Ugo Tramballi :PERCHE' GERUSALEMME NON E' NIZZA
Ugo Tramballi
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Come tutti i populisti, spesso Bibi Netanyahu enfatizza e mistifica i pericoli che Israele corre dalla sua fondazione. Annunciando con certezza che il terrorista palestinese di domenica era dell’Isis, questa volta ha forse avuto ragione. E’ difficile che l’attentatore che ha ucciso quattro soldati sia il terminale di un’organizzazione: sembra piuttosto un lupo solitario. Ma tutto lascia credere che per la prima volta in Israele il califfato sia l’ispiratore, se non il mandante di un atto terroristico.
Se è come sembra – e come afferma il premier israeliano – è un duro colpo e una serie minaccia per lo stato ebraico: significa che anche i palestinesi, votati al raggiungimento dell’indipendenza nazionale attraverso la diplomazia, la resistenza armata o il terrorismo, sono così disperati da rassegnarsi alla scappatoia di un califfato medievale e al solo strumento del terrore per ottenerlo. Se dopo decenni di lotta per uno stato-nazione, i palestinesi incominciano ad essere attratti dal folle modello di comunità islamica transnazionale, il leader israeliano ha ragione a denunciare il pericolo. Dovrebbe anche chiedersi però quali siano le cause di tanta pericolosa rassegnazione. E perché, come scriveva ieri il giornale israeliano Ha’aretz, “un gruppo di soldati israeliani non è un’immagine neutrale per nessun palestinese”.
Il muro costruito per dividere Israele dai territori occupati (e per annettere qualche altro ettaro di territorio) è stato fondamentale per dare a Israele più sicurezza. L’altro pilastro è da anni la collaborazione dei servizi di sicurezza palestinesi in Cisgiordania: diversamente dal governo Netanyahu, i comandi militari e lo Shin Bet israeliani lo hanno sempre riconosciuto. Ma un lupo solitario come l’attentatore di domenica che non era affiliato ad alcun movimento politico o religioso, è difficile da individuare anche per chi conosce gli anfratti del tessuto sociale palestinese.
Per l’intero apparato israeliano della sicurezza le principali minacce erano e restano, l’Iran, Hezbollah libanese e Hamas palestinese in questo ordine d’importanza. Nonostante la regione e i suoi protagonisti attorno a Israele siano cambiati. Hanno dunque ragione i professionisti, gente che porta la divisa da decenni e ha combattuto più di una guerra per il paese, gli stessi esperti che erano contrari a bombardare l’Iran e convinti che un efficace strumento della sicurezza d’Israele sarebbe permettere la nascita di uno stato palestinese; o ha ragione Bibi Netanyahu che sintetizza la complessità della questione palestinese nel solo fenomeno terroristico che pure esiste? E’ giusta la similitudine sulla quale Netanyahu insiste fra il terrorismo a Gerusalemme e quello che ha colpito Nizza e Berlino? Il concetto è che il terrorismo è terrorismo, ed è immorale fare distinzioni. O è più giusto ciò che ancora scrive Ha’aretz: “Gerusalemme non è Nizza non solo perché non ha il mare. Nizza non ha il 40% dei suoi residenti (i cittadini arabi di Gerusalemme, n.d.r.) senza diritti civili, sotto occupazione e in condizioni di vita umilianti”? Le stesse idee sul rapporto di causa-effetto del terrorismo e dell’occupazione erano state espresse dal sindaco di Tel Aviv l’ultima volta che la sua magnifica città era stata aggredita da un terrorista palestinese.
Prima che nascesse lo stato d’Israele, 68 anni fa, anche nella comunità ebraica di Palestina, lo Yishuv, alcuni pensavano che il terrorismo fosse uno strumento legittimo per raggiungere uno scopo così alto. Lo stato con le sue istituzioni rese inutile quel terrorismo, e il sistema democratico permise che anni dopo Yitzhak Shamir, uno dei capi di quel terrorismo, potesse legittimamente diventare primo ministro. Probabilmente non accadrà mai: ma è un modello che i palestinesi potrebbero imitare, avendone la possibilità.
Come tutti i populisti, spesso Bibi Netanyahu enfatizza e mistifica i pericoli che Israele corre dalla sua fondazione. Annunciando con certezza che il terrorista palestinese di domenica era dell’Isis, questa volta ha forse avuto ragione. E’ difficile che l’attentatore che ha ucciso quattro soldati sia il terminale di un’organizzazione: sembra piuttosto un lupo solitario. Ma tutto lascia credere che per la prima volta in Israele il califfato sia l’ispiratore, se non il mandante di un atto terroristico.
Se è come sembra – e come afferma il premier israeliano – è un duro colpo e una serie minaccia per lo stato ebraico: significa che anche i palestinesi, votati al raggiungimento dell’indipendenza nazionale attraverso la diplomazia, la resistenza armata o il terrorismo, sono così disperati da rassegnarsi alla scappatoia di un califfato medievale e al solo strumento del terrore per ottenerlo. Se dopo decenni di lotta per uno stato-nazione, i palestinesi incominciano ad essere attratti dal folle modello di comunità islamica transnazionale, il leader israeliano ha ragione a denunciare il pericolo. Dovrebbe anche chiedersi però quali siano le cause di tanta pericolosa rassegnazione. E perché, come scriveva ieri il giornale israeliano Ha’aretz, “un gruppo di soldati israeliani non è un’immagine neutrale per nessun palestinese”.
Il muro costruito per dividere Israele dai territori occupati (e per annettere qualche altro ettaro di territorio) è stato fondamentale per dare a Israele più sicurezza. L’altro pilastro è da anni la collaborazione dei servizi di sicurezza palestinesi in Cisgiordania: diversamente dal governo Netanyahu, i comandi militari e lo Shin Bet israeliani lo hanno sempre riconosciuto. Ma un lupo solitario come l’attentatore di domenica che non era affiliato ad alcun movimento politico o religioso, è difficile da individuare anche per chi conosce gli anfratti del tessuto sociale palestinese.
Per l’intero apparato israeliano della sicurezza le principali minacce erano e restano, l’Iran, Hezbollah libanese e Hamas palestinese in questo ordine d’importanza. Nonostante la regione e i suoi protagonisti attorno a Israele siano cambiati. Hanno dunque ragione i professionisti, gente che porta la divisa da decenni e ha combattuto più di una guerra per il paese, gli stessi esperti che erano contrari a bombardare l’Iran e convinti che un efficace strumento della sicurezza d’Israele sarebbe permettere la nascita di uno stato palestinese; o ha ragione Bibi Netanyahu che sintetizza la complessità della questione palestinese nel solo fenomeno terroristico che pure esiste? E’ giusta la similitudine sulla quale Netanyahu insiste fra il terrorismo a Gerusalemme e quello che ha colpito Nizza e Berlino? Il concetto è che il terrorismo è terrorismo, ed è immorale fare distinzioni. O è più giusto ciò che ancora scrive Ha’aretz: “Gerusalemme non è Nizza non solo perché non ha il mare. Nizza non ha il 40% dei suoi residenti (i cittadini arabi di Gerusalemme, n.d.r.) senza diritti civili, sotto occupazione e in condizioni di vita umilianti”? Le stesse idee sul rapporto di causa-effetto del terrorismo e dell’occupazione erano state espresse dal sindaco di Tel Aviv l’ultima volta che la sua magnifica città era stata aggredita da un terrorista palestinese.
Prima che nascesse lo stato d’Israele, 68 anni fa, anche nella comunità ebraica di Palestina, lo Yishuv, alcuni pensavano che il terrorismo fosse uno strumento legittimo per raggiungere uno scopo così alto. Lo stato con le sue istituzioni rese inutile quel terrorismo, e il sistema democratico permise che anni dopo Yitzhak Shamir, uno dei capi di quel terrorismo, potesse legittimamente diventare primo ministro. Probabilmente non accadrà mai: ma è un modello che i palestinesi potrebbero imitare, avendone la possibilità.
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