Ben White: Cosa c’è dietro il discorso di Kerry?
Un
elogio della soluzione dei due Stati? Forse, ma il discorso del
segretario di Stato John Kerry di mercoledì è simile in modo sospetto ad
un ennesimo disperato tentativo di tenere in piedi il cosiddetto
“processo di pace”.
E’
possibile capire la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e
il discorso di Kerry, come interpretarli – la loro debolezza e le
opportunità che rappresentano -, solo iniziando con guardare in faccia
la realtà del processo di pace durato due decenni e guidato dagli USA e
dalla comunità internazionale.
Il
processo di pace ha imposto una falsa simmetria tra occupante ed
occupato, trasformando colonizzatori e colonizzati in “due parti” con
obblighi e responsabilità reciproci.
Il
processo di pace è anche servito ad rendere ulteriormente immune
Israele dal dover rispondere dei sistematici e continui abusi dei
diritti umani e delle violazioni delle leggi internazionali. Per
esempio, i tentativi di garantire giustizia per le vittime dei crimini
di guerra sono stati sacrificati allo per “proteggere” il processo dei
negoziazione.
Ed
infine l’obiettivo del processo di pace, diventato sempre più
esplicito, è di preservare Israele come “Stato ebraico”. I diritti dei
palestinesi sono subordinati al “carattere” (etnocratico) di Israele, e
la sovranità palestinese ( e la sua autodifesa) è subordinata alle
esigenze di sicurezza di Israele.
Ma
il processo di pace è fallito, uno sviluppo guidato da una leadership
politica israeliana votata alla colonizzazione della Cisgiordania e da
una totale mancanza di volontà da parte degli USA e degli Stati europei
di imporre un costo reale a un governo israeliano segnato dal dire
sempre di no e favorevole alle colonie.
Mercoledì
scorso non c’è stato niente di originale nell’affermazione di Kerry che
se Israele occuperà la Cisgiordania per sempre sarà “o ebraico o
democratico”, ma “non potrà essere entrambe le cose”: versioni di questo
avvertimento sono state esposte ormai da anni da diplomatici
occidentali e persino da qualche politico israeliano.
Lo
stesso Kerry, durante il Saban Forum [incontro annuale organizzato
dall’ istituto statunitense “Centro per la Politica in Medio Oriente.
Ndtr.] del dicembre 2015, ha chiesto retoricamente: “Come Israele
potrebbe continuare ad conservare il suo carattere di Stato ebraico e
democratico se dal fiume al mare [dal Giordano al Mediterraneo. Ndtr]
non ci fosse un maggioranza ebraica?”
Due
importanti punti a proposito di questo “avvertimento”. In primo luogo,
Israele ha governato su milioni di palestinesi non cittadini con un
regime militare per almeno 50 anni. Per cui, solo su questa base,
l’occupazione permanentemente temporanea ormai mette in dubbio le
credenziali democratiche di Israele.
Ma,
in secondo luogo, il vero contesto è una concessione al razzismo
colonialista d’insediamento, in cui la sola presenza dei palestinesi
costituisce una minaccia. Ad esempio quali sono le implicazioni per i
palestinesi cittadini di Israele di una ideologia dello Stato in cui
“troppi” non ebrei sono una questione di pericolo esistenziale?
Ci
sono tre fattori principali dietro alla risoluzione del Consiglio di
Sicurezza ONU e al discorso di Kerry (in altre parole, “perché
adesso?”). Il principale impulso viene da una nuova legge che sta
proseguendo il suo iter alla Knesset, la quale “legalizzerebbe”
retroattivamente dozzine di “avamposti” non autorizzati dei coloni in
Cisgiordania.
Contemporaneamente
a questo sviluppo c’è l’imminente arrivo di Donald Trump alla Casa
Bianca, che porta con sé un gruppo di consiglieri sul Medio Oriente che
include espliciti oppositori della costituzione di uno Stato palestinese
e sostenitori entusiastici della colonizzazione israeliana.
E,
oltretutto, questa è stata una manifestazione di frustrazione da parte
di un’amministrazione Obama che avrebbe voluto avere due mandati di un
primo ministro israeliano come Tzipi Livni o Isaac Herzog – strateghi
più accorti quando si tratta di collaborare con il “processo di pace” –
mentre gli sono toccati otto anni con Bibi [Netanyahu].
Come
ha scritto su “The Nation” [rivista progressista statunitense. Ndtr.]
Yousef Munayyer, direttore esecutivo della Campagna USA per i Diritti
dei Palestinesi: “E’ stato un tentativo di salvarsi la faccia nei libri
di storia con il gioco dello scaricabarile . Kerry ha chiarito che se
gli israeliani voglio uccidere la pace con le colonie, è una loro
scelta.”
Ma
quali sono gli aspetti positivi? Sicuramente il discorso di Kerry è
stato una boccata di aria fresca rispetto alle vere e proprie
macchinazioni o agli argomenti prevedibili delle fonti ufficiali
israeliane e dei loro amici e alleati. Ma ciò non alza di molto il
livello.
Kerry
si è vantato del record di Barack Obama nell’appoggiare Israele,
affermando che “nessuna amministrazione americana ha fatto di più per la
sicurezza di Israele.” Ha aggiunto: “Nel mezzo della nostra crisi
finanziaria e del deficit di bilancio abbiamo ripetutamente aumentato i
finanziamenti per sostenere Israele.”
I
diplomatici USA hanno persino sottolineato con orgoglio il sostegno di
Obama a Israele durante i brutali attacchi universalmente condannati
contro la Striscia di Gaza (o, con le parole di Kerry, “azioni…che hanno
suscitato grandi polemiche”).
I
principi di Kerry per un accordo di pace sono, nelle parole del
giornalista israeliano Barak Ravid, “magnificamente sionisti”: “scambio
di territori” per tener conto dei principali insediamenti illegali,
negazione del ritorno a casa dei rifugiati palestinesi per non
minacciare la maggioranza ebraica (creata con la violenza) di Israele.
E’
vero che Kerry ha riconosciuto alcune verità imbarazzanti a proposito
del regime discriminatorio di Israele nella Cisgiordania occupata:
“Praticamente nessuna costruzione privata palestinese viene approvata
nell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale controllo
israeliano. Ndtr.]”, ha affermato, notando come “solo un permesso è
stato rilasciato da Israele in tutto il 2014 e 2015.”
E
sì, Kerry ha anche confutato qualche luogo comune riguardo alla
costruzione di colonie, sottolineando come “quello che costituisce un
blocco (di insediamenti) è stato fatto in modo unilaterale dal governo
israeliano, senza consultare i palestinesi e senza il loro consenso.”
Ma
è un monito del fatto che Kerry e i diplomatici come lui non sono
ignari di quello che succede – hanno solo scelto di garantire l’impunità
di Israele. Oltretutto, è chiaro che Kerry conosce fatti altrettanto
imbarazzanti riguardanti situazioni che è orgoglioso di difendere – ad
esempio, i bombardamenti israeliani contro Gaza.
Ciò
detto, è importante non ignorare le scelte politiche – e l’impatto –
dell’ammonimento degli USA, senza mezzi termini e pubblicamente, al
governo di Netanyahu, soprattutto facendo immediatamente seguito alla
risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che ha riaffermato le
“flagranti” violazioni delle leggi internazionali da parte di Israele.
Tali
dinamiche renderanno sicuramente la vita più difficile ai gruppi che
appoggiano Israele – soprattutto quelli che ancora sostengono con la
voce roca la causa “progressista” dello Stato del colonialismo di
insediamento. Le risibili reazioni di Netanyahu e dei suoi ministri
hanno messo in evidenza il loro disprezzo, e la loro paura, delle leggi
internazionali.
La
risoluzione dell’ONU e il discorso di Kerry (e quello che ciò
rappresenta) giocheranno un ruolo e agiranno come catalizzatori di
processi preesistenti – come la trasformazione di Israele in un
argomento conflittuale nella politica USA e la crescita della campagna
per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).
Dopo
la risoluzione dell’ONU le singole campagne di boicottaggio e sanzioni
saranno solo più facili da attuare alla luce di una sicura continuazione
dell’incremento delle colonie israeliane e delle politiche di
apartheid. Dovrebbe risultare ancora più evidente ai gruppi dei diritti
umani ed ai governi internazionali che è necessaria una pressione
effettiva.
Il
giornalista israeliano Chemi Shalev ha definito il discorso di Kerry
“un rito di passaggio da un’era ad un’altra”. La domanda per i dirigenti
palestinesi è se potranno agire di conseguenza e sfruttare i nuovi
sviluppi a favore dell’autodeterminazione e dei diritti di tutto il
popolo palestinese.
(traduzione di Amedeo Rossi)
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