Fulvio Scaglione: Jihad e sbarchi: ecco perché le primavere arabe torneranno, e non è una buona notizia


 
 
 
 
 
 
Sembravano l’alba di una nuova stagione democratica a colpi di Twitter e…
tinyurl.com/hobf48c|Di Fulvio Scaglione
 
 
A dispetto dei tanti pasticci che l'Alleanza va combinando in giro per il mondo, aspettarsi una qualche forma di autocritica dagli ambienti Nato sarebbe ovviamente troppo. Quindi non si sa bene come prendere la relazione passata all'esame dell'Assemblea parlamentare della Nato stessa, 140 rappresentanti dei Paesi membri che hanno in teoria il compito di “dettare la linea” alla struttura militare.
Il documento (“The expansion of Daesh to Libya and the Western Mediterranean”) parla in buona sostanza di terrorismo e immigrazione. Tiene giustamente collegati i due fenomeni ma, per essere onesti, sembra scritto da un gruppo di marziani. È possibile scrivere che “tanto più caotica diventa la situazione in una determinata società, tanto più rapida e arrogante (e brutale) è l'espansione dei gruppi terroristici”? Banalità a parte, sì, è possibile. A patto però di ricordare che il caos, in Libia, l'hanno portato Francia, Gran Bretagna e Usa con la collaborazione della missione Unified Protector della Nato stessa, cui oparteciparono 19 Paesi e che tra il 25 marzo e il 31 ottobre del 2011 giocò un ruolo decisivo nel precipitare la società libica nel marasma da cui non è ancora uscita, jihadismo compreso.
È anche legittimo ricordare lo stretto rapporto tra avanzata jihadista e flussi migratori. Ma si può farlo senza menzionare il fatto che nel 2015 la Nato si schierò a protezione (da cosa?) del confine tra Turchia e Siria, cioè il confine che la Turchia aveva fin lì usato, e userà ancora per mesi in seguito, per far arrivare ai jihadisti truppe fresche (migliaia e migliaia dei cosiddetti foreign fighters), rifornimenti, armi e denaro, e quindi fomentare la distruzione della Siria. Se c'è un nesso tra jihadismo e flussi migratori, anche questi fatti meritano un minimo d'attenzione. Ma tant'è.
All'epoca delle cosiddette "primavere arabe" si pensò che per rifare quel mondo, e naturalmente renderlo simile al nostro che deve restare il paradigma unico di riferimento, bastassero un po' di tweet
Interessante, nella relazione, è anche l'accenno alla “crescente radicalizzazione di vasti segmenti della società, in particolare i giovani, che sono spesso disillusi dal fallimento dei movimenti rivoluzionari che loro stessi avevano lanciato”. Si legge in trasparenza un giudizio sulle Primavere arabe che suona liquidatorio. E lo è allo stesso modo e nella stessa misura in cui fu estatico e sognante quello dato nel 2011, all'epoca dei tumulti e delle rivolte che turbarono l'intero Medio Oriente, dalla Tunisia al Bahrein, dall'Egitto alla Siria, dalla Giordania al Marocco allo Yemen.
Allora si pensò che per rifare quel mondo, e naturalmente renderlo simile al nostro che deve restare il paradigma unico di riferimento, bastassero un po' di tweet. La rivoluzione secondo i riti e i miti della happy hour generation d'Europa, insomma. Mentre adesso, ma con la stessa facilità, le Primavere arabe sono degradate a un'inutile occasione per fare un po' di casino da parte di gruppi d'ingenui che poi sono corsi ad arruolarsi nelle milizie jihadiste.
Allora come oggi, l'Occidente rifiuta tenacemente di confrontarsi con la realtà del Medio Oriente. Regione che dalla metà degli anni Settanta, cioè dopo quello che noi chiamammo “shock petrolifero”, ha sfruttato gli introiti del greggio per concedersi un baby boom durato più di due decenni. Nel 1980, quando la crescita della popolazione mondiale era dell'1,85% l'anno, il Medio Oriente cresceva del 3%. Nel 2000, aveva meno di 25 anni il 55,7% della popolazione in Egitto, il 50,4% in Turchia, il 59,3% in Iran, il 62,3% in Arabia Saudita, il 61,7% in Iraq, il 63,3% nello Yemen. Oggi, in Medio Oriente, il 35% della popolazione, pari a 120 milioni di persone, ha meno di 30 anni.
La questione dei giovani in Medio Oriente è, ancora adesso, un tappo pronto a saltare. E che nel frattempo produce immigrazione e jihadismo. Ma diciamocelo: che altro dovrebbe fare?
L'onda lunga di questa piena di giovani ha fatto saltare una serie di equilibrii già precari. Anche perché per tutti gli anni Novanta, la spesa media regionale in istruzione e scolarizzazione è stata di primissimo livello: in media il 5% del Pil, livelli degni di quell'Europa felix ormai così lontana nel tempo. Il che ha visto arrivare sul mercato del lavoro un mare di giovani: nei 10 anni tra il 2000 e il 2010, secondo i dati della Banca mondiale, la forza lavoro mediorientale (cioè, chi ha lavoro e chi lo cerca) è cresciuta del 40%. Ma non solo: un mare di giovani con il classico “pezzo di carta” in mano, quindi pieni di aspettative. Tutte deluse, perché la scuola dava un diploma ma non una professione, perché i regimi erano statici (Mubarak, Gheddafi, gli Assad, Ben Alì, Alì Abdallah Saleh, tutti al potere da almeno 25 anni), corrotti e inefficienti, e il mercato del lavoro asfittico.
Le Primavere arabe, quindi, non sono una simpatica invenzione dei giovani mediorientali ma il loro grido di dolore. Quello che abbiamo visto nel 2011 (e ancor prima, nel 2009, in un Paese non arabo: l'Iran della contestazione contro Mahmoud Ahmadinejad) è l'indizio che da quelle parti c'è un tappo che vuole saltare. È un problema sociale, non una questione culturale come da due decenni i neocon vogliono farci credere.
E se il riflusso ha portato dei giovani ad abbracciare la causa dell'estremismo islamico, non è perché su di loro ha lavorato la delusione. Più semplicemente, il modello islamista, per quanto illusorio e perverso sia, era di gran lunga più “convincente” rispetto all'ambiente e “vero” rispetto alle esigenze concrete della happy hour politics di cui li volevamo appassionati.
Il tappo ha portato qualche scossone, di cui a volte hanno approfittato le potenze regionali per perseguire, attraverso il jihadismo, vecchi e consolidati obiettivi, come in Siria, nello Yemen o nel Bahrein “pacificato” dai carri armati sauditi. Altre volte siamo stati noi a metterci le mani, come in Libia. In altri casi ancora i potentati locali hanno ripreso il potere, come in Egitto. Ma il tappo è sempre lì, pronto a saltare. Nel frattempo, produce immigrazione e jihadismo. Ma diciamocelo: che altro dovrebbe fare?
 

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