Trump e la questione palestinese: cosa accadrà?
Con l’elezione di un nuovo presidente
americano, cambiano le relazioni tra Israele e Stati Uniti, così come i
possibili risvolti per la questione palestinese
Di Osama Othman. Al-Araby al-Jadeed (15/11/2016). Traduzione e sintesi di Maria Antonietta Porto.
In seguito
all’annuncio della vittoria del neoeletto presidente americano, il primo
ministro israeliano Netanyahu ha dichiarato che Trump è un amico fidato
di Israele. Parole, queste, insinuanti che alludono alle tensioni, non
nascoste, con il predecessore Barack Obama, che ha iniziato il suo primo
mandato con posizioni che hanno fatto sperare ardentemente arabi e
palestinesi di poter riacquistare i propri diritti perduti. Inizialmente
Obama, in nome di un processo politico più giusto, ribadì la necessità
di fermare gli insediamenti e di porre fine all’occupazione israeliana
con l’istituzione di uno Stato palestinese. Poi cedette dinanzi
all’ostinazione e all’inflessibilità di Netanyahu.
E Trump? Quali sono, invece, le sue posizioni riguardo la Palestina?
Innanzi tutto, secondo Jason
Greenblatt, consigliere di Trump per le questioni relative a Israele,
il neopresidente non considera gli insediamenti come un ostacolo alla
pace. Si tratta di un taglio netto rispetto alla visione americana dei
decenni passati.
Altro tratto
distintivo, fonte di polemiche, è l’intenzione di Trump di trasferire
l’ambasciata americana a Gerusalemme, decisione del Congresso che risale
a 21 anni fa, posposta dalle varie amministrazioni che si sono
susseguite. Tutti i candidati
alla presidenza, ad accezione di Hilary Clinton, avevano già promesso
di spostarla, non concretizzando mai tale proposta, ritardandone
l’attuazione in nome della sicurezza nazionale.
In linea con
la politica americana, invece, il presidente ribadisce che negoziati
reali e concreti rappresentano l’unica strada per una qualsiasi
soluzione politica.
Un ulteriore
elemento, non di minor peso rispetto ai precedenti, è da tenere in
considerazione: la ridotta esperienza politica di Trump, soprattutto
nelle spinose questioni di politica estera. Infatti, sembra essere più
interessato agli affari interni, come l’eliminazione del programma di
Obama sulla riforma sanitaria o la posizione anti-immigrati. Ciò, in un
certo senso, potrebbe essere indice di una tendenza all’isolazionismo
politico, non distante da prospettive fasciste e razziste. È dunque
probabile che Trump, per la gioia dell’estrema destra israeliana, lasci
che la questione palestinese segua la sua rotta attuale, senza
interferenze (sempre negli interessi dell’America e di Israele).
In generale,
si teme che lo stato (o la staticità) della situazione attuale, insieme
allo stallo politico possano avere come conseguenza un’accelerazione
dell’intero meccanismo di occupazione, in particolar modo l’espansione
irrefrenabile del cosiddetto “Grande progetto di Gerusalemme” – legato
agli insediamenti e alla “giudaizzazione” della città – grazie al quale
Israele trarrà benefici non soltanto in Palestina, come dichiarato da
Netanyahu, ma nell’intera regione, in cui i rapporti pacifici con
numerosi Stati arabi non dipendono più dalla pace con i palestinesi,
bensì il contrario. Tale mossa non sarà semplice, specialmente nel caso
in cui il progetto (in sospeso) di pace con i palestinesi subisca il
colpo di grazia.
Osama Othman è uno scrittore palestinese.
I punti di vista e le opinioni
espressi in questa pubblicazione sono di esclusiva responsabilità degli
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