Ramzy Baroud : Pregare per la libertà: perché Israele impedisce l’appello alla preghiera a Gerusalemme?
http://zeitun.info/…/pregare-per-la-liberta-perche-israele…/
4 novembre 2016,Middle East Monitor
Negli anni della mia infanzia mi
rassicurava sempre la voce del “ muezzin” che chiamava alla preghiera
nella principale moschea del nostro campo profughi a Gaza.
Quando alla mattina
presto sentivo il richiamo che annunciava con voce melodiosa che stava
arrivando il momento della preghiera dell’aurora (‘Fajr’), sapevo che
potevo andare a dormire tranquillamente.
Ovviamente il richiamo alla preghiera
nell’Islam, così come il suono delle campane nelle chiese, implica un
profondo significato religioso e spirituale, come accade
ininterrottamente, per cinque volte al giorno, da 15 secoli. Ma in
Palestina queste tradizioni religiose hanno anche un profondo
significato simbolico.
Per i rifugiati del mio campo la
preghiera dell’aurora significava che l’esercito israeliano era andato
via dal campo, ponendo fine ai suoi terribili e violenti raid notturni,
lasciandosi alle spalle rifugiati in lutto per i loro morti, feriti o
arrestati, e consentendo al muezzin di aprire le vecchie porte
arrugginite della moschea ed annunciare ai fedeli l’arrivo del nuovo
giorno.
Era quasi impossibile andare a dormire
in quei giorni della prima rivolta palestinese, quando la punizione
collettiva delle comunità palestinesi nei territori occupati superava
ogni livello tollerabile.
Questo accadeva prima che la moschea del
nostro campo – il campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia
di Gaza – fosse attaccata e l’Imam arrestato. Quando le porte della
moschea furono sigillate per ordine dell’esercito, la gente salì sui
tetti delle case durante il coprifuoco militare per annunciare comunque
il richiamo alla preghiera.
Lo fece persino il nostro vicino
‘comunista’ – un uomo di cui si diceva che non avesse mai messo piede in
una moschea in tutta la sua vita!
Non era soltanto una questione
religiosa, ma un atto di sfida collettiva, che dimostrava che nemmeno
gli ordini dell’esercito avrebbero fatto tacere la voce del popolo.
Il richiamo alla preghiera significava
continuità, sopravvivenza, rinascita, speranza e una serie di
significati che non furono mai capiti, ma sempre temuti, dall’esercito
israeliano.
L’offensiva contro le moschee non è mai terminata.
Secondo fonti del governo e dei media,
un terzo delle moschee di Gaza è stato distrutto durante la guerra di
Israele contro la Striscia nel 2014. 73 moschee sono state completamente
distrutte da missili e bombe e 205 parzialmente demolite, compresa la
moschea Al-Omari di Gaza, che risale al 649 d.C.
E’ accaduto anche alla principale
moschea di Nuseirat, dove il richiamo alla preghiera durante la mia
infanzia mi portava la pace e la tranquillità sufficienti per andare a
dormire.
Ora Israele sta tentando di bandire il
richiamo alla preghiera in diverse comunità palestinesi, a cominciare da
Gerusalemme est occupata.
Il bando è stato emesso solo poche
settimane dopo che l’UNESCO ha approvato due risoluzioni di condanna
delle attività illegali di Israele nella città araba occupata.
L’UNESCO ha chiesto ad Israele di cessare tali imposizioni, che violano il diritto internazionale e minacciano di modificare lo status quo della città, che è centrale per tutte le religioni monoteistiche.
Dopo aver organizzato una fallimentare
campagna per contrastare l’iniziativa dell’ONU, arrivando ad accusare
l’istituzione internazionale di antisemitismo, i dirigenti israeliani
adesso stanno attuando misure punitive: la punizione collettiva dei
residenti non ebrei di Gerusalemme per le decisioni dell’UNESCO.
Questo comporta la costruzione di
ulteriori abitazioni ebree illegali, la minaccia di demolire migliaia di
case arabe e, da ultimo, il divieto dell’invocazione alla preghiera in
diverse moschee.
Tutto è cominciato il 3 novembre, quando
una piccola folla di coloni dell’insediamento illegale di Psigat Zeev
si è riunita davanti alla casa del sindaco israeliano di Gerusalemme,
Nir Barakat. Chiedevano che il governo ponesse termine all’
“inquinamento acustico” proveniente dalle moschee della città.
L’ ‘inquinamento acustico’ – così
definito dalla maggior parte dei coloni europei arrivati in Palestina
solo recentemente – sono i richiami alla preghiera che si svolgono nella
città fin dal 637 d.C., quando il califfo Omar entrò nella città e
ordinò di rispettare tutti i suoi abitanti, a prescindere dalla loro
fede religiosa.
Il sindaco israeliano si è prontamente e
immediatamente preso l’impegno. Senza perdere tempo, i soldati
israeliani hanno incominciato ad irrompere nelle moschee, comprese
quelle di al-Rahman, al-Taybeh e al-Jamia di Abu Dis, sobborgo di
Gerusalemme.
Secondo quanto riportato da International Business Times, citando Ma’an
ed altri media, “prima dell’alba sono arrivati ufficiali militari per
informare del bando i muezzin, gli uomini responsabili del richiamo alla
preghiera attraverso gli altoparlanti della moschea, ed hanno impedito
ai musulmani del posto di raggiungere i luoghi di culto.”
La preghiera per cinque volte al giorno è
il secondo dei cinque pilastri dell’Islam e il richiamo alla preghiera è
la chiamata ai musulmani perché adempiano a tale dovere. E’ anche un
elemento essenziale dell’identità intrinseca di Gerusalemme, dove le
campane delle chiese e il richiamo alla preghiera delle moschee spesso
si intrecciano in un armonico monito che la coesistenza è una
possibilità reale.
Ma la coesistenza non è possibile con
l’esercito, il governo ed il sindaco della città israeliani, che
trattano Gerusalemme occupata come una base d’appoggio per la vendetta
politica e la punizione collettiva.
Bandire il richiamo alla preghiera è
unicamente un modo per ricordare il dominio israeliano sulla Città Santa
ferita ed un messaggio che il controllo di Israele va oltre quello
sulle situazioni concrete, arrivando ad incidere su tutti gli altri
ambiti.
La versione israeliana del colonialismo
d’insediamento non ha quasi precedenti. Non mira semplicemente al
controllo, ma alla totale supremazia.
Quando la moschea del mio vecchio campo
profughi venne distrutta, e subito dopo che furono estratti da sotto le
macerie alcuni corpi per essere bruciati, i residenti del campo
pregarono in cima ed intorno alle rovine. Questa prassi si è ripetuta
altrove a Gaza, non solo durante l’ultima guerra, ma anche durante
quelle precedenti.
A Gerusalemme, quando viene loro
impedito di raggiungere i loro luoghi sacri, spesso i palestinesi si
radunano dietro ai checkpoint dell’esercito e pregano. Anche questa è
stata una pratica testimoniata per circa cinquant’anni, da quando
Gerusalemme è caduta sotto l’esercito israeliano.
Nessuna coercizione e nessun ordine del tribunale potrà mai cambiare questo.
Se Israele ha il potere di imprigionare
gli imam, demolire le moschee ed impedire i richiami alla preghiera, la
fede dei palestinesi ha dispiegato una forza molto più imponente, per
cui comunque Gerusalemme non ha mai smesso di chiamare i suoi fedeli ed
essi non hanno mai smesso di pregare. Per la libertà e per la pace.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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