Alessandro Treves : Prendere. Comprendere. Riprendere ( Umm al-Hiran)
In questi giorni in cui l’attenzione del
mondo intero è stata catturata dalla durezza dei primi passi
della nuova amministrazione Trump, è passata un po’ in sordina
la durezza con cui il governo israeliano ha agito contro la
popolazione dei beduini del Negev. I quali, bisognerebbe
osservare, sono cittadini israeliani, se il termine “cittadini”
non evocasse il tentativo di trasferirli a forza in
città-ghetto, al fondo della scala socioeconomica, per prender
loro la terra e costruirvi sopra insediamenti per soli ebrei, in
questo caso la nuova città ebraica di Hiran. “La distruzione
delle case delle famiglie beduine di Umm al-Hiran, questo mese,
è stato un atto disumano”. Ce lo ricorda, con un articolo su Ha’aretz
il 30 gennaio, nient’altri che Moshe Arens, colui che è stato il
mentore politico di Benjamin Netanyahu, che portò con sè appena
trentaduenne quando fu nominato ambasciatore a Washington, ed
ebbe suo vice sei anni dopo, come ministro degli Esteri, fra due
incarichi alla Difesa. Nel 1999 cercò di strappare la guida del
Likud allo stesso Netanyahu, nel frattempo diventato primo
ministro, il quale lo sconfisse facilmente ma non se ne ebbe a
male, tanto che gli affidò per la terza volta il ministero della
Difesa, poco prima di essere a sua volta battuto da Ehud Barak
alle elezioni. A 91 anni Moshe Arens non si è rammollito né è
diventato un uomo di sinistra, ma ha conservato la lucidità di
quando era professore di areonautica al Technion. “Il dolore e
la rabbia della comunità beduina del Negev sono evidenti. Li ha
espressi Ra’ad Abu al-Kiyan, rappresentante dei beduini di Umm
al-Hiran e parente di Yakub Abu al-Kiyan, l’insegnante colpito a
morte” durante la demolizione delle abitazioni, che ha lasciato
famiglie con bambini senza un tetto nel gelo dell’inverno.
Con l’espressione “insegnante colpito a
morte” Arens prende implicitamente le distanze dalla versione
della polizia, che ha cercato di costruire la tesi dell’attacco
terroristico. Versione smentita dal video ripreso da un drone
delle stesse forze dell’ordine, dove appare un poliziotto che
spara ad Yakub Abu al-Kiyan prima che questi, forse già morente,
perda il controllo del suo veicolo e vada a travolgere altri
poliziotti, causando la morte di uno di essi. Yakub Abu al-Kiyan
è stato poi lasciato sanguinare a morte per oltre venti minuti.
È stato detto di lui che aveva quattro mogli ed era un
simpatizzante di Hamas, mentre secondo il membro della Knesset
Ahmed Tibi, di moglie ne aveva solo una, ed era una moglie con
PhD. Prima che spuntasse il video del drone, la conduttrice
(ebrea) Khen Almaleh era stata licenziata da Galei Zahal, la
radio dell’esercito. Come spiegato dal ministro della Pubblica
Sicurezza Gilad Erdan, che ha promesso “tolleranza zero”, è
stata licenziata perché ”nel giorno dell’uccisione di un
poliziotto in un atto terroristico, lei ha dimostrato
comprensione per l’omicidio ed i suoi motivi”.
Comprensione è forse la parola chiave. C’è
lo svolgersi degli eventi come lo comprendono Khen Almaleh e
Moshe Arens, che ha parlato di “politica stupida verso i
beduini”; e c’è invece lo stesso svolgimento come lo comprendono
Gilad Erdan e Benjamin Netanyahu, che ha postato sul proprio
profilo Facebook un’immagine eloquente di bulldozer con
l’affermazione “continueremo ad applicare la legge in Israele”.
Immagine che si è ben guardato dal postare due settimane dopo,
quando dopo 11 anni di tentativi, la Corte Suprema ha ottenuto
dal governo lo sgombero dell’avamposto ebraico di Amona, eretto
su terreni sottratti ai proprietari palestinesi nella West Bank,
accanto all’insediamento di Ofra. Nell’era della post-verità, la
comprensione della realtà di Erdan e di Netanyahu è molto più
vicina al sentire di gran parte della popolazione (ebraica)
d’Israele. Se la terra può esser presa, è perché l’emozione
popolare è stata ben compresa. Per rendersene conto basta
leggere i commenti raccolti da Alon Idan in un articolo su Ha’aretz
del 22 gennaio, “Davvero meritano di morire perché sono di
Gaza?”. L’antefatto era la protesta di un gruppo di donne di
Gaza, malate di cancro, cui era stato negato il permesso di
recarsi in Israele, o a Gerusalemme Est, o nella West Bank, per
curarsi. I commenti dei lettori andavano da quello in freddo
stile svizzero “i nostri ospedali sono già troppo affollati; non
abbiamo bisogno di avere anche queste donne” al più obbediente
“mi fido delle valutazioni e delle decisioni dei nostri servizi
segreti”, dalla chiusura contabile di “scusa, ricordami un
attimo: forse che siamo in debito con questa gente?” al sarcasmo
“ma dài, che commoventi!”.
Non è che le donne in quanto tali non siano
più capaci di evocare compassione: allo sgombero dei coloni da
Amona, il membro della Knesset Bezalel Smotrich ne ha parlato
come del “brutale stupro di una donna”, mentre il suo capo di
partito Bennett ha dichiarato che questo temporaneo arretramento
darà l’impeto per l’annessione di Giudea e Samaria, come
immaginando che siano questi due territori le donne che, dopo lo
stupro, torneranno a casa dal loro legittimo consorte, Israele.
Il ministro Erdan li ha blandamente invitati ad evitare
affermazioni che potrebbero esarcebare le difficoltà e la pena
che anche lui come tutti prova per lo sgombero. Nel caso della
demolizione delle case beduine aveva invece accusato altri
parlamentari, quelli che erano andati ad esprimere la loro
solidarietà, di “incitamento alla violenza”, ed aveva chiesto
l’apertura di una procedura giudiziaria contro Ayman Oudeh, il
leader della Lista Araba Unita apparso sui giornali con la
fronte sanguinante dopo esser stato colpito, secondo quanto ha
detto lui stesso, da un proiettile di gomma sparato dalla
polizia.
In questo quadro deprimente c’è una sorta
di eroe positivo, un vero campione di etica ebraica che
diversamente dai politici al governo cerca di aiutarci a capire
prima di giudicare, che non fa leva sui vincoli tribali e si
rivolge invece con equanimità verso tutti gli esseri umani
coinvolti. Anzi, non c’è uno, ce ne sono molti. Di notevole
valore. Sono i droni della polizia che riprendono le scene
dall’alto.
Alessandro Treves
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