Raniero La Valle : Con Trump e la politica in pezzi teniamo ferma la garanzia della Costituzione
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Raniero La Valle Il 9 novembre al Centro Sociale di Salerno ho
partecipato a un incontro sul referendum il cui titolo era: “Le ragio...
facciamosinistra.blogspot.com|Di Gianluca Graciolini
di Raniero La Valle
Il
9 novembre al Centro Sociale di Salerno ho partecipato a un incontro
sul referendum il cui titolo era: “Le ragioni del Sì, quelle del No, le
ragioni del dubbio”. Il prof. Alfonso Conte che mi interrogava mi ha
rivolto una domanda cruciale: “davvero se si vota Sì si innesca una
deriva autoritaria, ed è a rischio la stessa democrazia? E si può
pensare che un Renzi, che cita La Pira e vanta una formazione da scout,
proponga una riforma che è contro i poveri e manca di lealtà verso la
democrazia?”. A questa domanda ho risposto appellandomi alla terza delle
tre ipotesi in discussione: le ragioni del dubbio.
Non
è certo che con la nuova Costituzione della Boschi e di Renzi si
prepari un futuro autoritario e che la democrazia vada perduta. E’ vero,
si diminuiscono le difese e si aprono dei varchi, ma non si può dare
per certo che la democrazia perisca, né che, al contrario, essa continui
e si rafforzi. Sulla scorta delle analisi dei maggiori
costituzionalisti, è lecito il dubbio; anzi proprio il dubbio è la
posizione più ragionevole.
Ma
il problema è: quando sono in gioco la democrazia, la pace sociale, i
giusti rapporti tra il popolo e il potere, possiamo permetterci il
dubbio? Noi sappiamo bene quanto questi valori, di recente acquisiti,
siano costati, in lotte, dolori e sangue; sappiamo quanto sia vitale che
mai più siano perduti e sappiamo che cosa essi valgano per noi e per i
nostri figli, proprio i figli a beneficio dei quali si dice che
sarebbero fatte “le riforme”. Possiamo giocare d’azzardo, mettere sul
tavolo verde democrazia e libertà, nel dubbio scommettere che il potere
non abusi dei suoi nuovi artigli, in nome di procedure più stringenti e
spicciative?
Se
il dubbio non è rimosso (e non è nemmeno il cambiamento della legge
elettorale che potrebbe scioglierlo) e la democrazia è a rischio,
occorre far ricorso, al principio di precauzione che è quello che si
deve adottare quando sono in gioco valori supremi, come la stessa vita.
E’ questo ad esempio il principio che viene invocato nelle discussioni
sul futuro della terra, quando si dibatte se davvero il sovvertimento
climatico provocato dall’uomo possa mettere fine alla vita sulla terra:
nel dubbio, e prima che l’irreparabile accada, responsabilità vuole che
si faccia la scelta dettata dal principio di precauzione; devono essere
bloccate o diminuite le possibilità stesse che ciò accada.
Questa
scelta di responsabilità tanto più deve essere fatta quando con
l’elezione di Trump in America tutte le previsioni, anche le più
scontate, sono saltate; il fallimento della globalizzazione (che è in
realtà il nuovo nome del capitalismo), l’incapacità della politica a
dare risposte al problema di 62 milioni di fuggiaschi, di profughi e di
migranti gettati nel mondo, stanno provocando reazioni angosciose negli
elettorati e hanno aperto una nuova fase nella storia del mondo, in cui
tutto è possibile.
Non
sono colpite le ideologie, ma la vita, le case, gli ambienti vitali, il
futuro delle persone. Guerra ed esodo, che ci sono sempre stati, stanno
assumendo, con la loro pervasività universale, caratteristiche nuove e
distruttive non solo delle cose, ma del nucleo più profondo della
personalità umana.
Una
psicoterapeuta, adusa alla frequentazione di queste sofferenze, Anna
Sabatini Scalmati, così ha evocato questi due fenomeni in una relazione a
un convegno su “Psicoanalisi e luoghi del trauma sociale”, tenutosi il
22 ottobre a Lecce.
“Nelle
aree di guerra – ha detto Anna Sabatini – la morte lavora all’ingrosso,
conta il numero dei ‘colpiti’ con cifre a più zeri, annienta la vita
psichica; i bombardamenti trasformano in cumuli di macerie i luoghi di
culto; i monumenti – rimandi culturali eretti a memoria di eventi
fondativi della comunità; le abitazioni civili, gli edifici che il
contratto sociale ha eretto a protezione della vita: ospedali, scuole,
palazzi della politica, istituti culturali, ecc…
“La
guerra mette tra parentesi l’interdetto delle tavole della legge, rende
lecito l’uccidere, ottunde l’autorevolezza dei garanti metasociali,
svilisce la Dichiarazione universale dei Diritti. Distrugge le
infrastrutture: la rete idrica, elettrica, i ponti e le linee di
comunicazione. Semina la terra con mine antiuomo, rende insicure
l’agricoltura e la pastorizia: antiche, primarie fonti di sussistenza.
“La
guerra opacizza il lutto. Dei bombardamenti si conosce il numero
approssimativo dei morti; ma il macroscopico oblitera il microscopico.
Si piangono i singoli, non le migliaia; più il numero è grande, più
l’individuo, la singolarità, l’unicità della sua esperienza, scompare.
“Sulla
scia della guerra avanza lo spettro della fame e l’alito malsano della
miseria. L’angoscia si duplica e macula l’orizzonte di paure.
“La
paura discende dal cielo che – da regno del sole e della luna, da
reggia dell’olimpo, del dio delle religioni monoteiste, a cui per
millenni l’umanità ha offerto sacrifici, rivolto preghiere, bruciato
incenso e tratti presagi dal volo degli uccelli – è divenuto un
inverecondo arsenale di morte. Dai suoi spazi solcati da fortezze
volanti – F16, droni, caccia, ecc. – precipitano sulla terra uragani di
bombe.
“La paura sgorga dal mare sulle cui acque navigano portaerei, sottomarini atomici.
“La
paura abita la terra ove avanzano rombanti le truppe amiche e nemiche
e, nei luoghi ove pulsa la vita quotidiana, esplodono i kamikaze.
“Paure
che sopravanzano ogni pensiero, tingono di vergogna l’immagine
dell’umano che reca la morte a sé e al simile, rendono nefasta la
stanzialità e impossibile la continuità della vita sulla terra degli
antenati. La paura rizza la pelle e nel contempo chiede di prendere atto
della realtà, di ciò che non si può pensare fino in fondo: abbandonare
la terra, la casa, le mura che, mute testimoni dei linguaggi affettivi,
dei progetti dell’intimità coniugale, dai vagiti dei nuovi nati, hanno
protetto il sonno dopo pesanti ore di lavoro e assistito al ‘supremo
scolorir del sembiante’ di coloro che vi sono deceduti. Abbandonare la
casa, pelle seconda, esterna, pregna di proiezioni, consce e meno, del
proprio ‘Io/ambiente/mondo’, è una decisione lacerante.
“La
sopravvivenza, la razionalità, suggerisce la fuga, ma la mente –
appesantita da oscure paure – fa fatica a sostenerla. Si preparano i
fagotti, si serrano le porte, ma le gambe tremano, un’inedita
vulnerabilità le soverchia; uno stato di insensatezza dissolve il senso
dell’esistenza”.
E riguardo allo sradicamento di uomini e donne in fuga dalla loro patria, e al rifiuto di accoglierli, la relatrice dice:
“Non
indignarsi di fronte ai fatti che sbarrano la strada alle popolazioni
in fuga da una morte certa ci spoglia di ogni innocenza. Tra le vittime e
gli oppressori, sottolinea Escobar, ‘tra chi fa e chi guarda non c’è un
confine netto, ma un’area grigia nella quale gli ‘innocenti’ rischiano
di trasformarsi in complici. Si tratta di un rischio che riguarda tutti,
e che a tutti tocca di valutare’.
“L’imponente
flusso dei profughi dei nostri giorni avanza con rischi che l’intera
comunità è chiamata ad affrontare affinché le diversità culturali non
degenerino in metastasi sociali e non umilino con divieti paranoici – no
al Burqa, no al Burqini – la comunità. Lo ‘spettro che si aggira per
l’Europa’, non è l’umanità in cerca di salvezza, ma l’intolleranza verso
l’altro, il diverso. Intolleranza che corrompe le coscienze, virus che
con inattesa rapidità infetta intere nazioni e rende il vicino di ieri
il nemico di oggi”.
E
chi deve rispondere, chi deve curare queste patologie? Gli
psicanalisti? I medici? Le guardie di frontiera, la protezione civile?
No, la politica; solo la politica può correggere i guasti della
globalizzazione, può aver ragione della guerra, può dare risposte al
dramma di un’umanità che è una, ma che oggi è divisa tra residenti e
profughi, tra stanziali e fuggiaschi, tra cittadini e stranieri, tra
necessari ed esuberi, tra presi e scartati. La politica, e naturalmente
le Costituzioni e, più ancora, il costituzionalismo, sono le grandi
risorse di cui ci siamo dotati per maneggiare le crisi.
Resta
la domanda: si può pensare che riformatori che vengono da tradizioni
democratiche, da esperienze cristiane, da ideologie di sinistra, con le
loro ostinate proposte di riforma vogliano mettere a rischio
costituzionalismo e democrazia?
Respingendo
qui la tentazione del dubbio, si può rispondere di no. Però spesso in
politica c’è un’eterogenesi dei fini. Per calcoli sbagliati, o incauti, o
un’insufficiente etica pubblica, si può aprire la strada a esiti non
voluti. A vedere certe esibizioni sul referendum, soprattutto quelle
televisive, si direbbe che questa riforma sia più frutto di ignoranza
che di cattiveria. Ma questo rende ancora più doverosa l’adozione del
principio di precauzione, e tanto più dopo la vittoria di Trump, che
mostra che cosa succede quando a governare sono le banche e il denaro, e
la gente cerca un’altra offerta politica. E se le offerte politiche
alternative non sono all’altezza della sfida, come ultima difesa resta
la Costituzione.
Chi
ha il potere e maldestramente lo usa, può finire, e condurre altri,
dove non voleva. C’è una figura famosa in letteratura che è quella
dell’apprendista stregone. Quando ero giovane non ero abbastanza colto
da aver letto la ballata di Goethe L’apprendista stregone ispirata a un
testo di Luciano di Samosata, però fui colpito dal film Fantasia di Walt
Disney, in cui l’incauto apprendista per rubare il mestiere al maestro
stregone mise in movimento delle forze incontrollabili che non fu più in
grado di far rientrare nell’ordine. Anche se gli apprendisti stregoni
sono in buona fede, basta un No per impedire loro di nuocere.
Fonte: Pagina Facebook dell'Autore