Richard Falk : 2017: un anno in cui rievocare tre tristi anniversari palestinesi
ichard Falk– 27 dicembre 2016, Middle East Eye
Solo
una resistenza non violenta dei palestinesi al loro prolungato calvario
e l’attivismo della società civile internazionale sembrano avere forse
la capacità di adoperarsi per cambiamenti positivi dello status quo.
I
palestinesi sembrano sempre più condannati a diventare sudditi, o al
massimo cittadini di seconda classe, nella loro terra d’origine.
L’espansionismo israeliano, l’incondizionato appoggio degli USA e
l’impotenza dell’ONU si combinano per creare fosche prospettive per
l’autodeterminazione dei palestinesi e per una pace negoziata che sia
sensibile ai diritti e alle rivendicazioni sia dei palestinesi che degli
ebrei.
Rievocare
tre importanti anniversari da commemorare nel 2017 può aiutarci a
comprendere meglio quanto questa dolorosa narrazione palestinese si sia
sviluppata nel corso degli ultimi 100 anni.
Forse
tali rimembranze possono persino incoraggiare la correzione degli
errori passati e i deboli tentativi di trovare una via d’uscita, seppure
in ritardo. Le iniziative più promettenti sono ora legate al crescente
movimento di solidarietà internazionale impegnato a raggiungere una pace
giusta per entrambi i popoli.
Per
il momento, né le Nazioni Unite né la diplomazia tradizionale sembrano
avere molto potere sul gioco delle forze sociali e politiche che si
trovano al centro della lotta dei palestinesi. Solo una resistenza non
violenta dei palestinesi al loro prolungato calvario e l’attivismo della
società civile internazionale sembrano forse avere la capacità di
esercitare cambiamenti positivi dello status quo.
1917
Il
2 novembre 1917 il ministro degli Esteri britannico, Arthur Balfour,
venne convinto a mandare una lettera al barone Lionel Rothschild, uno
dei principali sostenitori del sionismo in Gran Bretagna, in cui
esprimeva il sostegno alle aspirazioni del movimento. Il concetto più
importante della lettera era la seguente:
“Il
governo di sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di
un focolare per il popolo ebraico, e farà uso del proprio massimo
impegno per agevolare la realizzazione di questo obiettivo, essendo
chiaro che non deve essere fatto nulla che pregiudichi i diritti civili
e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e
lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”.
Una
prima e scontata osservazione è per quale motivo la Gran Bretagna si
sia attivata per prendere una simile iniziativa nel bel mezzo della
Prima Guerra Mondiale. La risposta più immediata è che la guerra non
stava andando molto bene, alimentando nei dirigenti inglesi la
convinzione e la speranza che, schierandosi con il movimento sionista,
avrebbero incoraggiato gli ebrei in tutta Europa a sostenere la causa
degli alleati, soprattutto in Russia e in Germania.
Una
seconda motivazione era favorire gli interessi britannici in Palestina,
a cui l’allora primo ministro Lloyd Geroge guardava come
strategicamente vitale per proteggere la via commerciale terrestre verso
l’India così come salvaguardare l’accesso al Canale di Suez.
Fin
dal giorno della sua emanazione la Dichiarazione Balfour fu
controversa, persino tra alcuni ebrei. Innanzitutto un simile impegno da
parte dell’ufficio del ministero degli Esteri era prettamente
colonialista, senza il benché minimo tentativo di prendere in
considerazione i sentimenti della popolazione prevalentemente araba che
viveva in Palestina all’epoca (gli ebrei erano meno del 10% della
popolazione nel 1917) o di tener conto del crescente appoggio
internazionale al diritto di auto-determinazione di cui gode ogni
popolo.
Opposizione ebraica a Balfour
Ebrei
importanti, guidati da Edward Montagu, all’epoca segretario di Stato
per l’India, si opposero alla dichiarazione, temendo che ciò avrebbe
fomentato l’antisemitismo, soprattutto nelle città europee e
nordamericane.
Oltre
a ciò, gli arabi si sentirono traditi in quanto l’iniziativa di Balfour
era vista sia come una violazione delle promesse agli arabi durante la
guerra di un’indipendenza politica dopo il conflitto in cambio della
partecipazione alla lotta contro i turchi. Inoltre ciò faceva presagire
futuri problemi che sarebbero scoppiati tra la promozione
dell’immigrazione ebraica in Palestina da parte dei sionisti e le
proteste della popolazione autoctona araba.
Bisognerebbe
anche riconoscere che neppure tutti i dirigenti sionisti erano contenti
della dichiarazione Balfour. C’erano deliberate ambiguità nella sua
formulazione. Per esempio, i sionisti avrebbero preferito la parola “il”
piuttosto che “un” davanti a “focolare nazionale [ebraico]”. Inoltre
l’impegno a proteggere lo status quo dei non ebrei era visto come causa
di guai futuri, benché, come si è visto in seguito, questo attestato di
responsabilità colonialista non sia mai stato messo in pratica.
Infine
i sionisti ricevettero un appoggio per un focolare nazionale, non per
uno Stato sovrano, benché colloqui riservati con gli inglesi
convenissero che uno Stato ebraico potesse nascere in futuro, ma solo
dopo che gli ebrei fossero diventati maggioranza in Palestina.
Questo
sguardo all’indietro alla Dichiarazione Balfour è utile per comprendere
come le ambizioni coloniali si siano trasformate in senso di colpa
liberale ed empatia umanitaria per la tragedia degli ebrei europei dopo
la Seconda Guerra Mondiale, determinando invece un inferno senza fine di
delusione e oppressione per la popolazione palestinese.
1947
Dopo
la Seconda Guerra Mondiale, con scontri in Palestina che raggiunsero
livelli molto intensi, e con l’impero britannico in caduta libera, la
Gran Bretagna abbandonò il proprio potere mandatario e lasciò alla
nascente ONU il compito di decidere cosa fare.
L’ONU
creò un gruppo di alto profilo per abbozzare una proposta, che risultò
essere una serie di raccomandazioni che contenevano la partizione della
Palestina in due comunità, una per gli ebrei, un’altra per gli arabi.
Gerusalemme fu internazionalizzata senza che nessuna comunità
esercitasse l’autorità di governo né avesse il diritto di reclamare la
città come parte della propria identità nazionale. Il rapporto dell’ONU
venne adottato come proposta ufficiale nella forma della Risoluzione 181
dell’Assemblea Generale.
Il
movimento sionista accettò la 181, mentre i governi arabi e i
rappresentanti del popolo palestinese la rigettarono, sostenendo che
questa violava i diritti di autodeterminazione ed era palesemente
ingiusta. All’epoca gli ebrei rappresentavano meno del 35% della
popolazione ma gli venne assegnato più del 55% della terra.
Com’é
noto, ne derivò una guerra, con eserciti dei Paesi arabi vicini che
entrarono in Palestina sconfitti da milizie sioniste ben addestrate ed
armate. Israele vinse la guerra, ottenendo alla fine il controllo sul
78% della Palestina nel momento in cui fu raggiunto un armistizio,
espropriando oltre 700.000 palestinesi e distruggendo molte centinaia di
villaggi palestinesi. Questa vicenda è stata il momento più cupo
vissuto dai palestinesi, noto tra loro come la nakba, o catastrofe.
1967
Il
terzo anniversario del 2017 è relativo alla guerra del 1967, che portò a
un’altra disfatta militare dei vicini arabi e all’occupazione
israeliana di tutta la Palestina, comprese tutta la città di Gerusalemme
e la Striscia di Gaza.
Gli Usa, alleati strategici
La
vittoria israeliana ha cambiato in modo drastico la dimensione
strategica. Israele, che in precedenza era stato visto come un peso
strategico per gli USA, improvvisamente fu considerato un partner
strategico degno di un appoggio geopolitico incondizionato.
Nella
famosa risoluzione 242, il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza
dell’ONU decise all’unanimità che dovesse essere negoziato il ritiro
delle forze israeliane, con qualche accordo di modifica dei confini, nel
contesto della ricerca di un accordo di pace che includesse una
soluzione amichevole della disputa relativa ai rifugiati palestinesi che
vivevano in tutta la regione.
Durante
i successivi 50 anni siamo arrivati alla conclusione che la 242 non è
stata messa in atto. Al contrario, Israele ha ulteriormente invaso la
Palestina occupata attraverso un’estesa colonizzazione e con le relative
infrastrutture, e si è arrivati al punto che pochi credono che uno
Stato palestinese indipendente che coesista con Israele sia ancora
realizzabile o persino auspicabile.
Questi
anniversari rivelano tre fasi della situazione dei palestinesi in
continuo peggioramento. Rivelano anche l’incapacità dell’ONU o della
diplomazia internazionale a risolvere il problema di come palestinesi ed
ebrei dovrebbero condividere la terra.
E’
troppo tardi per invertire tutte queste solide tendenze storiche, ma la
sfida per raggiungere una soluzione umana che consenta in qualche modo a
questi due popoli di vivere insieme o in comunità politiche separate
rimane acuta.
Speriamo
ardentemente che una soluzione soddisfacente sia trovata prima che un
altro anniversario si imponga alla nostra attenzione.
– Richard Falk è
un docente di diritto e relazioni internazionali che ha insegnato per
40 anni all’università di Princeton. Nel 2008 è stato anche nominato
dall’ONU per sei anni come Rapporteur speciale sui diritti umani dei
palestinesi.
Le
opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non
rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.
(traduzione di Amedeo Rossi)
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