Non lasciar perdere la Linea Verde: questo è il tallone d'Achille di Israele
Al Shabaka di Nadia Hijab - 15 febbraio 2017 Il poeta Dylan Thomas invitava suo padre - e tutti quelli che si avvicinano alla morte: "Non entrate…
Zeitun
 aio 2017
Il
 poeta Dylan Thomas invitava suo padre – e tutti quelli che si 
avvicinano alla morte: “Non entrate tranquillamente in quella dolce 
notte” ma “rabbia, rabbia contro il morire della luce”. La morte della 
soluzione dei due Stati è stata preannunciata per circa 20 anni, dopo 
che è risultato chiaro che Israele ha firmato il processo di pace di 
Oslo nel 1993 senza l’intenzione di permettere che si costituisse uno 
Stato palestinese sovrano.
Eppure
 la luce si è rifiutata di morire. E’ stato interesse di ogni Paese, 
compresi Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della 
Palestina/Palestina (OLP/Palestina), mantenere qualche scintilla di vita
 nella possibilità dei due Stati nonostante l’incessante colonizzazione 
israeliana dei Territori Palestinesi Occupati (TPO) che ha finora 
insediato qui circa 200 colonie e 600.000 coloni, azioni che in base 
alle leggi internazionali rappresentano crimini di guerra.
Per
 i palestinesi che vivono nella zona grigia dell’occupazione le libertà 
fondamentali di vita, libertà, movimento, salute e accesso all’acqua, 
tra le altre, sono quotidianamente negate. 
Rifugiati
 ed esiliati palestinesi sono sostanzialmente lasciati al loro destino, e
 i cittadini palestinesi di Israele devono fare i conti come possono con
 la discriminazione e la spoliazione da parte dello Stato israeliano. 
Oltretutto, lo stallo dell’entità politica palestinese impedisce 
un’azione politica collettiva efficace dei palestinesi.
Tuttavia,
 se i palestinesi sono troppo impotenti, per il momento, per poter 
uscire da questa zona grigia, la destra israeliana e il movimento dei 
coloni pensa di non esserlo. Nel
 corso dei decenni ha incrementato la propria forza e si è infiltrata 
nell’esercito, nel sistema politico e giudiziario, e il suo 
considerevole potere è stato totalmente sostenuto e finanziato dallo 
Stato israeliano. Né gli USA né l’Unione Europea hanno fatto pagare il 
prezzo della colonizzazione della Cisgiordania, compresa Gerusalemme 
est. Al
 contrario gli USA, l’UE e i suoi Stati membri, e Paesi dell’Asia, 
dell’Africa e dell’Amercia latina, vogliono mantenere relazioni militari
 e commerciali con Israele.
Il
 movimento dei coloni non vuole più vivere nell’oscurità dello scenario 
dei due Stati: mira alla chiarezza di una annessione formale del resto 
dei TPO (Israele ha già annesso illegalmente Gerusalemme) o almeno 
dell’Area C [in base agli accordi di Oslo, il territorio palestinese 
sotto totale controllo provvisiorio di Israele. Ndtr.], che rappresenta 
circa il 60% della Cisgiordania. Per
 ora questo è l’obiettivo del leader della destra israeliana e ministro 
dell’Educazione Naftali Bennett, che ha trionfalmente annunciato che 
“l’era dello Stato palestinese è finita”, dopo che Donald Trump ha vinto
 le elezioni presidenziali americane.
La
 legge che il partito di Bennett “Casa Ebraica” ha fatto approvare alla 
Knesset [il parlamento israeliano. ndtr.] il 6 febbraio 2017 per 
“regolarizzare” gli avamposti illegali come Amona, costruiti su terreni 
di proprietà privata palestinese, ha l’intenzione di stabilire una volta
 per tutte chi detiene la proprietà della terra palestinese e chi ha il 
potere reale in Israele. La legge è stata descritta come un furto di 
terra persino in Israele, tra avvertimenti che la mossa potrebbe 
condurre il Paese davanti alla Corte Penale Internazionale. 
L’inorridita
 risposta della comunità internazionale alla legge di “regolarizzazione”
 è stata quasi comica. Il ministro degli Esteri tedesco ha detto che la 
sua fiducia nell’impegno del governo israeliano per la soluzione dei due
 Stati è stata “scossa nelle fondamenta”, mentre la Francia ha chiesto 
ad Israele di ritirare la legge e di onorare i suoi impegni. Dov’erano
 loro negli ultimi 50 anni, quando questi crimini di guerra erano in 
corso? Tutte le colonie che Israele ha costruito, sia su terreni incolti
 che sulle rovine di terre e case palestinesi, sono illegali in base 
alle leggi internazionali, come il crescente sfruttamento delle risorse 
naturali palestinesi.
Inoltre
 il continuo uso della forza da parte di Israele per mantenere 
l’occupazione impedisce al popolo palestinese di godere del proprio 
diritto all’autodeterminazione internazionalmente riconosciuto. Al 
momento le potenze mondiali stanno sperando che una sentenza della Corte
 Suprema israeliana contro la legge eviti loro di dover fare qualcosa 
per bloccare le pratiche neocoloniali di Israele.
Israele non può legalizzare le sue conquiste: ciò minaccerebbe l’ordine mondiale
Ciò
 che questo episodio ha dimostrato, più di ogni altra cosa, è che, 
nonostante tutte le sue manovre, Israele non è stato ancora in grado di 
cancellare completamente la Linea Verde [il confine tra Israele e 
Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967. Ndtr.] e di legalizzare 
l’acquisizione permanente dei TPO. Fino
 ad ora, la comunità internazionale non riconosce la sua annessione 
formale di Gerusalemme est o le sue pretese unilaterali su Gerusalemme 
ovest. Il mondo ribadisce che Gerusalemme ha uno status separato (corpus separatum) in base al piano di spartizione del 1947 e il suo status può essere concordato soltanto attraverso negoziati.
Anche
 se la comunità internazionale non ha chiamato Israele a risponderne in 
modo effettivo – per esempio, la tanto strombazzata etichettatura da 
parte dell’Unione Europea dei beni provenienti dalle colonie che entrano
 nel mercato UE ha avuto un impatto minimo – non firmerà il consenso sul
 progetto di colonizzazione israeliana e non gli concederà legittimità 
agli occhi del mondo.
In
 breve, Israele non può ripetere l’originaria vittoria del movimento 
sionista con la creazione di uno Stato in Palestina, includendo 
l’espansione delle frontiere di quello Stato ben oltre quelle stabilite 
nel piano di spartizione del 1947, su cui si era basata la sua 
esistenza. Siamo nel secolo sbagliato per questo progetto colonialista.
La
 Linea Verde – la linea dell’armistizio alla fine della lotta tra gli 
eserciti arabi e israeliano nel 1949 – è alla base del rifiuto della 
comunità internazionale di legalizzare l’occupazione israeliana perché 
separa quello che il mondo considera come lo Stato di Israele dal 
territorio che ha occupato nel 1967 e i suoi atti illegali al suo 
interno.
Cosa
 ancora più importante, lo status dei TPO non è solo qualcosa che 
riguarda il popolo palestinese: coinvolge qualunque altro Stato esposto a
 una perdita di territorio. E
 la minaccia posta dai cambiamenti unilaterali da parte israeliana alla 
stabilità dell’ordine internazionale preoccupa in particolare l’Europa, 
che ha subito due guerre mondiali.
Questa
 è la ragione per cui la risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza 
ONU, approvata il 23 dicembre 2016, non è importante solo per i 
palestinesi: è significativa per tutto l’ordine del Dopoguerra, perché 
riafferma l’illegalità delle colonie e l’applicazione delle leggi 
internazionali – comprese le leggi che regolano l’occupazione militare –
 per territori che sono soggetti a un’ occupazione.  E
 questa è la ragione per cui la risposta di Israele è stata così 
rabbiosa: la sua possibilità di cancellare la Linea Verde ha subito un 
duro colpo.
Benché
 l’ipocrisia della comunità internazionale sia chiara nel trattamento 
molto diverso tra l’occupazione israeliana della Palestina e 
l’occupazione russa della Crimea, entrambi sono fondati sulle stesse 
leggi internazionali. Forse
 l’affermazione più importante espressa dalla nuova amministrazione USA è
 stata quella che ha fatto l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikky Hayley, al
 Consiglio di Sicurezza riguardo al riacutizzarsi della violenza in 
Ucraina all’inizio di questo mese. Ha chiesto la fine immediata 
dell’occupazione russa della Crimea ed ha dichiarato che gli USA non 
toglieranno le sanzioni sulla Russia finché la Crimea non sarà 
restituita all’Ucraina. Date
 le parole calorose di Trump nei confronti della Russia, la 
dichiarazione è stata una sorpresa, ma senza dubbio gradita dagli 
europei.
A questo punto lasciar perdere la Linea Verde sarebbe un grave, forse mortale, errore. Il
 carattere illegale delle attività di Israele nei TPO ribadisce la 
possibilità dei palestinesi di perseguire Israele ed i dirigenti 
israeliani nelle corti internazionali e nazionali. E’ anche un elemento 
importante per potenziare gli sforzi del movimento per il Boicottaggio, 
il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), fondato e diretto dalla società 
civile palestinese.
Al
 momento i tentativi a livello statale hanno avuto solo modesti successi
 perché Israele si è posizionato in modo da essere importante per la 
comunità internazionale nel commercio, nello sviluppo degli armamenti e 
dal punto di vista geopolitico. Il
 palesamento delle vere intenzioni dei dirigenti israeliani riguardo 
all’acquisizione permanente dei TPO con la forza rende questo il momento
 opportuno per una spinta congiunta da parte dell’OLP/Palestina per, 
quanto meno, il bando completo dei prodotti delle colonie e la fine 
degli accordi con lo Stato israeliano e con le imprese del settore 
privato, come le banche, che finanziano le colonie.
La Linea Verde non riguarda lo Stato unico piuttosto che i due Stati
La Linea Verde è vista come il confine sul quale si dovrebbe fondare la soluzione dei due Stati. Tuttavia
 sostenere che i palestinesi non dovrebbero lasciar perdere la Linea 
Verde non è un’affermazione di appoggio al risultato politico della 
soluzione dei due Stati. E’
 piuttosto un argomento per utilizzare ogni possibile ed efficace fonte 
di potere a disposizione senza abbandonare i diritti inalienabili dei 
palestinesi.
E’
 importante perorarne la causa in questo momento perché sempre più voci 
tra i palestinesi e nel movimento di solidarietà con la Palestina stanno
 invocando uno spostamento dell’obiettivo politico palestinese dalla 
soluzione dei due Stati allo Stato unico o verso una lotta per i diritti
 civili. Queste
 voci probabilmente aumenteranno ancora di più in vista 
dell’anniversario dei 50 anni di occupazione il prossimo giugno, con i 
palestinesi sia in Israele che nei TPO che affrontano alcune della più 
drastiche minacce israeliane alla loro esistenza sulla loro terra da 
quando l’occupazione è iniziata.
E’
 naturale che un popolo alla ricerca di diritti nazionali ed umani e i 
suoi alleati dovrebbero pretendere chiarezza in merito e unità 
sull’obiettivo politico finale. Oltretutto
 la crescente divisione tra, da una parte, coloro i quali sostengono uno
 Stato unico o una lotta per i diritti civili, di cui sono attivisti 
palestinesi ed i loro sostenitori della base, e dall’altra parte quelli 
che sposano i due Stati, molti dei quali sono funzionari palestinesi e 
uomini d’affari (così come sionisti progressisti), è stata dannosa per 
la capacità palestinese di coalizzarsi attorno ad un’azione comune.
Sfortunatamente,
 in questa fase non è possibile raggiungere una definizione chiara dell’
 apparato politico palestinese sull’obiettivo finale. E’ stato possibile
 riguardo allo Stato unico dal 1969 al 1974, quando il programma 
dell’OLP era basato su uno Stato democratico laico. E’ stato possibile 
anche riguardo ai due Stati negli anni tra la dichiarazione di 
indipendenza palestinese del 1988 e il successivo riconoscimento di 
Israele fino alla fine degli anni ’90 e il fallimento del processo di 
Oslo.
Oggi
 i palestinesi non hanno la forza di raggiungere un obiettivo politico 
finale per il prossimo futuro. Ciò non dovrebbe e non deve impedire di 
lavorare per ottenere risultati intermedi, senza compromettere diritti 
fondamentali. Questa è, in effetti, la posizione presa dal movimento BDS
 : si basa sui diritti e non sulla “soluzione”. Non
 sposando uno scopo politico finale, il movimento può arrivare al più 
largo numero di palestinesi e attori della solidarietà, consentendo ad 
ognuno di agire a modo suo per contrastare le violazioni dei diritti da 
parte di Israele. Possono, in effetti, concentrarsi sull’occupazione e/o sui diritti dei cittadini palestinesi di Israele e/o sui diritti dei rifugiati palestinesi.
Sulla
 questione dell’obiettivo finale si spreca una grande quantità di 
energie che sarebbero meglio utilizzare per sviluppare strategie 
specifiche per far pagare ad Israele il costo dell’occupazione e della 
violazione dei diritti. Queste
 energie possono essere usate sia per un approccio basato sui diritti 
per comunicare con la società civile, o per un approccio basato sulla 
soluzione per raggiungere i governi e il mondo degli affari. Né
 è necessario negare un risultato politico finale dei due Stati di 
Israele e Palestina, in cui tutti i cittadini godano dei diritti umani, o
 di uno Stato unico palestinese-israeliano in cui tutti godano 
dell’intera gamma di diritti. 
Quindi
 non ha senso abbandonare nessuna delle linee di forza a disposizione 
per bloccare e ribaltare le azioni illegali di Israele e promuovere i 
diritti dei palestinesi, compresa, forse sopratutto, la Linea Verde. Le
 questioni più immediate sono come prevenire le imminenti trappole dei 
negoziati guidati dall’amministrazione Trump, approfittando al contempo 
dell’obiettivo dello stesso Israele che rivela le sue vere intenzioni 
verso i TPO in modo che diventi impossibile per chiunque far finta di 
niente. 
Fare i conti con i negoziatori
La
 mossa della destra israeliana per legalizzare i suoi avamposti ha 
evidenziato la realtà che, nonostante il suo preponderante potere, non 
ha a disposizione una via unilaterale per un riconoscimento 
internazionale del suo status nei territori. Solo l’OLP/Palestina come 
rappresentante del popolo palestinese può accettare un cambiamento dello
 status che permetta ad Israele di prendere una parte del suo “bottino” –
 e dovrebbe essere scontato che non lo deve fare; la società civile 
palestinese deve fare ogni sforzo per assicurarsi che non lo faccia. Il prossimo futuro è ricco di pericoli e sfide che richiederanno strategie ed azioni palestinesi chiare e condivise.
Uno
 dei maggiori pericoli è il desiderio di Trump di fare un accordo tra 
Palestina e Israele. Probabilmente Israele accentuerà le pressioni 
economiche e militari che esercita sui palestinesi sotto occupazione, 
che sono già notevolmente oppressi. Inoltre
 l’approccio dell’amministrazione è già pesantemente a loro sfavore data
 la nomina del sostenitore dei coloni per antonomasia, David Friedman, 
come ambasciatore USA. La sfida ora è riflettere a fondo su come 
l’OLP/Palestina possa resistere a questa pressione, con l’appoggio dei 
(e la pressione dai) cittadini palestinesi di Israele e internazionale, e
 quali strategie possa adottare per non apparire “quella del rifiuto a 
negoziare”, non soccombere sotto la pressione (anche dai Paesi arabi), e
 possa esercitare una pressione opposta. Anche all’interno si devono 
identificare modi per ridurre gradualmente il coordinamento per la 
sicurezza con Israele, che non potrebbe essere giustificato nei momenti 
migliori, ma ora non può più essere assolutamente perdonato.
Un’
 altra minaccia ha a che fare con le tensioni che possono sorgere tra la
 società civile palestinese e il movimento di solidarietà con la 
Palestina negli USA, che è uno dei maggiori punti di forza per il popolo
 palestinese, se e quando l’OLP/Palestina intraprenderà negoziati 
sponsorizzati dall’amministrazione Trump. Il
 movimento di solidarietà con la Palestina e i suoi alleati naturali – 
comprese le comunità nere, latine e dei nativi americani – non può 
ipotizzare una situazione che “normalizzi” accordi con l’amministrazione
 Trump e le sue componenti nazionaliste bianche e razziste. Inoltre sta 
per diventare difficile mantenere viva l’attenzione sulla Palestina con 
così tanti problemi in concorrenza tra loro che si troveranno ad 
affrontare i cittadini americani – compresi l’accesso alle cure mediche,
 l’ambiente, l’educazione e i diritti dei lavoratori.
Comunque
 la situazione può cambiare entro due anni. La mobilitazione di vasti 
settori della società civile americana sui diritti dei migranti, sulle 
cure mediche e sull’educazione, e contro il razzismo e le 
discriminazioni potrebbero cambiare drasticamente la composizione del 
Congresso alle elezioni di medio termine, con un passaggio dal partito 
Repubblicano a quello Democratico. E
 le forze progressiste, così come i sostenitori della causa palestinese –
 compreso l’appoggio a sanzioni contro Israele – stanno crescendo 
all’interno del partito Democratico.
Anche l’Europa, l’altra area importante, è preoccupata. L’UE
 è alle prese con l’uscita della Gran Bretagna, le minacce dell’elezione
 di dirigenti di estrema destra in Paesi chiave e l’imprevedibilità 
della nuova amministrazione USA. Ma
 gli europei temono anche l’indebolimento dell’ordine mondiale, e le 
azioni di Israele potrebbero fornire opportunità alla società civile per
 fare pressione sui rispettivi governi perché esercitino le loro 
responsabilità e smettano di accordarsi con enti israeliani che svolgono
 attività oltre la Linea Verde, o prendano in considerazione il tipo di 
sanzioni applicate contro la Russia dopo la sua occupazione della 
Crimea.
L’OLP/Palestina
 si è mossa su fronti che possono e sono stati portati avanti con 
maggiore efficacia, come l’adesione della Palestina alla Corte Penale 
Internazionale (CPI) e il suo impegno con il Consiglio dei Diritti Umani
 [commissione dell’ONU. Ndtr.], compresa la decisione del Consiglio di 
creare un database
 di tutte le imprese impegnate in attività illegali nei TPO. L’ingresso 
in questi organismi può anche essere utilizzato dalle organizzazioni 
palestinesi dei diritti umani che sono direttamente impegnate con la CPI
 e il Consiglio dei Diritti Umani, tra le altre organizzazioni 
internazionali, in coordinazione con o tramite attività di pressione 
dell’OLP/Palestina.
E
 l’approvazione della Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza 
dell’ONU, nonostante tutti i suoi difetti, compreso il sostegno al 
coordinamento per la sicurezza con Israele, può ancora essere 
considerata come una vittoria dell’OLP/Palestina. Benché non siano 
mancate risoluzioni simili, la loro riconferma oggi è stato un 
ammonimento a Israele che dovrà affrontare una grande lotta nei suoi 
tentativi di formalizzare la sua acquisizione illegale del territorio 
con la forza. Oltretutto
 la risoluzione 2334 si è spinta oltre i precedenti testi dell’ONU 
chiedendo “a tutti gli Stati” di “fare distinzioni nei loro accordi” tra
 il territorio israeliano e i territori occupati nel 1967.
Questa
 è la ragione per cui Israele sta contrastando duramente la risoluzione 
2334, anche a livello dei singoli Stati negli USA. Alcuni Stati USA 
stanno già cercando di reagire contro i successi del movimento BDS 
boicottando imprese che rifiutano di fare affari nelle colonie – circa 
20 Stati hanno leggi a questo scopo. Ora ci sono Stati che stanno specificamente citando la risoluzione 2334 come parte del loro contrattacco. Per
 esempio lo Stato dell’Illinois ha messo in guardia l’UE contro 
l’incoraggiamento a imprese perché seguano la stessa strada, sostenendo 
che “l’adozione di sanzioni ai sensi della ” Risoluzione 2334 (che di 
fatto non menziona la minaccia di sanzioni) potrebbe “portare imprese 
dell’UE al rischio di violare le leggi dell’Illinois.”
La
 mancanza di progressi decisivi verso la realizzazione di diritti per i 
prossimi anni lascia di fronte a tempi cupi i palestinesi che vivono 
sotto occupazione e assedio da parte di Israele, i palestinesi cittadini
 di Israele ed i rifugiati palestinesi. Tuttavia
 ci sono ancora ragioni di speranza, compresa la resilienza della 
società civile palestinese e l’ingresso che l’OLP/Palestina ha ottenuto 
alla CPI, tra le altre aree. La brama della destra israeliana di 
prendere il potere in Israele e di completare l’annessione della 
Palestina determinerà altre opportunità di azione. Mentre la società 
civile americana si mobilita contro Trump, è tempo di resistere, 
difendere le conquiste, approfittare delle opportunità ed evitare le 
concessioni. Ed è tempo di difendere la Linea Verde. 
Nadia
 Hijab è direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete politica 
palestinese, di cui è stata cofondatrice nel 2009. E’ una assidua ospite
 e commentatrice sui media e ricercatrice presso l’Istituto di Studi 
Palestinesi [istituto di ricerca con sedi a Beirut, Ramallah, Parigi e 
Washington. Ndtr.]. Il suo primo libro, “Womanpower: The Arab Debate on Women at Work ”
 [Potere delle donne: il dibattito arabo su donne e lavoro], è stato 
pubblicato da Cambridge University Press, ed è coautrice di “ Citizens Apart: A Portrait of the Palestinian Citizens of Israel”  [Cittadini separati: un ritratto dei cittadini palestinesi di Israele] (I.B. Tauris).
(traduzione di Amedeo Rossi)

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