Arianna Poletti :Gerusalemme non è Berlino






Ero seduta a scrivere, al mio bar preferito di Gerusalemme, quando mia madre stranamente mi telefona: stai bene? Tutto ok? Sei a casa? Sei al sicuro?
Un attentato, mi dice, a Gerusalemme. Ci mancava. Mia mamma anticipa addirittura la notifica di Haaretz, che mi arriva poco dopo sul cellulare. Finisco di mangiare e mi guardo intorno. Nulla. Nelle strade la gente passeggia in una fredda ma soleggiata domenica di gennaio. Niente corse, coprifuoco, allarmi. Soldati in giro e polizia, il solito. Intanto iniziano ad arrivare i messaggi di panico: stai bene vero? Ti avevo detto di non andare laggiù! Tutto ok? Rispondi!
Sì, tutto ok. Sto bene. Ma non sto capendo nulla. Intuisco come la notizia sia subito rimbalzata sui media italiani. Mi mettono l’ansia, vado a casa.
E così « Gerusalemme come Berlino » è l’attacco del pezzo che esce in prima pagina su La Stampa del 10 gennaio 2017. Confermato: si tratta di un attentato. Un camion si lancia su un gruppo di soldati, ne uccide quattro. Diciassette i feriti. Una modalità che inquieta e che sì, ricorda Berlino. Anche le immagini di Nizza sono ancora nitide. Una modalità che ricorda quegli ormai conosciuti video di camion che, contro ogni logica e buon senso, davanti ad una folla accelerano al posto di frenare. Terribilmente moderno.ondanno questo schifo, sempre. E lo condanno soprattutto qui, dove abito ora, a Gerusalemme. E proprio per questo mi stupisco quando leggo che « Gerusalemme è come Berlino ». Perché non è vero. Se la modalità è la stessa, Gerusalemme non c’entra nulla. E uno degli errori più grandi penso proprio che sia quello di dimenticarci un particolare che dobbiamo smettere di considerare tale: il contesto. Quindi no, Gerusalemme non è Berlino. Gerusalemme può forse al massimo ricordare la vecchia Berlino, la città divisa, se proprio il parallelismo è davvero necessario. Penso che paragonare eventi distanti sia comunque estremamente rischioso

 E controproducente: non aggiunge nulla, non analizza, non aiuta a capire, non spiega, non chiarisce. Non è questo, invece, quello che cerca di fare un giornalista? Mi hanno insegnato così. Non semplificare, spiegare. Perché, allora, non lo si spiega? Gerusalemme è una città occupata. Vistosamente divisa: Gerusalemme Ovest, ormai israeliana, da un lato e Gerusalemme Est, dove continuano a vivere circa 200.000 palestinesi, dove sono comunque presenti numerosi insediamenti di Israele. Gli altri palestinesi, sono al di là del muro. Gerusalemme è una città dove capisci che l’occupazione non è statica, ma avanza di giorno in giorno. Poco più in là la linea che separa Israele dai Territori Occupati di Palestina, sulla cartina e fisicamente. Il muro. Gerusalemme è una città dove ci sono ormai stabili insediamenti nel lato Est, quartieri divisi in due, dove le case vengono abbattute, dove la tensione inquina l’aria. Dove ti aspetti che quella notifica di Haaretz sia l’ennesimo: “palestinese tira fuori un coltello, freddato da soldato israeliano. Bloccate le porte della Città Vecchia”. Sono parole che ricorrono, sono espressioni come Stabbing Attack, Assailant Shot, Settlement, Outpost. Gerusalemme non è Berlino e non è Nizza, ma è lo specchio di un conflitto che è diventato quotidianità molto tempo fa. Non per questo, però, va dimenticato. Quindi no, Gerusalemme non è Berlino. E una città tristemente abituata a tutto questo, lo subisce da anni. Una città dove i quattro soldati uccisi avevano la mia età, vent’anni o poco più. Perché quando io cammino per strada dal lato israeliano i ventenni non li vedo, quando vado alle feste i ventenni non ci sono. Chi ha la mia età, qui, è nell’esercito e sta imparando a maneggiare un kalashnikov, cosciente dell’eventualità di uccidere. Ragazze e ragazzi vivono in un paese dove la leva militare e obbligatoria. Il contesto, qui, è ben diverso. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato il primo a dichiarare che Gerusalemme è come Berlino. E ha tirato in mezzo con estrema facilità una terza questione, che facile non è. La colpa dell’Isis. Isis che non ha mai rivendicato questo attacco, come invece ha fatto il gruppo che si fa chiamare “The martyrs of Baha Aylan collective”. Baha Aylan aveva ucciso tre israeliani su un bus, era il 2015. È vero, i post pubblicati su facebook dal bastardo alla guida del camion dimostrano che simpatizzava per Daesh. E questo deve far pensare, far pensare come Daesh affascini non solo dove c’è crisi di identità, ma anche dove l’appartenenza non solo è forte. È il senso stesso dell’esistenza e della rivendicazione dello stato palestinese. Questo non determina, come forse Netanyahu vorrebbe, l’equivalenza palestinesi = Daesh. Perché il contesto, qui, è estremamente diverso. Questo attacco non è diverso dagli altri nella modalità, ma lo è nella sostanza. Si inserisce perfettamente nella situazione di esasperazione in cui Gerusalemme vive. Normalmente, non solo il 9 gennaio, purtroppo. E il 2017 è un triste anniversario: sono ormai 50 anni di occupazione.
Mentre il mio telefono vibra incessantemente per i messaggi dei miei amici dall’Italia, guardo fissa la gente che passeggia davanti a me. E penso come Gerusalemme sia terribilmente abituata a tutto questo. Il 9 gennaio, un po’ più a nord, ce ne siamo ricordati. Ci siamo ricordati che quaggiù sta succedendo qualcosa. Abbiamo proiettato la bandiera israeliana sui monumenti, forse scioccati. Certamente impauriti. Ma qui il conflitto è la drammatica quotidianità che si rinnova ogni giorno. Condanno Berlino, condanno Gerusalemme. Ma no, Gerusalemme non è Berlino.


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