Vargas Llosa : la tormenta gialla in Israele
Nota
redazionale: Nel giugno 2016 lo scrittore peruviano e premio Nobel per
la letteratura Mario Vargas Llosa ha scritto una serie di reportage
dalla Palestina per il quotidiano spagnolo "El País". Dal suo viaggio è
stato tratto anche il…
Zeitun
Nota redazionale: Nel giugno 2016 lo scrittore peruviano e premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa
ha scritto una serie di reportage dalla Palestina per il quotidiano
spagnolo “El País”. Dal suo viaggio è stato tratto anche il documentario
“Cinco días con Mario” (“Cinque giorni con Mario”).
I
redattori di Zeitun non condividono alcune affermazioni contenute in
questi testi per quanto riguarda i giudizi su Israele (tra cui ad
esempio le notazioni finali sulle virtù del Paese, che ignorano il fatto
che il 20% dei cittadini israeliani, soprattutto non ebrei, si trova
sotto il livello di povertà ed il razzismo che colpisce tuttora gli
ebrei sefarditi e quelli etiopi: vedi
http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4753118,00.html; https:// en.
wikipedia. org/wiki/Racism_in_Israel) e su alcuni degli scrittori che
vengono qui definiti “pacifisti” (Grossman e Oz, che in varie occasioni
hanno appoggiato le iniziative militari di Israele). Ritengono tuttavia
importante tradurre e diffondere questi reportage, sia per
l’autorevolezza dell’autore, sia perché contengono una esplicita
denuncia dell’occupazione israeliana.
Le
traduzioni che seguono includono due articoli di presentazione scritti
dal giornalista de “El País” Juan Cruz e i reportage di Vargas Llosa.
Mario Vargas Llosa visita la Cisgiordania e scrive del dramma dei territori occupati
El País – Gerusalemme, 19 giugno 2016
L’agenda
degli impegni di Mario Vargas Llosa, che ha 80 anni, è stata quasi
quella di un inviato di guerra, e lui stesso la presenterà divisa in
vari episodi su “El País” attraverso la pubblicazione di vari reportage a
partire dal 30 giugno. Inoltre l’esperienza è stata raccolta da “El
País TV” in un documentario che sarà trasmesso anche dalla rete del
giornale.
Infatti
l’esperienza è stata molto intensa. Sia la sua che la nostra, che
l’abbiamo potuto accompagnare. Abbiamo visto come si alzava alle 4 del
mattino per assistere alle code dei lavoratori palestinesi che devono
attendere ore davanti al cancello implacabile in un checkpoint per
entrare a lavorare in Israele, o come saliva e scendeva dalle strade o
dai sentieri o dalle grotte impraticabili dei villaggi in cui i
palestinesi resistono, o come si andava a cercare le informazioni di cui
aveva bisogno per poi redigere il suo racconto. Avendo assistito al suo
modo di fare non solo si capisce come ha fatto a scrivere alcuni dei
suoi libri più famosi, ma anche come mantiene in forma la sua idea
dell’impegno dello scrittore con la realtà. Non è affatto frequente che
un premio Nobel della letteratura, autore di romanzi come “Conversazione
nella ‘cattedrale'” o “La festa del caprone”, si dedichi a un esercizio
di questo tipo.
David
Grossman è uno dei grandi scrittori israeliani. Era un giovane
giornalista della radio ufficiale nel 1987 quando decise di abbandonare
la routine delle notizie per addentrarsi nel dramma provocato dagli
insediamenti dei coloni nei territori occupati della Palestina fin dalla
guerra del 1967.
In
20 anni nessuno scrittore vi si era avvicinato. Ora un’alta percentuale
di israeliani non sa cosa succede in quella zona, dove si sviluppa
quella che allora Grossman (Gerusalemme, 1954) vide come un’aggressione
ai diritti umani. La situazione è peggiorata. Il risultato di quella
visita fu un libro, “Il vento giallo”, che commosse milioni di lettori e
provocò la sua espulsione dalla radio e l’ostilità di alcuni dei suoi
colleghi. Quest’opera di Grossman è servita a far in modo che ora un
gruppo di scrittori diano seguito con i propri testi all’esperienza
drammatica dello scrittore israeliano. Tra questi c’è il premio Nobel
Mario Vargas Llosa, che ha appena finito di rivisitare i territori
occupati della Cisgiordania.
Ci
furono comandanti dell’esercito, principale responsabile di
quell’aggressione ai diritti umani dei palestinesi, che consigliarono ai
propri ufficiali di leggere anche “Il vento giallo”. Yehuda Shaul, che
ora ha 33 anni, non ha avuto bisogno che glielo consigliassero i suoi
superiori: lo lesse quando era ancora sergente operativo a Hebron, una
delle metafore della politica di colonizzazione israeliana, e trovò che
quello che raccontava Grossman sulla discriminazione razziale, politica e
civile dei palestinesi doveva essere denunciato.
Egli,
con Miki Kratsman, ebreo argentino, che arrivò in Israele a 12 anni e
qui è diventato fotografo e professore, ha creato “Breaking the silence”
(Rompere il silenzio) il 12 marzo 2004. Formata da soldati di leva,
l’organizzazione decise di raccogliere testimonianze anonime di militari
la cui identità mantengono segreta. Lo scandalo è stato tanto grande
quanto le minacce che ora si sono intensificate contro di loro. Con la
tranquillità di un veterano (ha 57 anni), Miki Kratsman dice che il
livello di questa repressione aumenterà. E le prove che ne hanno a
“Breaking the silence” sono schiaccianti. “Però non ci arrendiamo. Vinceremo,” dice Shaul.
“La
lotta è contro le colonie. Non è contro Israele”, continua: “Sono un
patriota, un sionista, la mia è una famiglia conservatrice, ho 10
fratelli, alcuni sono coloni; non andrei dove ci sono coloni, ma non
voglio che i miei nipoti crescano senza di me né io voglio vivere senza
di loro. Per cui vado a trovarli.” La sua è una lotta etica: né lui né
Miki né le circa 50 persone che costituiscono il loro gruppo, né i mille
collaboratori che in un modo o nell’altro partecipano alla loro lotta
(molti dei quali militari che hanno testimoniato il lato oscuro del loro
lavoro), sono contro lo Stato di Israele. Vogliono che finisca la
discriminazione contro i palestinesi.
Rappresaglie
I
documenti che denunciano le forze armate sono stati controllati dalla
censura militare. Non hanno niente da temere in merito alla legittimità
della loro lotta, però questo non basta per essere sicuri che non
patiranno rappresaglie.
Questa
lotta ha molto a che vedere con quel libro di Grossman. Per dargli
continuità, questo lettore che è stato militare e ora confessa di non
essere pacifista (“darei la mia vita per Israele”) ha concepito un
progetto a cui lui e i suoi dedicano una passione irrefrenabile:
convocare scrittori da tutto il mondo perché testimonino quello che
Grossman ha già scritto tempo addietro. Il libro uscirà nel maggio 2017
in tutto il mondo e non ha ancora un titolo. Allora sarà passato mezzo secolo di occupazione.
Mario
Vargas Llosa è uno di loro. Collaboratore de “El País”, reporter in
Iraq, in Israele e in altre parti del mondo, ha attraversato in
quest’ultima settimana quei territori occupati per condividere le
informazioni che hanno sia i palestinesi espulsi dalla loro terra, che
vivono una vita stentata in alcuni villaggi o città (come Hebron) che
ora sono luoghi tanto fantasmatici come il “Pedro Páramo” di Juan Rulfo
[scrittore messicano. Il romanzo si svolge in un villaggio fantasma.
Ndtr.], sia quelli che sono coloni di quegli stessi territori.
Il
libro di Grossman si intitolava “Il vento giallo” perché in Israele il
giallo è il colore dell’odio. Quello che adesso vuole “Breaking the
silence” è sradicare questo colore dalle relazioni difficili,
politicamente impossibili, umanamente degradanti tra israeliani e
palestinesi, questi ultimi condannati a vivere all’ultimo posto della
storia.
Il colore dell’odio
Alcuni
dei rappresentanti di BTS (come lo stesso Shaul, come Morial
Rothman-Zecher, un giovane di 26 anni che ha studiato Scienze Politiche,
ha rinunciato al servizio militare ed ha pagato per questo) parlano
arabo e cercano di smentire quel colore di odio che segna lo stupore con
cui quasi 40 anni fa Grossman ha disegnato il corpo e l’anima di questo
conflitto.
Loro hanno invitato Vargas Llosa (e Colm Tóibín, Colum McCann
[scrittori irlandesi. Ndtr] e fino a 26 autori tra poeti, narratori o
saggisti di tutto il mondo, compresi Israele e Palestina) perché vedano
questa lotta etica e ottengano le testimonianze degli abitanti dei
territori occupati. Questi scrittori stanno arrivando.
L’autore
de “La zia Giulia e lo scribacchino” ha raccontato a “El País TV” che
la prima volta che è venuto in Israele è stato nel 1974, ” e allora ero
ancora di sinistra”. Quell’Israele lo affascinò, perché esprimeva ideali
di giustizia sociale che facevano parte dell’ideologia della sinistra
di cui egli faceva parte. Il fenomeno delle colonie ha smentito in
seguito quell’immagine.
Né
lui né quelli che lo hanno invitato mettono in dubbio lo Stato di
Israele; egli dirà, nelle puntate del suo reportage (che iniziano a
pubblicarsi ne “El País” dal prossimo giovedì 30 giugno [2016]), come ha
visto questo problema ed altri sollevati dalla questione cruciale delle
colonie.
Quello
che “Breaking the Silence” mette in discussione, e per questo
l’organizzazione lavora perché finisca l’odio tra palestinesi ed
israeliani, è che ci siano cittadini condannati a vivere come esseri
senza diritti elementari nel territorio comune, in Cisgiordania, a
Gerusalemme, in tutte le zone in cui i coloni ricevono una protezione
negata ai palestinesi espulsi dalle loro terre.
Il
libro che ha ispirato questa lotta è “Il vento giallo”. Il nuovo libro,
al quale lavora “Breaking the Silence” e per questo hanno invitato
Vargas Llosa e gli altri, deve ancora essere definito. Abbiamo
prospettato allo stesso Grossman, che tanto ha segnato Shaul e i suoi
compagni, se quel vento potrebbe essere adesso una tempesta: “Sì,
probabilmente”, ha affermato.
Qui
il giallo è il colore dell’odio. Persino i più ottimisti credono che
Israele viva la continuazione pericolosa di una lunga tormenta gialla.
“Breaking the Silence” è nato per rompere il silenzio che ha stimolato
questo odio. E insiste nel voler rompere l’origine di questa tormenta.
Vargas Llosa racconta “i disastri dell’occupazione”.
El País-30 giugno 2016
di Juan Cruz
Il Nobel racconta l’esperienza del suo incontro con la realtà dei territori occupati in Cisgiordania.
Gideon Levy, uno dei maggiori giornalisti israeliani, ha apostrofato Mario Vargas Llosa,
quando lo ha visto con il notes in mano, mentre entrava a Hebron,
questo luogo che l’occupazione israeliana ha trasformato in una luce
spenta.
—Cosa ci fai tu qui?
Poi
i due si sono messi a camminare per Hebron fino ad arrivare ad un
promontorio sul quale un circolo culturale palestinese ha ricevuto il
premio Nobel e i suoi accompagnatori intorno a un vecchio ulivo a cui
era avvolto uno striscione di tela: “Free Palestine”.
Il Nobel ha preso il suo libretto degli appunti, con in testa il
cappello che lo proteggeva dal sole, e ha preso nota di quello che stava
ascoltando. Non si è mai separato del suo block notes. Prendeva appunti
con l’impegno e la costanza di un reporter perso in un buco del mondo.
Voleva sapere quello che succede per poterlo raccontare a una società
che, come gli hanno detto, sa di Israele e Palestina solo quando ci sono
attentati, intifada e scontri che iniziano con lanci di pietre o
coltelli e finiscono con tumulti che poi diventano le prime pagine dei
giornali o dei servizi televisivi in tutto il mondo.
Lì
gli hanno raccontato questa parte del problema. Quando la conversazione
è diventata più informale ed erano le sette di sera ad Hebron, i
palestinesi, gli israeliani che accompagnavano Vargas Llosa e noi
giornalisti de “El País” che lo abbiamo seguito in questo viaggio
abbiamo visto, sul computer di uno dei palestinesi, il finale della
partita Repubblica Ceca -Spagna, quello del gol di Piqué.
Tutti,
compreso Gideon, anche se all’inizio era convinto che la Repubblica
Ceca fosse la Spagna (“Come gioca male la Spagna” ha detto), hanno
applaudito il gol del catalano. Quando stavano tornando a Gerusalemme,
per continuare il viaggio, il Nobel Vargas Llosa, , ha ricevuto un altro
saluto da Gideon Levy, che si congedava:
– Grazie, Mario, per essere venuto a raccontarlo.
Glielo
hanno detto altre volte. Però questa volta glielo diceva un giornalista
che conosce molto da vicino sia quello che il governo israeliano ha
fatto nei territori occupati (ha lavorato in stretto contatto con Simon
Peres, ex-presidente di Israele) sia quello che pensa la società civile
(intellettuali, scrittori) di entrambi i lati (israeliani, palestinesi)
su questo dualismo di odio da una parte e di odio dall’altra che si è
andato costruendo durante più di mezzo secolo in questa parte difficile
del Medio Oriente, come un muro che qualcuno vuole rompere. Tra costoro,
quelli che hanno invitato Vargas Llosa a fare questo viaggio, che
vogliono mitigare un odio che ormai sembra eterno.
“Buchi neri”
Il
premio Nobel peruviano è stato varie volte in Israele e in Palestina,
come in Iraq o in Afghanistan o in Congo, cercando “in quei buchi neri
del mondo”, come dice Carlos Granés, uno dei suoi esegeti, “le radici
dei conflitti, per cercare di aiutare a capirli, al di fuori di quei
difficili abissi.”
Dieci
anni fa il Nobel peruviano ha conosciuto Yehuda Shaul, che all’epoca
era un giovane ex-sergente israeliano di ventitre anni che aveva
contribuito a fondare ” Breaking the silence” (Rompere il silenzio),
un’organizzazione inconsueta in questo Paese in guerra: sergente proprio
a Hebron, Yehuda aveva annotato nella sua mente le atrocità a cui le
autorità civili israeliane obbligavano i militari in servizio nei
territori occupati e volle mettere insieme commilitoni che avevano
provato lo stesso orrore di fronte alle nefandezze che avevano visto.
Nel
suo “Pietra di paragone” di quest’ultima domenica, Vargas Llosa ne “El
País” ha raccontato questo incontro e quello che ne è seguito fino a
culminare nella visita che da domani racconterà qui.
Le
sue cronache si intitolano “I disastri dell’occupazione” e si
pubblicheranno il 1, il 2 e il 3 luglio, su due pagine in cui i lettori
seguiranno i suoi incontri nei territori occupati e anche nei confini
interni (i checkpoint) di questo territorio tanto complicato… Inoltre www.elpais.com
offrirà da questa sera un documentario realizzato dall’equipe de “El
País Video” in cui si raccolgono le esperienze del Nobel. Egli ha detto
che uno scrittore non ha altro potere che la sua parola, e se questa gli
serve per far conoscere quello che succede nei posti che ha visitato,
onora il suo impegno morale.
Il
giornalista e scrittore peruviano Alonso Cueto (a cui Vargas ha
dedicato il suo ultimo romanzo, “Cinque angoli”) diceva ieri a proposito
del giornalismo del Nobel: “Fa giornalismo in modo appassionato, come i
suoi romanzi: continua a pensare che le parole sono azioni, e scrivere
per lui è un’attestazione etica. E va in luoghi pericolosi, come l’Iraq,
come l’Afghanistan, come questi territori in cui ha viaggiato ora,
perché le persone che vivono vicino al pericolo rappresentano l’umanità
in senso morale.” Granés aggiunge: “Va in luoghi di conflitti dalla cui
soluzione dipende in buona misura il futuro del mondo.”
Questo era ciò di cui lo ringraziava Gideon Levy, che fosse lì a raccontarlo.
I giusti di Israele
Molti
israeliani dedicano i propri sforzi a denunciare le ingiustizie
sofferte dai palestinesi, senza preoccuparsi delle minacce, degli
insulti o delle accuse di tradimento
Mario Vargas Llosa – 26 giugno 2016
Yehuda
Shaul ha 33 anni ma ne dimostra 50. Ha vissuto e vive con tale
intensità che divora gli anni, come fanno i maratoneti con i kilometri.
E’ nato a Gerusalemme, in una famiglia molto religiosa ed è uno di 10
fratelli. Quando l’ho conosciuto, 11 anni fa, portava ancora la kippah
[il copricapo tipico degli ebrei osservanti. Ndtr.]. Era un giovane
patriota, che deve essere stato molto bravo nell’esercito quando faceva
il servizio militare perché, dopo i tre anni obbligatori, Tsahal
[l’esercito israeliano. Ndtr] gli ha proposto di continuare un corso per
reparti speciali ed è rimasto un anno in più a fare il militare, come
sergente. Al ritorno alla vita civile, come molti altri giovani
israeliani, ha viaggiato in India, per schiarirsi le idee. Lì ha
riflettuto e ha pensato che i suoi compatrioti ignorassero le cose
orribili che l’esercito commetteva nei territori occupati e di avere
l’obbligo morale di farglielo sapere.
Per questo Yehuda e un fotografo, Miki Kratsman, il 1 marzo 2004 hanno fondato Breaking the Silence (Rompendo il silenzio),
un’organizzazione che si dedica a raccogliere testimonianze di soldati
congedati e in servizio (la cui identità rimane segreta). In incontri e
pubblicazioni destinate a informare il pubblico, in Israele e
all’estero, presentano la verità su quanto avviene in tutti i territori
palestinesi che sono stati occupati dopo la guerra del 1967. (L’anno
prossimo saranno passati 50 anni di occupazione). Prima di essere resi
pubblici, i testi ed i video vengono controllati dalla censura militare,
perché Yehuda e i suoi circa 50 collaboratori non vogliono violare la
legge. Le testimonianze raccolte superano il migliaio.
Fino a relativamente poco tempo fa, grazie alla democrazia che regnava nel Paese per i cittadini israeliani, Breaking the Silence poteva operare senza problemi, anche
se molto criticata dai settori nazionalisti e religiosi. Però da quando
è entrato in carica l’attuale governo – il più reazionario ed
estremista della storia di Israele – si è scatenata una durissima
campagna contro i dirigenti dell’associazione, accusandoli di essere dei
traditori e chiedendo che siano messi fuorilegge, in Parlamento, da
parte di ministri e leader politici e sui giornali. Sulle reti sociali
abbondano gli insulti e le minacce contro i suoi fondatori. Yehuda
Shaul non si lascia intimidire e non pensa di fare alcuna concessione.
Dice di essere un patriota e un sionista e di essersi impegnato in
quello che fa non per ragioni politiche ma morali.
Nella
millenaria storia ebraica c’è una tradizione che non si è mai
interrotta: quella dei giusti. Quegli uomini e quelle donne che, di
tanto in tanto, emergono nei momenti di transizione o di crisi e fanno
sentire la propria voce, controcorrente, indifferenti all’impopolarità e
ai pericoli che corrono agendo in quel modo, per esporre una verità o
difendere una causa che la maggioranza, accecata dalla propaganda, la
passione o l’ignoranza, si rifiuta di accettare. Yehuda Shaul è uno di
loro, ai giorni nostri. E, per fortuna, non è l’unico.
C’è
ancora, imperterrita, la giornalista Amira Hass, che se n’è andata a
vivere a Gaza per soffrire sulla sua carne le miserie dei palestinesi e
documentarle giorno dopo giorno nelle sue cronache su “Haaretz”
[attualmente Amira Hass vive a Ramallah, in Cisgiordania. Ndtr.] . Devo
a lei aver passato, qualche anno fa, nell’asfissiante e sovraffollata
trappola per topi che è la Striscia, una notte indimenticabile in casa
di una coppia di palestinesi che si dedica al lavoro sociale. E il suo
collega Gideon Levy, instancabile scrittore, che incontro, dopo
parecchio tempo, sempre a lottare per la giustizia con la penna in mano,
anche se con l’animo meno forte di una volta perché attorno a lui si
riduce ogni giorno di più il numero dei difensori della razionalità,
della convivenza e della pace e crescono senza tregua i fanatici delle
verità uniche e del Grande Israele che avrebbe niente meno che
l’appoggio di Dio.
Però
in questo viaggio ne ho conosciuti altri, non meno limpidi e
coraggiosi. Come Hanna Barag che, alle cinque del mattino, all’incrocio
di Qalandia, pieno di cancellate, videocamere e soldati, mi ha mostrato
l’agonia dei lavoratori palestinesi che, pur avendo il permesso ed il
lavoro a Gerusalemme, devono aspettare ore ed ore prima di poter andare a
guadagnarsi da vivere. Hanna e un gruppo di donne israeliane si
piazzano tutte le mattine all’alba di fronte a queste recinzioni, per
denunciare i ritardi ingiustificati e protestare contro gli abusi che vi
si commettono. “Cerchiamo di arrivare fino agli alti gradi,” mi dice,
indicando i soldati, “perché questi non ci stanno neanche a sentire.” E’
un’anziana minuta e piena di rughe, ma nei suoi occhi chiari brillano
una luce e una dignità accecanti.
Ed
è un giusto, benché neppure lo sospetti, anche il giovane Max
Schindler, che ho conosciuto a Susiya, un villaggio miserabile nelle
montagne a sud di Hebron; è molto timido e devo tirargli fuori a forza
cosa ci fa lì, circondato da bambini affamati, in questo luogo fuori dal
mondo a cui i coloni delle vicinanze vengono a tagliare gli alberi e a
distruggere i raccolti, e a volte a picchiare gli abitanti, e sulle cui
misere case pesa un ordine di demolizione. E’ un volontario che è venuto
a vivere – o meglio a sopravvivere – a Susiya per qualche mese e dedica
il proprio tempo a insegnare l’inglese agli abitanti del paese. “Vorrei
che sapessero che c’è un altro Israele,” mi dice, indicando gli
abitanti.
Sì,
ci sono i giusti, molti, anche se non sono tanti da vincere le
elezioni. La verità è che, da anni, le perdono, una dietro l’altra. Ma
non si lasciano abbattere da queste sconfitte. Sono medici ed avvocati
che vanno a lavorare nei villaggi semi-abbandonati e a difendere le
vittime dei soprusi nei tribunali, o giornalisti, o attivisti dei
diritti umani che registrano le violenze ed i crimini e li espongono
all’opinione pubblica.
Per
esempio c’è un’associazione di fotografi, formata da ragazze e ragazzi
molto giovani, che fissano in immagini tutti gli orrori
dell’occupazione. Mi seguono ovunque vado e non gli importa di camminare
in mezzo alla spazzatura puzzolente e di scottarsi per il calore nel
deserto, se possono documentare con immagini tutto quello che l’Israele
ufficiale nasconde e i benpensanti non vogliono sapere. Ma, benché i
giornali ufficiali non pubblichino le loro foto, loro le espongono in
piccole gallerie, in pannelli nelle strade, in pubblicazioni
semiclandestine. Quanti sono? Migliaia, ma non abbastanza da cambiare
questo movimento dell’opinione pubblica che sta spingendo sempre più
Israele verso l’intransigenza, come se essere la prima potenza del Medio
Oriente – e, a quanto pare, la sesta del mondo – fosse la miglior
garanzia per la sua sicurezza.
Sanno
che non è così, che, al contrario, trasformarsi in un Paese coloniale,
che non ascolta, che non vuole negoziare né fare concessioni, che crede
solo alla forza, ha fatto sì che Israele perda l’ aura prestigiosa e
onorevole che aveva e che il numero dei suoi avversari e dei suoi
critici, invece di diminuire, aumenti ogni giorno.
Due
giorni prima di partire, ho cenato con altri due giusti: Amos Oz e
David Grossman. Sono scrittori magnifici, vecchi amici ed entrambi
infaticabili difensori del dialogo e della pace con i palestinesi. I
tempi che affrontano sono difficili, ma non si lasciano abbattere.
Scherzano, discutono, raccontano aneddoti. Dicono che, tirando le somme,
nessuno potrebbe vivere fuori da Israele. Gideon Levy e Yehuda Shaul,
che sono anche loro lì, si dichiarano d’accordo. Finalmente, per
fortuna, è la prima volta, in tutti i giorni in cui sono stato qui, che
un gruppo di israeliani concorda totalmente su qualcosa.
I villaggi condannati
Il
premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa in una serie di
reportage riflette sull’occupazione israeliana. In questo primo articolo
si concentra su alcuni villaggi del sud della Cisgiordania
Mario Vargas Llosa – 1 luglio 2016
“Il
principale problema di Israele è uno solo, le colonie in Cisgiordania,
cioè l’occupazione dei territori palestinesi”, mi dice Yehuda Shaul.
“L’anno prossimo sarà passato mezzo secolo. Però c’è una soluzione e la
vedrò messa in pratica prima di morire.”
Rispondo
al mio amico israeliano che bisogna essere molto ottimisti per credere
che un giorno più o meno vicino i 370.000 coloni che si trovano nella
terra invasa della Cisgiordania – veri bantustan
che circondano i 2.700.000 abitanti delle città palestinesi e le
separano le une dalle altre – possano andarsene da lì in nome della pace
e della coesistenza pacifica. Però Yehuda, che lavora instancabilmente
per far conoscere quello che la grande maggioranza dei suoi concittadini
si rifiuta di vedere, la tragica situazione in cui vivono i palestinesi
della sponda occidentale del Giordano, mi dice che forse sarò meno
scettico dopo il viaggio che faremo insieme, domani, verso i villaggi
palestinesi delle montagne a sud di Hebron.
Ci
siamo già stati sei anni fa, noi due, tra queste montagne sul confine
della Cisgiordania. Ed è vero, il villaggio di Susiya, che allora aveva
300 abitanti e sembrava destinato a scomparire come altri della zona,
ora ne ha 450, perché, nonostante le calamità di cui continua ad essere
vittima, un buon numero di famiglie che erano fuggite sono tornate;
anche loro, come Yehuda, godono di un ottimismo a prova di atrocità.
Perché
le persecuzioni di cui sono vittime Susiya e i villaggi vicini da molti
anni non sono terminate, al contrario. Mi mostrano la recente
demolizione delle case, i pozzi di acqua riempiti di pietre e
spazzatura, gli alberi tagliati dai coloni e persino i video delle
aggressioni di costoro – con armi e bastoni – contro gli abitanti che
hanno potuto riprendere, così come gli arresti ed i maltrattamenti che
ricevono dall’IDF (Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano.
Ndtr.]). Nella casa comunale, una delle poche abitazioni ancora in
piedi, chi fa le veci del sindaco, Nasser Nawaja, mi mostra gli ordini
di demolizione che, come spade di Damocle, pendono sulle costruzioni
ancora non distrutte dai bulldozer dell’occupante. Le formalità vanno
rispettate: questa zona è stata scelta per esercitazioni militari
dell’IDF ed i villaggi dovrebbero sparire (ma non le colonie né gli
avamposti dei coloni che sorgono dappertutto nei dintorni). A volte il
pretesto è che le fragili abitazioni sono illegali, perché non hanno il
permesso di costruzione. “E’ una cosa da pazzi – mi dice Nasser -;
quando chiediamo permessi edilizi per costruire o ripristinare i pozzi
d’acqua ce li rifiutano, e poi ci demoliscono le case perché sono state
costruite senza autorizzazione.” In questo villaggio, come negli altri
dei dintorni, i contadini e i pastori non vivono in case ma in fragili
tende costruite con teloni e lamiere o nelle grotte – ce ne sono molte
nella zona – che i soldati non hanno ancora reso inutilizzabili
riempiendole di pietre e spazzatura.
Nonostante
tutto, gli abitanti di Susiya e di Yimba, i due villaggi che ho
visitato, continuano a stare lì, resistendo alle persecuzioni,
appoggiati da alcune ONG e da organizzazioni israeliane di solidarietà,
come “Breaking the Silence” (“Rompere il silenzio”), di cui Yehuda è
membro e che mi ha invitato qui. A Susiya ho conosciuto un giovane molto
simpatico, Max Schindler, ebreo statunitense; è venuto come volontario a
vivere qualche mese in questo luogo ed insegna inglese ai bambini del
villaggio. Perché lo fa? “Perché vedano che non tutti gli ebrei sono
uguali.” In effetti, ce ne sono molti come lui – i giusti di Israele –
che li aiutano a presentare ricorsi ai tribunali, che vengono a
vaccinare i bambini, che protestano contro le sopraffazioni, e tra
questi, scrittori come David Grossman e Amos Oz, che firmano manifesti e
si mobilitano chiedendo di porre fine agli abusi e che si lascino
vivere in pace questi villaggi.
“850
coloni israeliani nel cuore di una città palestinese di 200.000
abitanti! Per proteggerli, 650 soldati israeliani fanno la guardia nella
Città Vecchia blindata.”
Una
dichiarazione di questo tipo, promossa da loro, qualche mese fa ha
salvato- per il momento – dalla distruzione Yimba, un villaggio
antichissimo, anche se sono state demolite 15 case. Ora sta aspettando
un’ultima decisione della Corte Suprema sulla sua esistenza. Ha
un’enorme grotta, ancora indenne, che, mi garantiscono, è dell’epoca
romana. Allora il villaggio si trovava ai bordi del sentiero – si può
ancora seguire il suo tracciato nell’aspro deserto di pietre, polvere e
stoppie che ci circonda – che portava i pellegrini alla Mecca; allora
Yimba era prospero grazie ai suoi negozi per i rifornimenti e i
ristoranti. Ora la sua antichità nasconde un rischio: che, siccome si
tratta di un luogo archeologico, le autorità israeliane decidano che
debba essere spopolato perché gli archeologi possano recuperare i tesori
storici del suo sottosuolo. Le lamentele sono le stesse che ho sentito a
Susiya: “Appena riescono a cacciarci con questo pretesto, arriveranno i
coloni; loro sì che possono convivere con i resti archeologici senza
alcun problema.”
Come
a Susiya, ho visitato Yimba circondato da bambini scalzi e scheletrici,
che tuttavia non hanno perso l’allegria. Una bambina, soprattutto, con
occhi birichini ride a crepapelle quando vede che non sono capace di
pronunciare il suo nome arabo come si deve.
Basta
esaminare una mappa dei territori occupati per capire la ragione delle
colonie: circondano tutte le grandi città palestinesi e bloccano i
contatti e gli scambi, allo stesso tempo stanno espandendo la presenza
israeliana e scomponendo e frazionando il territorio che si suppone
dovrebbe occupare il futuro Stato palestinese fino a renderlo
impossibile. C’è una chiara intenzione in questa strategia: con la
proliferazione delle colonie rendere irrealizzabile quella soluzione dei
due Stati che, tuttavia, i dirigenti di Israele dicono di accettare.
Sennò non si capisce perché tutti i governi, di centro, di sinistra e di
destra, con l’unica eccezione dell’ultimo governo di Ariel Sharon, che
nel 2005 ritirò le colonie israeliane da Gaza, abbiano permesso, e
continuino a farlo, l’esistenza e l’espansione sistematica di colonie
illegali – laiche, socialiste e molte di religiosi ultrà – che sono un
motivo permanente di frizione e danno la sensazione ai palestinesi di
vedere ridursi progressivamente il già ridotto spazio della Cisgiordania
che hanno a disposizione.
Non
ho la pretesa di leggere nella mente nascosta dell’elite politica
israeliana. Ma basta seguire nella mappa il modo in cui negli ultimi
decenni le occupazioni illegali ed il famoso “muro di Sharon” stanno
mutilando i territori palestinesi, per avvertire in questo una politica
tacita o esplicita che non ha mai cercato di affrontare queste
occupazioni e, semmai, le stimola e le protegge. Non è solo un motivo
costante di scontri con i palestinesi, è una realtà che fa pensare a
molti che ormai sia impossibile mettere in pratica la formazione di due
Stati sovrani, una cosa che, tuttavia, come una giaculatoria priva di
verità, nient’altro che chiasso, l’ONU e i governi occidentali ancora
promuovono.
Probabilmente,
tra le spoliazioni che queste colonie comunque comportano, nessun caso è
tanto drammatico come i cinque insediamenti eretti nel cuore di Hebron:
850 coloni israeliani nel cuore di una città palestinese di 200.000
abitanti! Per proteggerli, 650 soldati israeliani montano la guardia
nella Città Vecchia, che è stata blindata, le sue strade “sterilizzate”
(secondo la definizione ufficiale) – chiusi tutti i suoi negozi, le
porte d’ingresso delle case, tutte le attività commerciali – in modo che
camminare da quelle parti è percorrere una città fantasma, senza gente e
senz’anima. Undici anni fa sono andato a zonzo per queste strade morte;
l’unica cosa che è cambiata è che sono scomparsi gli insulti razzisti
contro gli arabi che ne decoravano i muri. Però dappertutto compaiono
sempre le barriere con i soldati e continua la proibizione agli arabi di
circolare in macchina nelle strade del centro, il che li obbliga a fare
lunghissimi giri attraverso i campi per passare da un quartiere
all’altro. Gli israeliani che mi accompagnano – sono quattro – mi dicono
che il peggio di tutto è che ora ormai nessuno parla più dell’orrore
rappresentato da Hebron e delle terribili ingiustizie che lì si
commettono contro 200.000 abitanti in apparenza per proteggere 850
invasori.
I bambini terribili
Il
premio Nobel per la Letteratura Mario Vargas Llosa in una serie di
reportage riflette sull’occupazione israeliana. In un secondo reportage
il Nobel descrive, attraverso quello che ha ascoltato in un tribunale
militare israeliano che giudica palestinesi dai 12 ai 17 anni di età che
attentano contro la sicurezza, come funziona un sistema per “prevenire
il terrorismo seminando il panico.”
Salwa
Duaibis e Gerard Horton sono due giuristi – lei palestinese, lui
anglo-australiano -, membri di un’istituzione umanitaria che controlla
il modo di agire dei tribunali militari incaricati di giudicare in
Israele giovani dai 12 ai 17 anni che attentano contro la sicurezza del
Paese. La mattinata che ho passato con loro a Gerusalemme è stata una
delle più istruttive tra quelle che ho trascorso.
Lo
sapevate che nel 2012 non è stato assassinato neanche un colono delle
colonie della Cisgiordania? E che la media dei crimini contro i membri
delle colonie negli ultimi cinque anni è solo di 4,8 all’anno, il che
significa che i territori occupati sono più sicuri per loro di quanto lo
siano New York, Città del Messico e Bogotà per i loro abitanti? Se si
tiene conto che in Cisgiordania i coloni sono circa 370.000 (se si
aggiungono quelli di Gerusalemme est sarebbero mezzo milione) e i
palestinesi 2.700.000, non c’è nessun dubbio: si tratta di uno dei posti
meno violenti del mondo, nonostante le sparatorie, le demolizioni, le
azioni terroristiche e gli scontri di cui parlano i giornali.
“Senza
dubbio un grande successo delle Forze di Difesa di Israele (IDF
[l’esercito israeliano. Ndtr.])” dice Gerard Horton. “Bisogna far loro i
complimenti per questo?” Una cosa del genere si ottiene solo con un
piano intelligente, freddo e messo in pratica in modo metodico. In cosa
consiste questo piano per quanto riguarda i bambini e gli adolescenti?
In un programma di intimidazione sistematica, astutamente concepito e
messo in atto in modo impeccabile. Si tratta di mantenere questa
popolazione giovane, dai 12 ai 17 anni, psicologicamente instabile. Per
lei ci sono tribunali speciali che i giuristi dell’organizzazione
tengono sotto controllo. Il metodo consiste nel “dimostrare la presenza”
dell’IDF in modo massiccio, la “cauterizzazione della coscienza” e
“operazioni simulate di disturbo della normalità.” Questo gergo
esoterico si può riassumere in una frase semplice: prevenire il
terrorismo seminando il panico. (Questo metodo è diverso da quello
applicato agli adulti e, soprattutto, ai sospetti terroristi: in questo
caso si includono assassinii selettivi, torture, lunghissime pene
detentive e demolizioni e confisca delle case).
L’esercito
ha un ufficiale dell’intelligence per ogni zona della Cisgiordania e
un’efficiente catena di informatori comprati con corruzione o ricatti,
grazie ai quali compila liste dei giovani che partecipano alle
manifestazioni contro l’occupazione e tirano pietre alle pattuglie
israeliane. Le operazioni si svolgono in genere di notte, con soldati
mascherati che si fanno precedere da un rumore assordante, lanciando a
volte granate stordenti durante le irruzioni nelle case, rompendo
oggetti, dando ordini e gridando, con l’obiettivo di spaventare la
famiglia, soprattutto i bambini. Le perquisizioni sono imprevedibili,
minuziose e complesse. Tappano gli occhi e mettono le manette al giovane
o al bambino denunciato; se lo portano via steso sul pavimento del
veicolo, mettendogli sopra i piedi o dandogli qualche calcio per
spaventarlo. Nel centro per gli interrogatori lo lasciano per terra per
cinque o dieci ore, per demoralizzarlo e spaventarlo con l’incerta
attesa al buio. L’interrogatorio segue regole precise: consigliargli che
si dichiari colpevole di tirare pietre, in modo che passerà solo due o
tre mesi in carcere; in caso contrario, il processo può essere lungo,
sette o otto mesi, e, se dichiarato colpevole, potrebbe anche essere
condannato ad una pena peggiore. Reso debole in questo modo, gli si può
proporre che faccia l’informatore. Se non è abbastanza disponibile, lo
si avverte che potrebbe essere violentato o torturato, qualcosa a cui
non è necessario arrivare, tranne in casi eccezionali. Per qualcuno,
basta avvertirlo che il suo comportamento potrebbe obbligare l’esercito
ad arrestare le persone a lui più care, la madre o una sorella, per
esempio. In qualche caso il giovane o il bambino accetta la proposta; e
quasi sempre esce da quell’esperienza piegato, confuso, sgomento e
vergognandosi di se stesso. Secondo quelli che hanno ideato il metodo,
questo stato d’animo riduce la sua pericolosità potenziale e lo fa
diventare vulnerabile. E non è impossibile che questo penoso stato
d’animo si trasmetta al resto della famiglia.
Per
questo non è tanto importante identificare i colpevoli del lancio di
pietre: l’obiettivo è introdurre nelle case e in tutti i villaggi,
attraverso i bambini e gli adolescenti, insicurezza e preoccupazioni
costanti. Oppresse dal timore di essere vittime di queste perquisizioni,
in piena notte, con distruzioni di stoviglie, letti e utensili, che si
portino via figli, fratelli o nipoti, le angosciate famiglie diventano
meno pericolose. I divieti insensati, i continui coprifuoco, le
improvvise ordinanze, che alterano la routine e aumentano lo spavento
quotidiano, perseguono questo stesso scopo. La confusione ed il
disordine impediscono, o per lo meno scoraggiano, le congiure. Grazie
alle modalità improvvise e scenografiche delle perquisizioni e a tutta
la messa in scena che le accompagna, la popolazione in genere rimane
psicologicamente priva di mezzi per organizzarsi ed agire; in questo
modo si riduce il rischio che rappresentino un serio pericolo per quelle
colonie tanto ben armate, e, soprattutto, strategicamente tanto ben
posizionate.
Gli
abitanti dei villaggi e delle città aggrediti e frammentati dagli
insediamenti ricevono divieti tassativi di mettere piede nel territorio
delle colonie, il che li obbliga a fare lunghi percorsi per comunicare
tra loro. I coloni, invece, sono collegati da moderne strade che in
genere possono utilizzare solo i cittadini israeliani. L’isolamento dei
villaggi e delle città palestinesi e la possibilità di comunicare
rapidamente delle colonie è un’altra garanzia di sicurezza. E’ vero che,
a volte, vengono commessi crimini orribili contro i coloni, però, se si
va a verificare una statistica inumana, le vittime sono meno numerose
di quelle che nel resto del mondo sono causate dagli incidenti stradali.
Israele dimostra così che nel XXI° secolo si può essere un Paese
colonialista ed al contempo molto sicuro.
Cosa
succede quando questi bambini e giovani sono infine consegnati ai
giudici? Per saperlo, accompagnato da Gerard Horton e Salwa Duaibis, ho
passato qualche ora in un carcere nei dintorni di Gerusalemme, dove sono
in attività i tribunali minorili presieduti da giudici militari.
Entrare nell’aula del tribunale è un impegno lungo: bisogna
sottomettersi a perquisizioni e percorrere corridoi recintati e con
telecamere che mi hanno ricordato quello che ha rappresentato entrare,
ed uscire, dalla Striscia di Gaza.
Ancora
più interessante dei processi è stato chiacchierare con le madri ed i
padri, o fratelli e sorelle, dei giovani palestinesi che erano
processati. Una signora del villaggio di Beit Fajjar mi racconta che suo
figlio, di 15 anni, ha passato sette mesi in carcere e che, la notte
che i soldati lo hanno arrestato, hanno rotto tutto quello che c’era in
casa. Ciononostante, i suoi occhi luccicano di allegria e sorride tutto
il tempo: suo figlio ha terminato la condanna e spera che tra un minuto o
un’ora (o due o tre) il giudice la chiami e le dica che se lo può
riportare a casa.
Nessun’altra
tra le persone che sono nell’aula dimostra la stessa gioia. Un uomo
alto e malaticcio mi racconta che ha due figli in prigione – uno di 15 e
l’altro di 17 anni – e che non è ancora riuscito a vederli. Ci mette
tre giorni ad arrivare dal suo villaggio e non è neanche sicuro che oggi
potrà parlare con loro. Lo accompagna una figlia, molto giovane e
timida, che è stata picchiata dai soldati la notte che sono entrati
rompendo a pedate la porta di casa sua, perché si era dimenticata di
fargli vedere il cellulare che aveva in tasca e con cui forse li stava
registrando.
I
processi sono rapidi. Il o la giudice, in uniforme militare, parlano in
ebraico e un ufficiale li traduce in arabo. Gli avvocati utilizzano
l’arabo e sono tradotti in ebraico. Gli accusati, giovani semirapati e
vestiti di nero, ascoltano in silenzio come si decide il loro destino.
Improvvisamente, una ragazza, sorella di uno dei detenuti, si mette a
piangere. Dal banco degli accusati, lui la implora con gli occhi e le
mani di tranquillizzarsi, il suo pianto potrebbe peggiorare le cose.
La morte lenta di Silwan
In questo articolo descrive come avanzano le colonie in un quartiere di Gerusalemme est
Mario Vargas Llosa – 2 luglio 2016
A
differenza di altri quartieri di Gerusalemme, assolutamente puliti come
quelli di una città svizzera o scandinava, gli abitanti palestinesi di
Silwan, situato a est e limitrofo alla Città Vecchia e alla moschea di
Al-Aqsa, rigurgita di spazzatura, pozzanghere puzzolenti e rifiuti. Temo
che tanta sporcizia non sia casuale, ma piuttosto parte di un piano a
lungo termine per cacciare progressivamente i 30.000 palestinesi che
vivono ancora qui e rimpiazzarli con israeliani.
I
coloni hanno iniziato ad infiltrarsi nel quartiere 11 anni fa dalla
zona di Batan Al-Hawa. Quello che fino ad allora sembrava poco meno che
casuale – gruppi di famiglie ultrareligiose che riuscivano a sistemarsi
in una casa scelta a caso – ha preso le caratteristiche di un’operazione
pianificata e con un chiaro obiettivo. I coloni che si sono installati
nel quartiere di Silwan appartengono a due movimenti religiosi: Elad e
Ateret Cohanim. Sono distribuiti in circa 75 case e non sono molti:
circa 550. Ma si tratta di una testa di ponte, che, senza ombra di
dubbio, continuerà a crescere. Il giorno successivo la mia visita al
quartiere, è stato annunciato che le autorità di Israele avevano
autorizzato la costruzione di un edificio nel quartiere per ospitare
nuovi coloni di Ateret Cohanim.
Per
sapere dove si trovano gli insediamenti basta guardare in alto: le
bandiere israeliane, sventolando nella lieve brezza mattutina, indicano
che hanno costituito un cerchio, come nel sud delle montagne di Hebron,
all’interno del quale tutto il quartiere sta rimanendo incarcerato.
I
modi con cui queste famiglie si impossessano di una casa sono diversi:
sostenendo di possedere documenti antichi secondo i quali i proprietari
erano ebrei; comprando un edificio attraverso un prestanome arabo; con
atti ostili e minacce contro chi lo occupa fino a farlo scappare;
presentando una denuncia nei tribunali perché decidano la demolizione di
una casa in quanto non costruita con i necessari permessi, o, in casi
estremi, approfittando di un viaggio o del fatto che i proprietari o gli
inquilini sono usciti di casa per installarvisi a forza. Una volta che i
coloni sono entrati, il governo israeliano manda la polizia o
l’esercito a proteggerli, perché, chi potrebbe metterlo in dubbio,
quelle gocce d’acqua degli invasori in mezzo a quel pelago di
palestinesi sono in pericolo. Le gocce si trasformeranno in ruscelli,
laghi, mari. I coloni religiosi che hanno messo radici qui non hanno
fretta: l’eternità sta dalla loro parte. Così si sono progressivamente
estese le enclave israeliane in Cisgiordania trasformandola in una
groviera; così stanno crescendo anche nella Gerusalemme araba.
Si
rispettano le forme, come nel resto della nazione: Israele è un Paese
molto civile. A Batan Al-Hawa ci sono 55 famiglie palestinesi minacciate
di espulsione, perché vivono in case che non hanno i documenti che ne
garantiscano la proprietà e 85 immobili con ordine di demolizione,
poiché, come al solito, sono state costruite senza ottenere i permessi
adeguati.
Quando
chiedo a Zuheir Rajabi, abitante e avvocato difensore palestinese del
quartiere, che mi guida in questo percorso, se ha fiducia
nell’onorabilità e nella neutralità dei giudici che devono pronunciarsi
in merito, mi guarda come se fossi ancora più imbecille della mia
domanda. “Abbiamo forse un’alternativa?”, mi risponde. E’ un uomo
sobrio, che è stato varie volte in carcere. Ha tre figli di sette, nove e
tredici anni che sono stati tutti e tre arrestati qualche volta. E una
figlia, Darìn, di sei anni, che cammina attaccata a una delle sue gambe.
La sua casa è circondata da due insediamenti ed ha ricevuto molte
proposte di acquisto, per somme superiori al suo prezzo reale. Ma lui
dice che non la venderà mai e che morirà nel quartiere; le minacce dei
suoi vicini non lo spaventano.
Gli
chiedo se i coloni installati a Silwan hanno figli. Sì, molti, ma
escono molto di rado e generalmente scortati da poliziotti, soldati o
dalla guardia privata che protegge gli insediamenti. Penso alla vita
reclusa e terribile di quelle creature, chiuse in quelle case rubate, e a
quella dei loro genitori e nonni, convinti che, perpetrando le
ingiustizie che commettono, mettano in pratica un progetto divino e si
guadagnino il paradiso. Naturalmente il fanatismo religioso non è
patrimonio esclusivo di una minoranza di ebrei. Sono fanatici anche quei
palestinesi di Hamas e della Jihad Islamica che si fanno a pezzi
facendo scoppiare bombe in autobus o ristoranti, lanciano colpi di
artiglieria sui kibbutz o cercano di accoltellare i soldati o pacifici
passanti, senza capire che quei crimini servono solo ad allargare il
solco, già molto grande, che separa e rende ostili le due comunità.
Improvvisamente,
nel nostro girovagare per Silwan, Zuheir Rajabi mi indica un edificio
di vari piani. E’ stato occupato tutto dai coloni, meno uno degli
appartamenti, in cui rimane contro ogni avversità una famiglia
palestinese di sette persone. Finora hanno resistito, nonostante il
fatto che gli interrompano l’acqua, l’elettricità, che debbano suonare
il campanello ai coloni per poter entrare ogni volta che escono in
strada e, persino, che, quando aprono la finestra, li bombardino di
spazzatura.
Mentre
chiacchieriamo, senza che me ne sia reso conto, siamo stati circondati
da ragazzini. Chiedo se qualcuno di loro è stato arrestato qualche
volta. Quello che alza la mano ha una faccia birichina e sfrontata: “Io,
quattro volte”. Ogni volta è stato solo un giorno e una notte; lo hanno
accusato di tirare pietre ai soldati ed egli ha negato e negato e alla
fine gli hanno creduto, per cui non lo hanno processato. Si chiama Samer
Sirhan e suo padre ha avuto uno scontro con un colono, che gli ha
sparato con la pistola e lo ha lasciato per la strada gravemente ferito.
Nessuno lo ha soccorso per tutto il resto della notte e al mattino è
morto, dissanguato.
Racconto
queste storie tristi perché credo diano un’idea del problema più
scottante che Israele deve affrontare: quello delle colonie, la
crescente occupazione dei territori palestinesi che lo ha trasformato in
un Paese coloniale, prepotente, e che ha fatto tanti danni all’immagine
positiva e persino esemplare che ha avuto per molto tempo nel mondo.
Rimangono
ancora molte cose di Israele da ammirare. Essersi trasformato, grazie
al lavoro faticoso dei suoi abitanti, in un paese del primo mondo, con
un livello di vita molto alto ed aver praticamente eliminato la povertà
nella società israeliana grazie a politiche intelligenti, progressiste e
moderne. E la maggior impresa che può vantare a proprio favore: aver
integrato decine e decine di migliaia di ebrei provenienti da culture e
costumi molti diversi, di lingue differenti, in una società in cui,
nonostante l’unità della lingua ebraica che ne è il comune denominatore,
coesistono fraternamente tutte, preservando la propria diversità
(ditelo, sennò, al milione di russi che sono arrivati negli ultimi anni
nel Paese).
Dalla
prima volta che sono venuto in Israele, a metà degli anni ’70 del
secolo scorso, ho sviluppato un grande affetto per questo Paese. Credo
però che sia l’unico posto nel mondo in cui mi sento un uomo di
sinistra, perché nella sinistra israeliana sopravvive l’idealismo e
l’amore alla libertà che sono scomparsi in essa in buona parte del
mondo. Con dolore ho visto come, negli ultimi anni, l’opinione pubblica
locale stesse diventando ogni volta più intollerante e reazionaria, il
che spiega che Israele abbia ora il governo più ultra nazionalista e
religioso della sua storia e che le sue politiche siano ogni giorno
sempre meno democratiche. Denunciarle e criticarle non è per me solo un
dovere morale; è, allo stesso tempo, un atto di amore.
Gerusalemme, giugno 2016.
(Traduzione di Amedeo Rossi)
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