Israele festeggia i 50 anni come paese occupante


Jonathan Cook
18 aprile 2017
Israele deve tenere festeggiamenti sontuosi nelle prossime settimane per evidenziare il 50° anniversario di quella che chiama la “liberazione della Giudea, della Samaria e delle Alture del Golan” o che tutti noi altri descrivono come la nascita dell’occupazione.  L’evento clou si terrà a Gush Etzion, a sud di Gerusalemme. Il “blocco” di insediamenti in Cisgiordania gode di vasto supporto a Israele, non ultimo perché era stato fondato molto tempo fa dal partito Laburista di sinistra che è ora  a capo dell’opposizione.
Il giubileo è un potente monito che per gli israeliani, la maggior parte dei quali non hanno mai conosciuto i tempi prima dell’occupazione, il dominio di Israele sui palestinesi sembra tanto irreversibile quanto le leggi della natura. Però anche lo sfarzo dei festeggiamenti sottolinea la crescita in cinque decenni dell’autostima di Israele come paese occupante. I documenti trovati questo mese negli archivi di Israele rivelano che, quando Israele si è impadronito di Gerusalemme Est nel 1967, la sua prima preoccupazione è stata di raggirare la comunità internazionale.
Il ministero degli Esteri ha ordinato agli ambasciatori di Israele di descrivere in maniera errata l’annessione illegale di Gerusalemme Est, definendola una semplice “fusione municipale”. Per evitare rappresaglie diplomatiche, Israele ha dichiarato che era necessario ridurre la fornitura di servizi essenziali alla popolazione palestinese occupata.
Stranamente, coloro che hanno fatto la stesura dell’ordine, hanno avvertito che era improbabile che l’inganno sarebbe riuscito. Gli Stati Uniti hanno già insistito affinché Israele non commetta mosse unilaterali.
Ma nel giro di mesi Israele aveva sfrattato migliaia di palestinesi dalla Città Vecchia e aveva distrutto le loro case. Fin da allora Washington e l’Europa hanno continuato
a chiudere un occhio su tali azioni.
Uno dei primi slogan preferiti del movimento sionista era: “Dunum* dopo dunum, capra dopo capra”. La confisca di piccole aree di territorio misurate in dunum, la demolizione delle case segnate e la graduale eliminazione degli animali che pascolano avrebbero lentamente cacciato via i palestinesi dalla maggior parte della loro terra, “liberandola” per la colonizzazione ebraica. Se fosse stato fatto per gradi, le obiezioni arrivate dall’estero sarebbero rimaste  attutite. Si è dimostrata una formula vincente.
A 50 anni di distanza, la colonizzazione di Gerusalemme Est e della Cisgiordania, è così radicata che una soluzione con due stati non è nulla di più che un sogno impossibile.
Cionondimeno, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha scelto questo momento infausto per mandare un inviato, Jason Greenblatt, per porre fine al conflitto israelo-palestinese.
In una riposta di “buona volontà” il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha svelato uno schema per la costruzione degli insediamenti. E’ esattamente il tipo di formula per l’inganno che ha aiutato Israele a consolidare l’occupazione fin dal 1967.
Netanyahu dice che l’espansione sarà “limitata” a insediamenti “sviluppati in precedenza”, o ad aree “adiacenti”, oppure, a seconda del terreno, a “terra vicina” a un insediamento.
Il movimento [israeliano progressista e pacifista, non governativo] Peace Now, fa notare che gli insediamenti hanno già la giurisdizione su circa il 10% della Cisgiordania, mentre una percentuale di gran lunga maggiore è trattata come “terra statale”. Il nuovo schema, dice il gruppo, dà ai coloni il via libera a “costruire dovunque”.
La Casa Bianca di Trump ha alzato le spalle. Una dichiarazione seguita all’annuncio di Netanyahu, ha giudicato che gli insediamenti non costituiscono nessun “impedimento alla pace”, aggiungendo che gli impegni di Israele con le precedenti amministrazioni statunitensi  sarebbero trattate come opinabili.
Effettivamente, gli Stati Uniti stanno ricominciando da zero, creando una nuova linea guida per i negoziati dopo decenni di cambiamenti israeliani che hanno spogliato i palestinesi di territorio e diritti.
Anche se nulla di questo è di buon auspicio, i leader dell’Egitto e della Giordania, hanno incontrato Trump questo mese per spingere a  rinnovati colloqui tra Israele e i palestinesi. Si dice che la Casa Bianca si stia preparando ad accogliere il Presidente palestinese Mahmoud Abbas.
Alcuni palestinesi esperti sono giustamente diffidenti. Abbas Zaki uno dei leader di Fatah, teme che Trump cercherà di imporre una soluzione regionale agli stati arabi, scavalcando Abbas, destinata a “eliminare del tutto  la causa palestinese”.
David Ben Gurion, il padre fondatore di Israele, pare che una volta abbia detto: “Quello che importa non è che cosa dicono i goyim [i non-ebrei], ma che cosa fanno gli ebrei.”
Per quasi un quarto di secolo, gli accordi di Oslo hanno fatto sperare in un’illusoria probabilità di pace che ha utilmente distratto la comunità globale mentre Israele ha quasi quadruplicato la sua popolazione di coloni, rendendo irrealizzabile perfino uno stato palestinese molto circoscritto.
Ora, quella strategia sta per essere fatta rivivere in una forma nuova. Mentre gli Stati Uniti, Israele, la Giordania e l’Egitto si concentrano sul compito disperato di creare uno schema regionale per la pace, Israele sarà lasciato indisturbato ancora una volta  e si approprierà di altri dunam e di altre capre.
In Israele, il dibattito non è più, semplicemente se costruire case per i coloni o quante possono essere  giustificate.  I ministri del governo discutono, invece, su quale sia il momento migliore per annettere vaste aree della Cisgiordania associate ai cosiddetti blocchi di insediamenti, come Gush Etzion.
Le imminenti celebrazioni di Israele dovrebbero mettere a tacere qualsiasi confusione sul fatto che l’occupazione è ancora considerata temporanea. Quando però questa diventa permanente, si trasforma in qualcosa di gran lunga  più brutto.
E’ tardi per riconoscere che Israele ha instaurato un regime di apartheid, un regime che serve inoltre come veicolo per incrementare la pulizia etnica. Se ci devono essere dei colloqui, il loro primo compito sarebbe di porre fine a quell’oltraggio.
Nella foto: un insediamento israeliano in Cisgiordania.
Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta sul quotidiano The National, di Abu Dhabi.
Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale  Martha Gellhorn per il Giornalismo.  I suoi libri più recenti sono: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [ Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente] (Pluto Press) e Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [La Palestina che scompare: gli esperimenti di Israele di disperazione umana] (Zed Books).  Il suo nuovo sito web è: www.jonathan-cook.net.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: non indicato
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons  CC BY NC-SA 3.0

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