Israele, l'ora dei falchi aspettando Donald

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di Francesco Romanetti

Dall'inviato
GERUSALEMME
 Per i coloni di Amona, ieri, è stata una doppia festa. Ma non solo per loro. Anzi. Anche gli ultranazionalisti di Casa Ebraica, anche gli estremisti che presidiano gli insediamenti illegali, anche gli zeloti e i «templari» che predicano la distruzione delle moschee di Gerusalemme per far posto alla costruzione del Terzo tempio e anche tutti i super-falchi che si annidano nel governo del falco Netanyahu, hanno festeggiato due volte. Per lo shabbat, il sabato ebraico. E poi soprattutto per il blitz alla Knesset (il parlamento) che ha portato l'altro giorno all'approvazione in prima lettura della legge di sanatoria che legalizza gli «avamposti» ebraici in terra palestinese. Un provvedimento passato in tutta fretta, che appare come un primo «effetto Trump»: e che neppure lo stesso Benjamin Netanyahu e il suo ministro ultrà della Difesa, Avigdor Lieberman, avrebbero voluto. La Regulation Law (così si chiama la legge), in sostanza, si fa beffe perfino della sentenza della Corte Suprema israeliana che aveva disposto lo sgombero degli «avamposti» entro il 25 dicembre.



Ma di cosa si tratta? Se gli «insediamenti» (le colonie ebraiche edificate in territorio palestinese e ritenute illegali dalla comunità internazionale) sono stati promossi e finanziati da tutti i governi israeliani (compreso quello del defunto Premio Nobel per la Pace, Shimon Peres), gli «avamposti» sono stati illegalmente realizzati da gruppi ultranazionalisti ed estremisti ebraici su terre private palestinesi. Senza consenso governativo. Violando ogni diritto. In tutto sono un centinaio in tutta la Cisgiordania. Il più grande è quello di Amona: appena 42 famiglie. Per Isaac Herzog, leader di un'ormai esile e tacitata opposizione a Netanyahu, la Regulation Law è «una legge da incubo». Resta il fatto che la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti ha galvanizzato populismi, revanchismi razziali ed estremismi non solo in Europa. Tutt'altro. La residenza di Naftali Bennett, ministro dell'Istruzione e capo del partito ultranazionalista Focolare Ebraico, sorge nella colonia di Nokdim, a sud di Betlemme. Ma da qui, dalla città palestinese dove nacque Gesù, la casa del ministro non si vede. Perché è oltre il gigantesco muro di separazione costruito da Israele, che circonda e isola tutti i territori palestinesi occupati. Betlemme inclusa. Naftali Bennett non è solo l'uomo che ha presentato la Regulation Law. È lo stesso personaggio che a poche ore dalla vittoria di Trump esultò senza mezzi termini: «È finita l'era dello stato palestinese».



Dunque: niente più trattative, niente soluzione negoziata del conflitto, niente più processo di pace (in realtà congelato già da anni). La settimana prossima proprio questo esponente delle posizioni più estreme della destra israeliana prenderà un aereo con destinazione New York. Sarà alla cena organizzata dalla Zionist American Organization. E forse Bennett siederà proprio accanto a Steve Bannon, il folcloristico e discusso neoconsigliere scelto da Trump, che anche alcune organizzazioni ebraiche americane accusano di razzismo e antisemitismo. Ma che è schierato decisamente dalla parte della destra israeliana. Quel che è certo è che un posto a tavola è stato riservato a Sheldon Adelson, proprietario del giornale Israel HaYom, uomo di Netanyahu e tra i finanziatori della campagna elettorale di Trump. A Gerusalemme, nel cuore della città vecchia, nella parte araba, le bandiere con la stella di David sventolano su antichi edifici occupati dai coloni. Gruppi di turisti si inerpicano lungo la «via Dolorosa», la strada del Calvario. Qui l'organizzazione «Ataret Cohanim» predica l'espulsione delle famiglie palestinesi da Batan al Hawa, nel quartiere di Silwan. L'irresistibile ascesa di Trump ha impresso un'accelerazione alle iniziative di tutti i gruppi oltranzisti. Yossi Dagan, leader dei coloni, chiede che non venga posto più alcun vincolo alla costruzione di nuovi insediamenti. E la mette così: «Donald Trump si è rivelato più israeliano degli israeliani. Conosco le persone del suo entourage e so che sono più a destra di alcuni dei nostri ministri». Già. L'aria che tira qui è questa. Le prime nomine di «The Donald» portano d'altra parte personaggi ritenuti islamofobi e anti-immigrati ai ministeri della Giustizia e della Sicurezza Nazionale e a capo della Cia.



Posti strategici. Ma dal fronte palestinese a destare serie preoccupazioni è la possibile incoronazione di Jason Greenblatt, già stretto collaboratore di Trump, come inviato per il Medio Oriente. Greenblatt gode (ovviamente) anche lui fama di falco. Ha già chiarito che «non appartiene certamente alla visione di Trump la condanna dell'attività di insediamenti». Condannata invece da tutta la comunità internazionale e fortemente osteggiata dall'amministrazione Obama. Ma il colpo che potrebbe far precipitare davvero la situazione e aprire scenari incontrollabili, sarebbe sferrato se davvero - come promesso in campagna elettorale - il neopresidente Trump spostasse la sede dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Nessuna amministrazione Usa l'ha mai neppure preso in considerazione, perché un atto del genere significherebbe riconoscere l'intera Gerusalemme, compresa la zona palestinese occupata nel 1967, come capitale di Israele. Tra l'altro, in violazione delle risoluzioni dell'Onu che da cinquant'anni chiedono (inutilmente) il ritiro israeliano dalle zone occupate. E tanto per chiarire quali sono le attese, il deputato Yehuda Glick ha già invitato Trump a salire «al monte del Tempio»: in sostanza a bissare la famosa e famigerata «passeggiata-provocazione» di Sharon sulla Spianata delle Moschee, che nl 2000 innescò la miccia della seconda Intifada. Amare le considerazioni di monsignor Pierbattista Pizzaballa, nominato amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme da papa Francesco: «La situazione israelo-palestinese avrà bisogno di molto tempo per riprendere il cammino.
La società israeliana e il governo vanno a destra, quella palestinese è debole e divisa. Non vedo all'orizzonte elementi che possano far pensare ad un cambiamento immediato. Ma spero di sbagliare». Per raggiungere Ramallah, dall'altra parte del muro, dove ha sede l'Autorità Nazionale Palestinese, i posti di blocco e i check-point continuano a segnare il confine tra uno Stato e una terra a sovranità limitata. Dalla notte tra l'8 e il 9 novembre, quando si seppe che nuovo presidente americano era davvero diventato Donald Trump, i leader palestinesi hanno smozzicato poche e imbarazzate parole. Attendismo. Diplomazia. Timore. «Quello che ci interessa ora è cosa dirà Trump dopo il suo insediamento alla Casa Bianca», è il poco che ha voluto far sapere finora il presidente Abu Mazen. Aggiungendo: «Quello che chiediamo all'America è che accetti di agire in direzione della soluzione di 2 stati che vivano uno accanto all'altro in pace e stabilità». Appunto. Perfino i capi di Hamas, da Gaza, sembrano sotto tono: «Non ci può essere stabilità nella regione senza diritti alla Palestina», fanno sapere. Da Khaled Mashaal arriva poco più che uno scontato rimbrotto: «Siamo stanchi della vostra politica schierata. È arrivato il momento che comprendiate che Israele è diventato per voi un ostacolo». Aspettando la prossima mossa di Trump.
Domenica 20 Novembre 2016, 10:02 - Ultimo aggiornamento: 20-11-2016 10:02
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