque minuti, un’ora al massimo tenendo conto delle procedure burocratiche come il controllo dei bagagli e dei passaporti, si prolunga invece per ventiquattro, persino per quarantotto ore; centinaia di palestinesi sono costretti ad attendere in zone recintate in tutto simili a prigioni, sul versante egiziano del Valico di Rafah.
L’Egitto ha governato la Striscia di Gaza dal 1948 al 1967: molti suoi abitanti hanno studiato nelle università egiziane sviluppando, con il tempo, una rete di legami sempre più solida. Ma oggi la situazione politica egiziana è cambiata e i Gazawi sono diventati nemici per la sicurezza del Paese. Lo scorso anno, mi sono visto negare dalle autorità israeliane il permesso di entrare in Palestina, ma il trattamento che ho ricevuto è stato comunque migliore di quello riservato a molti miei compatrioti negli aeroporti egiziani o nelle terre di confine, nonostante i Palestinesi non abbiano mai organizzato gruppi armati o scatenato conflitti contro l’Egitto, a differenza di Giordania, Libano e Siria.
Viene da chiedersi quale sia la ragione dell’accanimento e della disumanizzazione contro i palestinesi da parte delle autorità egiziane. Se è vero che il governo non è meno rigido con la sua stessa popolazione, c’è da ricordare che per i Palestinesi l’Egitto è solo una terra di transito verso altre destinazioni. Sembra invece che il Cairo voglia inviare un messaggio forte e chiaro a tutti: “Gaza, i suoi abitanti e i loro problemi non ci riguardano, che soffrano pure lontano da noi.”.
La situazione del confine meridionale si estende anche a quello giordano. Da quando l’esercito israeliano ha consentito di raggiungere il Paese ai gazawi dotati del permesso di transitare in Cisgiordania, la sicurezza ha operato delle restrizioni sia per i palestinesi di Gaza sia per quelli che provengono da Gaza ma vivono in West Bank. Una decisione che ha seguito quella di Israele, di consentire ai palestinesi di lasciare Gaza a patto di non farvi ritorno per un anno, in palese violazione dei diritti umani. Amman deve aver percepito che Israele sta gradualmente riversando sulla Giordania il problema di Gaza.
Ma questo non spiega l’obbligo di visto per i palestinesi di Gaza, sottoposti a un trattamento diverso rispetto a quelli della West Bank, che possono transitare in Giordania senza restrizioni. Se Gaza ha avuto rapporti più stretti con l’Egitto, la Cisgiordania li ha invece intrattenuti con Amman: la fiducia nei confronti dei Gazawi è minore; anzi, Gaza è considerata una minaccia alla sicurezza del Pese. Anche Amman lancia un messaggio chiaro: “La Striscia e i suoi abitanti non ci riguardano, che stiano alla larga da noi”.
Anche Israele riveste un ruolo fondamentale per Gaza. Ormai da dieci anni, le impone un rigido blocco, il suo esercito ha ucciso oltre 5.000 palestinesi nel corso delle tre aggressioni compiute tra il 2008 e il 2014. Israele vorrebbe annettere la Cisgiordania, lasciando ai palestinesi lo Stato di Gaza. Non è una proposta nuova; già Martin Gouterman aveva parlato di Gaza come della Singapore mediorientale. Nel 2004, l’idea di Sharon era di fermare la creazione di uno Stato palestinese per fondare uno Stato di Gaza, evitando così le discussioni sui rifugiati, sulla questione di Gerusalemme e sui confini. Il Governo israeliano è disposto a tutto pur di sbarazzarsi di Gaza o per chiuderne i confini definitivamente. Il problema non è solo Hamas, ma la storia della relazione tra i gazawi e l’Occupazione.
Lo stesso vale per l’Autorità Nazionale Palestinese e per la classe dirigente di Fatah a Ramallah, che non ha alcun interesse a sottrarre la Striscia al controllo di Hamas. Nonostante i colloqui con Hamas sulla riconciliazione o sulla gestione degli interessi nazionali e regionali, la leadership dell’ANP non potrebbe garantire le posizioni, le cariche diplomatiche e i benefit governativi, non solo per Hamas, ma anche per gli abitanti di Gaza. A Ramallah, Gaza è vista come un malato di scabbia a cui nessuno vuole avvicinarsi.
Questa sensazione è confermata dall’elargizione di fondi agli enti locali, che non tengono conto delle esigenze di Gaza, e dalle nomine degli alti funzionari, che quasi mai provengono dalla Striscia. Tale atteggiamento cela un’ostilità non solo verso Hamas, ma più in generale verso Gaza; nessuno bada ai suoi interessi; la Striscia e la Cisgiordania non sono considerate come un’entità unica, un unico popolo e il seme di un futuro stato unico.
La percezione è che Gaza e i suoi abitanti siano stati di fatto abbandonati, lasciati nelle mani di Hamas, che può fare di loro tutto ciò che vuole una scelta che sta trasformando la Striscia, gradualmente ma in modo sistematico, nell’habitat ideale per il fondamentalismo, in una bomba a orologeria che potrebbe esplodere con conseguenze gravissime.
L’unico modo per evitare che questo accada è agire con urgenza. La comunità internazionale dovrebbe smettere di considerare Gaza come l’oggetto di una crisi umanitaria e iniziare a ragionare sulla crisi politica. L’ANP dovrebbe considerarla come un’entità che le appartiene e rappresentare gli interessi della sua popolazione, che al momento si vede negati i diritti fondamentali, compresa la libertà di movimento. Al momento, l’Autorità Nazionale Palestinese lavora solo per un gruppo molto ristretto di persone, che costituiscono la nuova borghesia di Gaza, mentre la stragrande maggioranza della popolazione soffre in modo inimmaginabile.
Anche Egitto e Giordania dovrebbero rivedere le loro posizioni e smettere di considerare gli abitanti della Striscia solo come minacce alla sicurezza; probabilmente, smetterebbero di essere un potenziale pericolo se venissero loro garantiti i diritti umani di base.
Mahmoud Jouda, scrittore e attivista di Rafah, ha scritto sul suo profilo Facebook: “ Se vi dicono che c’è speranza a Gaza, non stateli a sentire. Anche qualora si raggiungesse la riconciliazione politica, non sarebbe efficace, perché sarebbe il frutto di una spartizione tra correnti. Il problema non riguarda solo i confini geografici. Gaza è una nave che affonda e l’unica soluzione è la salvezza individuale. Per non morire, si può solo abbandonare la nave.” È questa, purtroppo, la tragica realtà di Gaza, una città che nessuno vuole. Nena News
*(Traduzione di Romana Rubeo)

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