Ugo Tramballi : L’omaggio a Peres e la pace tormentata
«N on potrei sentirmi più onorato di essere qui, a Gerusalemme, per dire
addio al mio amico». Avendo cercato la pace negli ultimi 30 anni della
sua vita, Shimon Peres sarebbe stato felice se una parte di questa
amicizia – intima, quasi tra figlio a padre - Barack Obama la riservasse
per Bibi Netanyahu. Ma una questione di chimica personale, oltre che
una totale divergenza politica, rendono il premier israeliano inviso al
presidente americano. E viceversa. Il primo spera in una vittoria di
Donald Trump, il secondo di fare un’ultima sorpresa a Netanyahu, prima
di lasciare la Casa Bianca. Così ieri sul monte Herzl alle porte di
Gerusalemme dedicato al fondatore del sionismo, Shimon Peres è stato
sepolto nel luogo dove riposano gli eroi d’Israele. La bandiera bianca e
azzurra è stata ripiegata; capi di Stato, di governo, principi e
dignitari hanno ridisceso i monti di Giudea per raggiungere l’aeroporto
in attesa del loro turno per decollare, Bibi Netanyahu è tornato nel suo
ufficio di premier. E la possibilità di una ripresa del negoziato di
pace fra israeliani e palestinesi, fermo da sei anni, resta lontana come
prima. Peggio: nel “campo della pace” che per la maggioranza degli
israeliani è sinonimo di illusi, alle spalle di Peres c’è un vuoto
siderale. I partiti che appartengono a quel fronte, soprattutto i
laburisti, consumano uno dopo l’altro candidati scialbi, regolarmente
triturati da Netanyahu e dai sui alleati nazional-religiosi. Per Israele
le guerre mediorientali sono alle frontiere, non oltre il Mediterraneo:
qui dunque il populismo non fatica a conquistare consensi.
La notizia politica più eclatante di questa giornata d’addio, è stata
la partecipazione di Abu Mazen alle esequie. Il presidente
dell’Autorità palestinese aveva chiesto l’autorizzazione di esserci e
Netanyahu l’aveva concessa senza esitare. Per affermare il loro possesso
sull’intera e “indivisibile” città, è raro che gli israeliani aprano
Gerusalemme ai dirigenti palestinesi. «Apprezzo molto che abbia voluto
venire al funerale», ha detto Netanyahu ad Abu Mazen, con cordialità. I
due si sono stretti la mano e hanno scambiato qualche parola. Ma sperare
è esagerato. Le posizioni sono troppo distanti: il governo di Bibi ha
approvato un nuovo allargamento delle colonie ebraiche attorno e dentro
la Gerusalemme araba, e legalizzato 32 avamposti: spesso un avamposto è
il nucleo di un nuovo insediamento. Il leader palestinese è un capo
troppo debole, senza idee né il seguito di un popolo che ha esaurito le
speranze. Eppure, se 70 fra le personalità di maggior potere nel mondo,
sono salite fino a Gerusalemme, lasciando campagne elettorali e
referendarie, bilanci da sistemare e banche da salvare, non è stato solo
per onorare una personalità come Peres che per 70 anni ha calcato la
scena israeliana, mediorientale e mondiale. L’hanno fatto anche per
segnalare il desiderio irrealizzato di una pace per il più lungo
conflitto dei nostri giorni: è iniziato nel XIX secolo, ha attraversato
il XX e al sedicesimo anno del XXI ancora non ha un approdo. Con l’Isis e
le guerre regionali, oggi non è una priorità per nessuno (a parte i
palestinesi, naturalmente). Ma è il confronto più antico, il più legato
alla memoria storica di tutti, la sua scena è il luogo dove sono nate le
religioni del Libro. Nessun conflitto si risolve da solo: se
abbandonato a se stesso prima o poi si rifà vivo con più drammaticità.
Ogni fase di stagnazione di questo è sempre stata l’incubatrice di nuove
esplosioni. Anche se il fronte sunnita nelle guerre civili arabe è un
alleato naturale di Israele, l’Arabia Saudita e gli altri non
formalizzeranno mai questo interesse condiviso senza una soluzione della
questione palestinese: ignorare Abu Mazen perché l’Iran è una minaccia
comune, è un conto; abbandonarlo è altro. Quello che Bibi Netaniahu teme
di Barack Obama, e che ne aumenta la sfiducia e l’ostilità, è un colpo
di teatro diplomatico entro gennaio, prima che un nuovo presidente
occupi lo studio ovale. Obama potrebbe non porre il veto americano a una
imminente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che rilanci
il processo di pace: qualsiasi cosa si decida al Palazzo di Vetro, nella
storia del conflitto gli Usa si sono sempre serviti dell’arma del veto
contro qualsiasi proposta che non fosse a favore di Israele. Per
Netanyahu sarebbe imbarazzante. Quasi disarmati, intanto ai palestinesi
di Cisgiordania non resta che combattere quella che definiscono
“intifada diplomatica”: un’offensiva internazionale che avrà pochi amici
anche l’anno prossimo, nel cinquantesimo dell’occupazione israeliana
dei territori palestinesi. Invece armati, i palestinesi di Hamas a Gaza
continueranno il loro insensato confronto militare con le forze armate
più potenti della regione e fra le più preparate del mondo. La storia
sembra senza fine. Chiunque lo abbia conosciuto in vita sa che sul monte
Herzl da ieri Shimon Peres riposa. Ma non in pace.
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