Amira Hass : Un interludio musicale o gli orrori dell’occupazione? Il dilemma di una giornalista israeliana
- Un interludio musicale o gli orrori dell’occupazione? Il dilemma di una giornalista israeliana
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Amira Hass – 20 gennaio 2017, Haaretz
La
scorsa settimana Betlemme ha ospitato una giornata a porte aperte di
eventi musicali, compresa una lezione magistrale di una famosa
violinista francese. Se solo l’esercito israeliano non fosse così
impegnato a creare storie perché io le debba raccontare.
Il
progetto originale era di uscire di casa a El Bireh verso le 11 del
mattino di giovedì, per riuscire ad arrivare alla sala conferenze delle
Piscine di Salomone a Betlemme. La hanno chiamata “giornata a porte
aperte” e avrebbe ospitato vari spettacoli musicali, una lezione
magistrale con la violinista francese Amandine Beyer, un concerto in cui
avrebbe suonato con i “Bethlehem Strings” – prova generale alle 13,
concerto vero e proprio alle 18,30 – insieme ad alcuni cori.
Il
programma prevedeva che i brani sarebbero stati dell’epoca barocca.
Avevo sentito dire che la sala è impressionante. So che la vista ti
toglie il fiato. E avevo visto che avrebbero presentato il progetto
della “Filarmonica Palestinese” – non avevo capito di cosa si trattasse,
ma avevo letto che si intende creare “un ente culturale, come una
‘Città della Musica’, che offrirà una varietà di attività ed eventi
relativi alla musica interculturale, non ultimo fondando la prima
orchestra professionale permanente della Palestina.”
Occupazione,
occupazione – ma nelle enclave [palestinesi] ha fallito, là c’è
creatività, una passione per la bellezza ed il talento. Alleluia!
Uno
degli organizzatori mi aveva invitata circa due settimane fa. Speravo
che qualche giovane conoscente del campo di rifugiati di Deheisheh
sarebbe stato presente. Non ci siamo più incontrati da quando ho scritto
dei soldati dell’esercito israeliano che li hanno feriti alle ginocchia
e ridotti ad andare in giro con le stampelle. Ci sono bambini dei campi
di rifugiati della zona che studiano musica nel locale conservatorio e
immaginavo che, se non come esecutori, sarebbero andati quanto meno come
spettatori.
A
un certo punto ho persino pensato che avrei avuto il tempo di fare un
salto a Tekoa – al villaggio, cioè, non alla colonia. Ho sentito
qualcosa a proposito di arresti là, una settimana dopo che
l’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano in
Cisgiordania. Ndtr.] aveva distrutto alcune delle cisterne per
raccogliere l’acqua che sono così indispensabili per i contadini. Ma ho
rinunciato a questo piano a causa di ritardi indipendenti dalla mia
volontà.
Ero
stata a fantasticare su questo interludio musicale per tutta la
settimana. E, poiché la mia mente è programmata per trasporre ogni
istante di vita in un articolo, ho pensato alla pubblicazione ideale per
un simile reportage: forse sul supplemento artistico di Haaretz; forse
nella mia rubrica settimanale; forse come contributo del venerdì. Ero
incerta tra le varie possibilità. O forse non ci voglio andare come
giornalista? Non voglio scoprire chi sono i musicisti e da quali
villaggi le loro famiglie sono state espulse nel 1948; chi ha perso un
fratello o un genitore negli attacchi militari israeliani o in scontri
con i soldati, o quando erano stati mandati per condurre un attacco; e
non volevo chiedere come il loro modo di suonare sia influenzato dal
furto della terra delle loro famiglie attraverso i trucchi truffaldini
dei governi dei coloni. Domande che non si possono non fare se si vuole
un quadro completo; domande difficili da fare, perché per quanto tempo
ancora si può respirare e vivere e dormire e alzarsi con tutto questo
sadismo organizzato chiamato politiche di Israele?
Per
cui lasciatemi in pace a godere un concerto, e vedere i giovani ragazzi
e ragazze emozionati in una lezione magistrale di una musicista
francese senza dover scrivere di questo.
(Editore: “Hai 380 parole.” Ma ne ho bisogno di 420. “Va bene, facciamo 400.”)
La
mattina di giovedì non ero riuscita a finire il mio pezzo per il
giornale del venerdì sulla nonna palestinese che ha difeso i suoi nipoti
contro un gruppo di uomini mascherati dell’esercito israeliano di
occupazione. Non preoccuparti, mi sono detta. Lo finirò e lo spedirò
prima delle 10. Ma la risposta del portavoce dell’esercito era in
ritardo.
Nel
frattempo un altro argomento che ha richiesto l’attenzione della mia
tastiera mi si è imposto: zona militare 918 – o, più precisamente, i
villaggi delle colline meridionali di Hebron minacciati di distruzione
totale dalla zona militare. Dopo 17 anni di vessazioni, di battaglie
legali e lotte di base, l’Alta Corte di Giustizia ha ordinato allo Stato
di proporre un piano di esercitazioni che infligga un danno minimo agli
abitanti. Dopo tutti gli anni in cui ho seguito questa mostruosità
(“Esercitarsi lì fa risparmiare all’esercito tempo e denaro,” ha detto
lo Stato all’Alta Corte, spiegando perché i villaggi dovrebbero essere
distrutti), non potevo aspettare che l’articolo di cronaca si scrivesse
da solo.
Così,
con cinque dita ho terminato l’articolo sugli uomini mascherati e con
le altre cinque ho iniziato a scrivere l’altra vicenda. Ah, bene – non
arriverò là per la prova generale all’una, ma almeno sarò presente alla
lezione magistrale delle 16.
E
allora è arrivata la notizia che il pubblico ministero ha raggiunto un
patteggiamento con l’avvocato del poliziotto di confine Ben Deri, che ha
ucciso il ragazzo palestinese Nadeem Nawara nel maggio 2014. Tutti
abbiamo visto le riprese video: i soldati e i poliziotti non si
trovavano in pericolo di vita. E abbiamo tutti sentito l’esercito negare
che si fossero usati proiettili letali, ma poi ha ammesso che Nawara
era stato ucciso da una pallottola letale. Anche il suo amico Mahmoud
Salameh era stato ucciso, e altri due feriti. Tutti da pallottole
letali. Solo che il processo si è limitato a una sola imputazione,
contro un singolo poliziotto, per un solo giovane ucciso – come se gli
altri fossero stati uccisi dal diavolo. Ed anche in questo caso, lo
Stato lo vuole ridurre all’aver causato la morte per negligenza. Va
bene, mi sono detta, rinuncerò alla lezione magistrale, andrò al
concerto delle 18,30.
L’articolo
era quasi andato in rete nel sito quando ho ricevuto una nuova notizia:
non c’era stato nessun patteggiamento. L’avvocato di Deri, Zion Amir,
non ha accettato la parte in cui si afferma che i poliziotti e i soldati
non erano in pericolo di vita. Ho dovuto localizzarlo e verificare
l’informazione.
Ho dovuto riscrivere l’articolo di cronaca e perdermi il concerto.
(traduzione di Amedeo Rossi)
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