Che cosa sta provocando Facebook alla nostra salute mentale?
di
Phoebe Braithwaite – 26 aprile 2017 In gennaio un’intervista al
consulente di marketing Simon Sinek è diventata virale su Facebook.
Facendo imbestialire
znetitaly.altervista.org
In gennaio un’intervista al consulente di marketing Simon Sinek
è diventata virale su Facebook. Facendo imbestialire i nati nel
millennio li ha descritti come “difficili da gestire, pieni di diritti,
narcisisti, egocentrici [e] distratti”. Potete immaginare la mia delizia
quando mia mamma mi ha mandato il video: “questo potrebbe spiegare
perché hai così tanti problemi”, ha detto.
Sinek attribuisce le patologie della Generazione Y a “strategie genitoriali deficitarie”, il brutto colpo di rendersi conto che non si può avere qualcosa solo perché lo si vuole e l’infelice accoppiamento di diritti e bassa autostima che i figli del millennio si portano dietro. Secondo Sinek questi problemi sono stati aggravati dall’essere cresciuti in un mondo di Facebook e di Instagram: “siamo in gamba a mostrare alla gente che ‘la vita è meravigliosa, anche se uno è depresso’”. Manca nel resoconto di Sinek la politica del perché i figli del millennio potrebbero sentirsi così. Siamo semplicemente abulici, pigri, stupidi e privi di interessi? O, come sostiene Marcus Gilroy-Ware nel suo nuovo libro Filling the Void [Colmare il vuoto] ci stiamo piegando sotto la tensione del tardo capitalismo?
I media sociali monetizzano la nostra disattenzione. Abbiamo lasciato che si ficcassero nelle nostre vite e a questo punto siamo presi al laccio. Queste piattaforme sono progettate per aggirare tutti gli impulsi di autocontrollo. 1,79 miliardi di noi si collegano ogni mese a Facebook, scrive Gilroy-Ware. Secondo l’agenzia del digitale We Are Social, l’utente medio di media sociali trascorre ogni giorno due ore e tredici minuti sui media sociali, quasi il 15% delle nostre ore da svegli.
Ma la tecnologia è fantastica! Ci teniamo in contatto con i nostri amici e la nostra famiglia in tutto il mondo; possiamo fare un milione di nuove cose utili come scambiare cose che non vogliamo più, leggere le notizie tutto il tempo e ordinare cibo a domicilio; possiamo creare avatar bitmoji per le nostre mamme e creare un costume da elfo per il nonno, giusto in tempo per Natale. E i meme sono davvero divertenti e, dannazione, a volte fanno piangere per un minuto. Si può anche avere un’applicazione chiamata Moment che controlla il tempo davanti allo schermo e incoraggia a scollegarsi (contiene acquisti in-app).
Filling the Void offre un vasto resoconto dei mali dei media sociali: come Facebook e Twitter erodono il giornalismo e la diffusione di notizie, con i loro algoritmi che determinano in modo misterioso la portata del contenuto, i loro cinici interessi pubblicitari che censurano video di Black Lives Matter e del movimento BDS. Siamo drogati. I nostri telefoni ci interrompono il sonno, ci distraggono mentre guidiamo, in alcuni casi disgraziati facendoci cadere da scogli mentre ci facciamo un selfie.
Le industrie scremano i nostri dati per scopi nefasti, cioè il loro arricchimento, e pare che noi non siamo in grado di darci una mossa per fermarli. In effetti ci adeguiamo allegramente a ogni nuova funzione che Facebook introduce (“Amore”, “Haha!”, “Arrabbiato”), dimentichi dei nuovi poteri che mette a disposizione, consentendo a siti di scavare a fondo nelle nostre preferenze, personalità e rapporti personali, mentre crediamo di dedicarci all’attività della pura espressione di noi stessi: “questa illusione è esattamente ciò che dà il suo potere alla sequenza degli eventi”, dice GIlroy-Ware.
Filling the Void accumula urgenza nella sua discussione di ciò che i media sociali stanno provocando alla nostra salute mentale. Qui deve molto allo scomparso Mark Fisher, il cui libero del 2009 Capitalist Realism è divenuto per molti il testo base su come il capitalismo sta danneggiando la nostra cultura e il nostro cervello. Mutuando il concetto di Fisher di “edonia depressiva”, GIlroy-Ware traspone tale analisi, che descrive uno stato più pervasivo, nel contesto specifico della tecnologia digitale, dove ovviamente si trova a casa propria.
Fisher afferma: “La depressione è solitamente caratterizzata da uno stato di anedonia, ma la condizione cui mi riferisco è costituita non da un’incapacità di provare piacere, ma piuttosto da un’incapacità di fare altro che perseguire il piacere. C’è una sensazione che ‘qualcosa manca’, ma nessuna comprensione che questo misterioso godimento mancante può essere raggiunto solo oltre di principio del piacere”.
Ciò troverà eco in quelli di noi abituati alla pratica di scorrere compulsivamente flussi Instagram o Facebook, un’iniezione di dopamina che semplicemente mantiene eccitati, anche se forse non interamente coscienti. Gilroy-Ware definisce questo una “ruota da criceto emotiva”: “mentre sostanze note come oppiacei sono responsabili della sensazione del piacere”, scrive, “la dopamina è responsabile della motivazione alla ricerca di premi piacevoli”. Questa briciola di scienza popolare è importante: ci dice che i media sociali, in larga misura come avevamo sospettato a lungo, possono coinvolgerci ma mai soddisfarci.
Una nota di emozione accompagna Filling the Void: una sollecitazione a ricordare che le felici scene sdolcinate che riempiono i flussi dei nostri media sociali stanno diventando più assenti che mai dalla nostra vita reale mentre le radici della solitudine, della depressione e dell’atomizzazione sociale si fanno più profonde. “Era come se la persona stesse cercando qualcosa che in realtà non esiste…”.
GIlroy-Ware sostiene la tesi della disassuefazione, affermando che il luogo appropriato per scrivere nella nostra cultura sta nello scuotersi da ogni meravigliato consenso e, in questo caso, nel rifiutarsi di accettare come normale la diffusa dipendenza dai media sociali. “Herbert Marcuse parlò di un’alienazione artistica, nata dal produrre opere artistiche ‘romantiche’ in una società in conflitto con la verità che l’arte esprime; ma i miei giovani studenti … sono alienati in un modo ancora diverso: anziché esprimere sé stessi o qualche verità altrimenti inesprimibile, vogliono fare un lavoro creativo che consiste quasi interamente nell’attenersi ai valori dominanti della società. Questo è del tutto comprensibile, considerate le pressioni culturali cui sono sottoposti …”.
Le osservazioni di Gilroy-Ware vanno al cuore della sua affermazione cruciale: che il capitalismo, più che semplicemente influenzare la cultura, è divenuto cultura: “per realizzare questo obiettivo finale il capitalismo deve essere la cultura di coloro che vivono in esso”, afferma. Il fatto che siamo immersi nella cultura del capitalismo, che invariabilmente manda in corto circuito i nostri tentativi di resistenza, comincia a comunicare qualcosa riguardo a quanto siamo intrappolati; una sensazione che tanto più acuta quando all’una di notte ci troviamo presi nei recessi della vita di un estraneo.
C’è, tuttavia, qualcosa di sgradevole nell’uso di “giovani studenti” che, anche se benintenzionato, implica la separatezza dell’autore. Gilroy-Ware è chiaramente sconcertato dalla sempre maggiore cooptazione della creatività al fine di pompare capitale ed è depresso dal fatto che noi giovani siamo così prontamente complici di questa dissipazione. E io simpatizzo con lui. Ma quali sono le opzioni? Anche se le tendenze capitaliste dei giovani sono mediate da nuovi filtri, sono più mercenarie o più ingenuamente acritiche di quelle dei loro predecessori? La proliferazione delle “industrie creative” è solo la più recente replica di un processo attraverso il quale le nostre economie sono riorganizzate intorno alle necessità e ai capricci del capitale finanziario. Non sono i giovani che permettono che ciò avvenga; ma, ragazzi, ne stiamo pagando il prezzo.
Se gli smartphone e i media sociali sono un male per la nostra salute, sono un male specialmente per le donne. Si parla dell’uber-izzazione e della meme-rizzazione della cultura; ma ciò che i media sociali rendono possibile è la pornificazione di vasti strati dell’esperienza, il completamento di un processo in cui la trasformazione delle donne in oggetti diventa interna e noi impariamo a considerare i nostri corpi non come mezzi per condurre le nostre vite, bensì come prodotti da modellare e costruire costantemente.
Se, come sostiene Gilroy-Ware, “la pornografia è lo spazio in cui il capitalismo patriarcale estrae valore dall’oggettivazione sessuale”, questo processo è iniziato ben prima dell’avvento dei media sociali, ma egli evita parte del sensazionalismo spauracchio che spesso affligge i dibattiti sui media sociali, trattando le tecnologie come “un riflesso delle culture in cui sono utilizzare, piuttosto che come cause di tali culture”. In altri termini il fenomeno dei media sociali non è una qualche cosa eccezionale che ci sta friggendo il cervello e corrompendo la nostra cultura, ma l’estensione di tendenze e traiettorie più lunghe, e questi canali vanno discussi in termini della capacità di esacerbazione che esercitano.
Filling the Void offre una seria di raccomandazioni pratiche su come possiamo riprendere il controllo, dal cancellare le nostre applicazioni al criptare deliberatamente i dati che i media sociali stanno sfruttando. Anche se queste raccomandazioni possono facilmente diventare un po’ riprovatrici, nelle mani di Gilroy-Ware sono più spesso imploranti e sincere, aggirando le nostre difese per insistere che noi possiamo fare di meglio. Ho seguito alcuni dei suoi consigli e sono felice di passare ora meno del mio tempo a guardare il sedere di Kylie Jenner. Forse sono un caso disgraziato, ma sono ancora dipendente dallo scorrimento e spreco ore della mia vita con memi (spassosi) che ho già visto. E mi chiedo, fatalisticamente, se c’è davvero una probabilità che abbia presa una svolta culturale da questa abitudine tra le più compulsive.
Gilroy-Ware ci ricorda la convinzione di Mark Fisher che: “la politica emancipativa deve sempre distruggere l’apparenza di un ‘ordine naturale’, deve svelare come mera contingenza ciò che è presentato come necessario e inevitabile, giusto mentre fa apparire realizzabile ciò che in precedenza era impossibile”.
Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/what-is-facebook-doing-to-our-mental-health/
Originale: open democracy
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
Sinek attribuisce le patologie della Generazione Y a “strategie genitoriali deficitarie”, il brutto colpo di rendersi conto che non si può avere qualcosa solo perché lo si vuole e l’infelice accoppiamento di diritti e bassa autostima che i figli del millennio si portano dietro. Secondo Sinek questi problemi sono stati aggravati dall’essere cresciuti in un mondo di Facebook e di Instagram: “siamo in gamba a mostrare alla gente che ‘la vita è meravigliosa, anche se uno è depresso’”. Manca nel resoconto di Sinek la politica del perché i figli del millennio potrebbero sentirsi così. Siamo semplicemente abulici, pigri, stupidi e privi di interessi? O, come sostiene Marcus Gilroy-Ware nel suo nuovo libro Filling the Void [Colmare il vuoto] ci stiamo piegando sotto la tensione del tardo capitalismo?
I media sociali monetizzano la nostra disattenzione. Abbiamo lasciato che si ficcassero nelle nostre vite e a questo punto siamo presi al laccio. Queste piattaforme sono progettate per aggirare tutti gli impulsi di autocontrollo. 1,79 miliardi di noi si collegano ogni mese a Facebook, scrive Gilroy-Ware. Secondo l’agenzia del digitale We Are Social, l’utente medio di media sociali trascorre ogni giorno due ore e tredici minuti sui media sociali, quasi il 15% delle nostre ore da svegli.
Ma la tecnologia è fantastica! Ci teniamo in contatto con i nostri amici e la nostra famiglia in tutto il mondo; possiamo fare un milione di nuove cose utili come scambiare cose che non vogliamo più, leggere le notizie tutto il tempo e ordinare cibo a domicilio; possiamo creare avatar bitmoji per le nostre mamme e creare un costume da elfo per il nonno, giusto in tempo per Natale. E i meme sono davvero divertenti e, dannazione, a volte fanno piangere per un minuto. Si può anche avere un’applicazione chiamata Moment che controlla il tempo davanti allo schermo e incoraggia a scollegarsi (contiene acquisti in-app).
Filling the Void offre un vasto resoconto dei mali dei media sociali: come Facebook e Twitter erodono il giornalismo e la diffusione di notizie, con i loro algoritmi che determinano in modo misterioso la portata del contenuto, i loro cinici interessi pubblicitari che censurano video di Black Lives Matter e del movimento BDS. Siamo drogati. I nostri telefoni ci interrompono il sonno, ci distraggono mentre guidiamo, in alcuni casi disgraziati facendoci cadere da scogli mentre ci facciamo un selfie.
Le industrie scremano i nostri dati per scopi nefasti, cioè il loro arricchimento, e pare che noi non siamo in grado di darci una mossa per fermarli. In effetti ci adeguiamo allegramente a ogni nuova funzione che Facebook introduce (“Amore”, “Haha!”, “Arrabbiato”), dimentichi dei nuovi poteri che mette a disposizione, consentendo a siti di scavare a fondo nelle nostre preferenze, personalità e rapporti personali, mentre crediamo di dedicarci all’attività della pura espressione di noi stessi: “questa illusione è esattamente ciò che dà il suo potere alla sequenza degli eventi”, dice GIlroy-Ware.
Filling the Void accumula urgenza nella sua discussione di ciò che i media sociali stanno provocando alla nostra salute mentale. Qui deve molto allo scomparso Mark Fisher, il cui libero del 2009 Capitalist Realism è divenuto per molti il testo base su come il capitalismo sta danneggiando la nostra cultura e il nostro cervello. Mutuando il concetto di Fisher di “edonia depressiva”, GIlroy-Ware traspone tale analisi, che descrive uno stato più pervasivo, nel contesto specifico della tecnologia digitale, dove ovviamente si trova a casa propria.
Fisher afferma: “La depressione è solitamente caratterizzata da uno stato di anedonia, ma la condizione cui mi riferisco è costituita non da un’incapacità di provare piacere, ma piuttosto da un’incapacità di fare altro che perseguire il piacere. C’è una sensazione che ‘qualcosa manca’, ma nessuna comprensione che questo misterioso godimento mancante può essere raggiunto solo oltre di principio del piacere”.
Ciò troverà eco in quelli di noi abituati alla pratica di scorrere compulsivamente flussi Instagram o Facebook, un’iniezione di dopamina che semplicemente mantiene eccitati, anche se forse non interamente coscienti. Gilroy-Ware definisce questo una “ruota da criceto emotiva”: “mentre sostanze note come oppiacei sono responsabili della sensazione del piacere”, scrive, “la dopamina è responsabile della motivazione alla ricerca di premi piacevoli”. Questa briciola di scienza popolare è importante: ci dice che i media sociali, in larga misura come avevamo sospettato a lungo, possono coinvolgerci ma mai soddisfarci.
Una nota di emozione accompagna Filling the Void: una sollecitazione a ricordare che le felici scene sdolcinate che riempiono i flussi dei nostri media sociali stanno diventando più assenti che mai dalla nostra vita reale mentre le radici della solitudine, della depressione e dell’atomizzazione sociale si fanno più profonde. “Era come se la persona stesse cercando qualcosa che in realtà non esiste…”.
GIlroy-Ware sostiene la tesi della disassuefazione, affermando che il luogo appropriato per scrivere nella nostra cultura sta nello scuotersi da ogni meravigliato consenso e, in questo caso, nel rifiutarsi di accettare come normale la diffusa dipendenza dai media sociali. “Herbert Marcuse parlò di un’alienazione artistica, nata dal produrre opere artistiche ‘romantiche’ in una società in conflitto con la verità che l’arte esprime; ma i miei giovani studenti … sono alienati in un modo ancora diverso: anziché esprimere sé stessi o qualche verità altrimenti inesprimibile, vogliono fare un lavoro creativo che consiste quasi interamente nell’attenersi ai valori dominanti della società. Questo è del tutto comprensibile, considerate le pressioni culturali cui sono sottoposti …”.
Le osservazioni di Gilroy-Ware vanno al cuore della sua affermazione cruciale: che il capitalismo, più che semplicemente influenzare la cultura, è divenuto cultura: “per realizzare questo obiettivo finale il capitalismo deve essere la cultura di coloro che vivono in esso”, afferma. Il fatto che siamo immersi nella cultura del capitalismo, che invariabilmente manda in corto circuito i nostri tentativi di resistenza, comincia a comunicare qualcosa riguardo a quanto siamo intrappolati; una sensazione che tanto più acuta quando all’una di notte ci troviamo presi nei recessi della vita di un estraneo.
C’è, tuttavia, qualcosa di sgradevole nell’uso di “giovani studenti” che, anche se benintenzionato, implica la separatezza dell’autore. Gilroy-Ware è chiaramente sconcertato dalla sempre maggiore cooptazione della creatività al fine di pompare capitale ed è depresso dal fatto che noi giovani siamo così prontamente complici di questa dissipazione. E io simpatizzo con lui. Ma quali sono le opzioni? Anche se le tendenze capitaliste dei giovani sono mediate da nuovi filtri, sono più mercenarie o più ingenuamente acritiche di quelle dei loro predecessori? La proliferazione delle “industrie creative” è solo la più recente replica di un processo attraverso il quale le nostre economie sono riorganizzate intorno alle necessità e ai capricci del capitale finanziario. Non sono i giovani che permettono che ciò avvenga; ma, ragazzi, ne stiamo pagando il prezzo.
Se gli smartphone e i media sociali sono un male per la nostra salute, sono un male specialmente per le donne. Si parla dell’uber-izzazione e della meme-rizzazione della cultura; ma ciò che i media sociali rendono possibile è la pornificazione di vasti strati dell’esperienza, il completamento di un processo in cui la trasformazione delle donne in oggetti diventa interna e noi impariamo a considerare i nostri corpi non come mezzi per condurre le nostre vite, bensì come prodotti da modellare e costruire costantemente.
Se, come sostiene Gilroy-Ware, “la pornografia è lo spazio in cui il capitalismo patriarcale estrae valore dall’oggettivazione sessuale”, questo processo è iniziato ben prima dell’avvento dei media sociali, ma egli evita parte del sensazionalismo spauracchio che spesso affligge i dibattiti sui media sociali, trattando le tecnologie come “un riflesso delle culture in cui sono utilizzare, piuttosto che come cause di tali culture”. In altri termini il fenomeno dei media sociali non è una qualche cosa eccezionale che ci sta friggendo il cervello e corrompendo la nostra cultura, ma l’estensione di tendenze e traiettorie più lunghe, e questi canali vanno discussi in termini della capacità di esacerbazione che esercitano.
Filling the Void offre una seria di raccomandazioni pratiche su come possiamo riprendere il controllo, dal cancellare le nostre applicazioni al criptare deliberatamente i dati che i media sociali stanno sfruttando. Anche se queste raccomandazioni possono facilmente diventare un po’ riprovatrici, nelle mani di Gilroy-Ware sono più spesso imploranti e sincere, aggirando le nostre difese per insistere che noi possiamo fare di meglio. Ho seguito alcuni dei suoi consigli e sono felice di passare ora meno del mio tempo a guardare il sedere di Kylie Jenner. Forse sono un caso disgraziato, ma sono ancora dipendente dallo scorrimento e spreco ore della mia vita con memi (spassosi) che ho già visto. E mi chiedo, fatalisticamente, se c’è davvero una probabilità che abbia presa una svolta culturale da questa abitudine tra le più compulsive.
Gilroy-Ware ci ricorda la convinzione di Mark Fisher che: “la politica emancipativa deve sempre distruggere l’apparenza di un ‘ordine naturale’, deve svelare come mera contingenza ciò che è presentato come necessario e inevitabile, giusto mentre fa apparire realizzabile ciò che in precedenza era impossibile”.
Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/what-is-facebook-doing-to-our-mental-health/
Originale: open democracy
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
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