FULVIO SCAGLIONE - Se l'informazione indossa l'elmetto

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Non siamo in guerra, per fortuna. Tuttavia siamo in una guerra. Le potenze, e i Paesi che aspirano a diventarlo o non riescono a dimenticare di esserlo stati, si combattono in Siria, in Ucraina, in Libia, in Iraq, in Afghanistan, nello Yemen. Il computo dei morti è da guerra vera: da 300 a 450 mila in Siria, più di 10 mila in Ucraina, 20 mila in Libia, un numero addirittura imprecisato ma enorme in Iraq, oltre 100 mila in Afghanistan. La guerra ci circonda e permea i nostri spiriti.
Non sarà quindi azzardato pensare che anche l’informazione (altra cosa che ormai ci permea, che non arriva più solo dalle agenzie deputate come giornali e Tv ma circola libera nell’aria) sia almeno in parte diventata una informazione di guerra. Quindi ligia alle regole dei tempi di guerra, in cui “i nostri” e “i loro”, e quindi “il bene” (noi) e “il male” (loro) sono categorie dirimenti.
Lo si vede bene se si mettono a confronto le diverse interpretazioni di fatti assolutamente analoghi. Battaglia a Mosul per cacciare l’Isis dalla Piana di Niniveh e dall’Iraq: da giorni e giorni i titoli dei giornali ripetono senza sosta il concetto che i miliziani del califfato si fanno scudo dei civili, pronti a sacrificarli per proteggersi dai bombardamenti e dagli attacchi. Questo anche quando le truppe irachene e le brigate dei volontari sciiti non erano ancora entrate in città, mentre intanto l’Isis stava già sterminando centinaia di civili inermi.
Spostiamoci ad Aleppo, in Siria, dove l’esercito regolare di Assad (dal settembre del 2015 supportato dai russi) si confronta con i ribelli di Al Nusra e di altre formazioni. Qui non si dice mai che i miliziani si fanno scudo dei civili, anche se le formazioni di Al Nusra hanno rifiutato il salvacondotto offerto da Staffan de Mistura, l’inviato speciale del’Onu, che offriva loro di uscire indenni dalla città proprio per risparmiare inutili sofferenze ai civili vittime dei bombardamenti russo-siriani. Per Aleppo si parla solo di bombe che colpiscono i civili.
Un altro salto, fino allo Yemen. Qui l’aviazione dell’Arabia Saudita colpisce con regolarità obiettivi civili. L’anno scorso, in due settimane tra fine settembre e i primi di ottobre, i caccia di Ryad sganciarono bombe su due feste di nozze, con un bilancio di oltre 200 morti tra i civili. Nell’ottobre di quest’anno è toccata a un funerale: 155 morti. E poi le scuole, i mercati, i quartieri. Qui la cosa si fa più imbarazzante: la coalizione militare guidata dai sauditi gode infatti del supporto di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Canada e Turchia, civilissimi Paesi che forniscono le bombe da sganciare sulle feste di nozze e, soprattutto gli Usa, l’intelligence militare che così bene guida i caccia sugli obiettivi civili. La soluzione scelta è: parlarne il meno possibile. Anche se migliaia di morti, decine di migliaia di feriti e un milione di profughi meriterebbero un po’ d’attenzione.
E infine Gaza. Durante l’ultima guerra, quella durata sette settimane nell’estate del 2014, sono morti più di 2 mila palestinesi: 2.310 secondo il ministero della Salute della Striscia, 2.251 secondo le Nazioni Unite, 2,125 secondo il ministero degli Esteri di Israele. Basta essere stati a Gaza in quei tempi (e il sottoscritto c’era) per capire che le “bombe intelligenti” sono un mito e che i miliziani di Hamas usavano i civili come scudi, anche perché nella sovrappopolatissima Striscia non c’è posto per nascondersi, a parte qualche tunnel. Risultato: l’informazione perbene, che ha paura a parlar male di Israele e si vergogna di criticare i palestinesi, tratta quelle storie come un evento naturale, un tifone o un terremoto. Capita, che vogliamo farci…
Fulvio Scaglione
(2 novembre 2016)

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