Fulvio Scaglione :E' iniziata la Terza Guerra Mondiale?


Usa e Russia si fronteggiano sullo scacchiere siriano, tra gas, bombe, crimini umanitari e devastazioni, come e più dei tempi della guerra fredda, col rischio di un'escalation. In realtà lo spettacolo rappresentato sul palcoscenico della…
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 Da molto tempo, ormai, la crisi della Siria, con i massacri e la distruzione del Paese, è diventata meno importante della sua narrazione. E la rappresentazione della crisi si è trasformata in un potente strumento della politica internazionale. Guardiamo con attenzione a ciò che è appena successo: nel giro di ventiquattr’ore o poco più, un isolato aereo dell’aviazione di Bashar al-Assad lancia bombe chimiche su un centro della provincia di Idlib occupato da ribelli e jihadisti e uccide un centinaio di civili; immediato parte lo sdegno internazionale; si riunisce il Consiglio di Sicurezza dell’Onu; ancora qualche ora e 60 missili Usa distruggono una base dell’aviazione siriana.
Tutto impeccabile, tutto regolato con precisione svizzera. Fin troppo, no? Perché Assad, che con l’aiuto di russi e iraniani sta lentamente vincendo sul piano militare, doveva compiere un gesto così folle e perdente? Perché gli americani, dovendo colpire, si sono limitati a un bersaglio così circoscritto? Perché i russi, che non potevano non sapere di quanto si stava preparando, hanno lasciato fare? E ancora: perché Trump ha così frettolosamente e clamorosamente smentito quanto aveva sostenuto per tutta la campagna elettorale (no al cambio di regime in Siria, sì a una intesa con Mosca) che lo ha portato alla Casa Bianca? Perché Putin ha così blandamente difeso l’alleato Assad in questa circostanza, visto che sostenere che l’aviazione siriana aveva comunque colpito un deposito di armi chimiche suonava come una mezza ammissione?
Da tutta la vicenda si leva un forte odore di teatro, di rappresentazione appunto. Che pare costruita per alleviare le difficoltà dei protagonisti, Usa e Russia per primi, che sotto tanti aspetti si somigliano. Partiamo dalla Russia. Vladimir Putin l’ha riportata in Medio Oriente non per un’operazione spot ma per una strategia di lungo periodo. Ha stretto alleanze importanti con Iran e Turchia, sta allargando l’influenza russa in Nord Africa (soprattutto attraverso la partnership con l’Egitto, decisiva anche per influire sulla situazione della Libia), prova a costruire un rapporto con Israele, spiazzando tutti con l’annuncio di voler riconoscere Gerusalemme Ovest come capitale dello Stato ebraico. Mossa che fi qui si era permesso il solo Costa Rica. Quando Trump, qualche mese fa, aveva fatto un blando cenno all’idea, era stato in pratica crocefisso.
Nello stesso tempo Putin sa di aver raccolto in Siria tutti i dividendi politici possibili. D’ora in poi per il Cremlino, da quelle parti, saranno solo grane: trattative di pace, sia a Ginevra sia ad Astana, che non portano a nulla e un futuro prevedibile a base di attentati e guerriglie. È il momento di pensare a qualcosa di nuovo per uscire dal pantano.
Trump non è messo meglio. La sua Siria è l’Iraq, dove tutto è fragile. Dopo gli anni dei finti bombardamenti di Obama contro l’Isis, i generali Usa hanno visto che cosa vuol dire condurre davvero una guerra in città: hanno ammazzato centinaia di civili a Mosul, proprio come avevano fatto russi e siriani ad Aleppo. I media, complici, coprono le stragi Usa ma i generali hanno fermato tutto. E poi c’è la grana dei curdi: appoggiati dagli Usa hanno aumentato le pretese e in Iraq fomentano il separatismo del Kurdistan, che ora vuol prendersi anche Kirkuk. Il che vuol dire alzare la tensione con la Turchia (che vede rosso quando si parla di curdi) e con l’Iran (nume tutelare del Governo sciita di Baghdad). In più, Trump ha bisogno di liberarsi della trappola in cui Obama e i servizi segreti l’hanno abilmente cacciato, ovvero il sospetto di essere troppo amico di Putin e succube (se non complice) della Russia.
È da complottisti pensare che questa crisi delle armi chimiche sembri fatta apposta per andare incontro alle esigenze sia di Trump sia di Putin? Chissà, forse sì. Ma se invece è no, in tutto questo c’è qualcuno che deve cominciare a tremare sul serio. Il suo nome è Bashar al-Assad. La soluzione al rebus siriano può passare solo per un accordo internazionale che metta d’accordo Usa e Russia ma anche Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele. E la condizione non sufficiente, ma necessaria, e in ogni caso altamente simbolica, è che il leader siriano si faccia da parte. Quest’ultimo teatrino, più che un aggravamento della crisi, pare una prova di dialogo.


 
 
 
 
 
 
I missili statunitensi e la reazione contenuta dei russi non sembrano casuali se inseriti in un contesto più ampio. Il commento di Fulvio Scaglione
tpi.it/mondo/siria/at…


Se uno potesse credere a ciò che vede, dai 60 missili sparati dalle navi Usa contro una base aerea di Bashar al-Assad trarrebbe le seguenti conclusioni. Prima: Donald Trump non teme di precipitare il mondo nella terza guerra mondiale. Seconda: poiché Trump in una notte ha fatto più danni ad Assad di quanti ne abbia fatti Obama all’Isis in due anni e mezzo, la guerra di Obama all’Isis era tutta una finta. Terza: la presidenza Trump è già finita, perché l’attacco contro Assad (e di riflesso contro la Russia) va contro tutto ciò che il tycoon aveva annunciato durante la campagna elettorale.
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Per esempio, la priorità assoluta nella lotta contro il terrorismo, che invece esce rafforzato da questa vicenda. Non a caso esultano i paesi come l’Arabia Saudita, grandi sponsor dell’Isis e di altre formazioni stragiste, e si rallegrano i gruppi qaedisti della provincia di Idlib, che hanno preso il sopravvento sull’Esercito libero siriano e sulle formazioni dei “ribelli moderati”.
Di queste conclusioni, la numero due è scontata: è chiaro da tempo che i bombardamenti della coalizione americo-saudita di 67 Paesi, così belli, pulitini e inutili, erano una messinscena per i gonzi. Quando hanno cominciato a fare sul serio, a Mosul, i raid Usa hanno provocato centinaia di vittime civili, proprio come i siriani e i russi ad Aleppo, però godendo del silenzio complice di media e attivisti vari.
La numero tre è assai probabile: Trump ha bombardato la Siria anche e soprattutto per scuotersi di dosso la fama, abilmente cucitagli addosso dai democratici insieme con i servizi segreti, di presidente succube della Russia e troppo amico (se non compagno di merende) di Vladimir Putin.
La prima conclusione, invece, appartiene alla lunga lista delle drammatizzazioni a uso consolatorio. Tutto lo svolgimento della vicenda, al contrario, fa pensare a una regia ben congegnata per disinnescare una crisi potenzialmente più grave. Un isolato aereo siriano attacca un centro occupato dai ribelli nella provincia di Idlib; immediata parte l’accusa sulle armi chimiche con relativo sdegno del mondo libero e civile; segue dibattito all’Onu; arrivano i missili americani.
Incursione chirurgica e limitata, di cui l’apparato di sicurezza russo era ovviamente a conoscenza prima che si realizzasse. Ventiquattr’ore, scandite con precisione svizzera. Il tutto mentre, per esempio, la Russia riconosce a Israele (a sua volta entusiasta del bombardamento americano, dopo aver in prima persona colpito più volte la Siria) il diritto a fare di Gerusalemme Ovest la capitale del proprio Stato. Per aver solo accennato a questa ipotesi, Donald Trump era stato crocefisso dai benpensanti dei cinque continenti.
Dunque: che cosa succede davvero in Siria? Si è detto spesso che laggiù si combatte un segmento di quella “terza guerra mondiale a pezzetti” di cui parlò, con un’immagine fulminante, papa Francesco. Forse è una buona idea, allora, inserire anche questa crisi così teatrale in un contesto più ampio. È fantascienza ipotizzare che l’attacco così precisino degli americani e la reazione così contenuta dei russi (per non parlare di non reazione) siano non casuali ma voluti? E nascondano, o per meglio dire certifichino, una complessa prova di dialogo che procede sotterranea?
Guardiamoci intorno. In Ucraina, Poroshenko e i suoi hanno cercato invano di far risalire la tensione, trovando scarsa sponda nella Washington di Trump senza incidere sui nervi del Cremlino. Nell’Africa del Nord il ruolo della Russia cresce e la partnership con l’Egitto, anche nella regolazione del caos in Libia per il tramite del generale Haftar, che ha molto più potere del premier Al Farraj riconosciuto dall’Onu, non può più essere ignorata.
Su Israele, pur tra mille distinzioni, si registra un’oggettiva convergenza tra Trump e Putin. Sia Russia sia Usa hanno un problema con la Turchia per l’appoggio che entrambi forniscono ai curdi. In Iraq (che sta agli Usa come la Siria sta alla Russia) gli americani devono confrontarsi con l’irredentismo curdo che vuol prendersi anche Kirkuk, con il rischio di far saltare tutto e creare loro un problema grave, anche se per ragioni opposte, sia con l’Iran, grande sponsor del Governo sciita di Baghdad, sia con la Turchia (a Erdogan va il sangue agli occhi quando sente parlare di rafforzare i curdi).
In Siria, infine, il Cremlino sa di aver già portato a casa, dal punto di vista della rendita politica, tutto il possibile. I progetti americani e sauditi sono falliti ma la pace è assai lontana, forse irraggiungibile, vista la quantità inesauribile di aspiranti kamikaze e di petrodollari per finanziarli. Le trattative di pace, siano quelle di Ginevra siano quelle di Astana, sembrano quasi solo un esercizio di buona volontà. Insomma, per la Russia d’ora in poi sono solo grane.
Anche qui bisognerà prima o poi trovare un accordo internazionale, perché un vero stop alle ostilità arriverà solo per quella via. E un accordo con sauditi, americani e turchi potrà passare, alla fin fine, solo sacrificando Assad. È lui il vero perdente di questi giorni. Forse l’unico.
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