Divieto di ingresso in Israele: come il bando contro chi boicotta le colonie mi sta portando nelle braccia del BDS
Il divieto di ingresso in Israele per chi boicotta le…
zeitun.info
Mira Sucharov – 7 marzo 2017,Haaretz
Il
divieto di ingresso in Israele per chi boicotta le colonie ha lasciato
me, come molti altri ebrei della diaspora contrari all’occupazione con
forti legami con lo Stato ebraico, disorientata, frustrata e senza
certezze.
Ora
che Israele ha approvato una legge che vieta l’ingresso persino a
quelli che chiedono un boicottaggio dei prodotti delle colonie, mi sto
chiedendo se, dopo tutto questo, schierarmi a favore del BDS
(boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) vero e proprio. Spingermi
nelle braccia del BDS non è probabilmente quello che i redattori della
legge avevano in mente, ma una norma mal concepita spesso ha conseguenze
inattese.
Nel
2012 ho scritto su Haaretz che “boicottare le colonie può permettere a
quelli come noi che si oppongono all’occupazione una nuova e ben
studiata espressione della nostra identità ebraica.” E’ un argomento che
ho ripetuto qui sei mesi dopo.
E
lo scorso autunno mi sono unita a oltre 300 altre persone firmando un
boicottaggio delle colonie promosso da “Partner per un Israele
progressista” [associazione statunitense legata al sionismo di sinistra.
Ndtr.]. Curiosamente l’opposizione più rumorosa che ho sentito a
proposito di questa petizione non è stata da parte dei sostenitori di
Israele, ma da quelli del BDS.
In
una lettera alla New York Review of Books [prestigiosa rivista
culturale statunitense di sinistra. Ndtr.], in cui la petizione
originale era stata pubblicata, cento attivisti BDS, compresi Alice
Walker [famosa filosofa e teorica gender di origine ebraica. Ndtr.] e
Roger Waters [leader del gruppo rock Pink Floyd. Ndtr.], hanno criticato
l’appello.
Hanno
scritto: “Sfidando il senso comune, la dichiarazione chiede il
boicottaggio delle colonie mentre non tocca Israele, lo Stato che ha
costruito e mantenuto illegalmente queste colonie per decenni.”
Ci
sono legittime ragioni politiche e di strategia politica a favore di un
boicottaggio solo delle colonie piuttosto che di un BDS totale. Ciò
riapre il dibattito sulla Linea Verde [il confine tra Israele e la
Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967. Ndtr.] e quindi ricorda
all’opinione pubblica l’importanza di una soluzione dei due Stati.
Solleva
l’illegittimità dell’occupazione. In breve, per alcuni il boicottaggio
delle colonie è stata la classica espressione del sionismo progressista,
il che ha portato Peter Beinart [noto giornalista progressista
statunitense. Ndtr.] a definire un boicottaggio delle colonie una forma
di “BDS sionista”, quando per primo ha delineato la sua visione di
questo tipo di iniziativa.
E
ci sono ragioni di principio corrette per opporsi a un BDS totale – in
parte a causa del fatto che potrebbe limitare l’importante lavoro da
persona a persona necessario per cambiare menti e cuori degli
israeliani, e in parte perché ci sono alcune componenti dell’appello al
BDS, in particolare il boicottaggio accademico, che pongono una sfida ad
altri principi cruciali, in particolare la libertà accademica.
Ma,
poiché la prospettiva di una soluzione dei due Stati si allontana
rapidamente e la promessa del sionismo progressista perde il suo smalto
ad ogni iniziativa per rafforzare ulteriormente l’occupazione, e se
quelli di noi che vogliono mantenere i propri legami con il tipo di
lavoro verso le persone, che ritenevamo fondamentale, non potranno più
avervi accesso perché saremo in ogni caso bloccati, l’appello per il BDS
sembra più giustificato.
E
se uno accoglie l’affermazione secondo cui il boicottaggio accademico
intende colpire le istituzioni e non gli individui (un’affermazione a
cui non credo totalmente, ma che potrebbe essere portata avanti, come io
stessa recentemente mi sono trovata a fare intervenendo in qualche modo
in questo dibattito), e se l’idea di uno Stato ebraico ora sembra
sempre più problematica alla luce della democrazia messa a dura prova in
Israele e delle misure che prende per escludere, e se l’idea di
chiedere un ritorno dei rifugiati [palestinesi] non sembra tanto
sconvolgente per le nostre sensibilità culturali quanto poteva essere
una volta, potrebbe essere tempo di un appello più convinto per la
giustizia, utilizzando tutti i mezzi non violenti a disposizione.
Quando
si tratta di BDS comprendo che ci ho girato faticosamente attorno e
l’ho tenuto accuratamente a distanza in parte per rimanere negli elenchi
(sufficientemente) buoni degli agenti della dogana israeliana
all’aeroporto Ben Gurion.
Continuare
ad entrare in Israele ha messo in ombra ogni mia azione di attivista.
Ci sono state petizioni che non ho firmato per paura di vedermi negare
l’ingresso. Ma ora che la Knesset non ha fatto nessuna distinzione tra
il boicottaggio mirato e il BDS integrale, forse non ci sono ragioni
perché ci asteniamo da entrambi.
Sto
immaginando cosa proverò se nella mia prossima visita mi verrà davvero
negato l’ingresso, mentre insisterò perché il mio interrogatorio si
svolga in ebraico – la mia lingua preferita al mondo. Probabilmente
proverò un misto di rabbia, frustrazione e vergogna. Proverò una grande
delusione per non poter visitare la gente -familiari e amici – e i
luoghi – urbani e rurali – che amo.
Probabilmente
rimpiangerò di non aver richiesto la cittadinanza durante uno dei tre
anni che ho vissuto nel Paese quando ero ventenne. Sentirò probabilmente
un senso di dissonanza cognitiva per il fatto che il Paese a cui sono
rimasta legata e con cui sono ancora così sdegnata per la sua precoce
cecità riguardo all’ingiustizia e per il suo continuo scivolare verso la
mancanza di libertà abbia ora utilizzato la stessa mentalità da assedio
che una volta ho studiato e su cui ho fatto ricerca spassionatamente –
per escludermi dai suoi muri da fortezza. In breve, mi sentirò
disorientata, scossa e senza certezze.
Ma
so che alla fine ho il mio Paese che mi garantisce libertà di
espressione, di movimento e dalla violenza di Stato. Ciò è
incommensurabilmente più di quanto abbiano i palestinesi che vivono
sotto occupazione.
Mira Sucharov è professore associato di scienze politiche all’università Carleton di Ottawa.
(traduzione di Amedeo Rossi)
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