MAJED BAMYA : io ,il diritto internazionale e l'ambasciatore israeliano
di MAJED BAMYA
12 ottobre 2016
Majed Bamya fa parte della delegazione palestinese alle Nazioni Unite. Ha 33 anni e appartiene alla nuova generazione di Palestinesi che hanno deciso di lavorare nelle istituzioni, portandovi la loro competenza e professionalità unita alla passione per la giustizia e all’orgoglio di essere Palestinesi. È stato e continua ad essere il più grande sostenitore della campagna per la libertà di Marwan Barghouthi e si deve a lui il lavoro per il lancio della campagna a Robben Island.
Avevo sei anni quando presi la decisione più importante della mia vita. Senza capirne pienamente le implicazioni, ero tuttavia sicuro di quello che sarebbe stato il mio destino: servire la mia patria e liberarla dall’occupazione e dall’oppressore. Allora non avevo un’idea chiara di come avrei potuto farlo, ma si può ben perdonare un bambino di sei anni se non sa come realizzare un obiettivo tanto importante. Devo però ammettere che ancor oggi non sono sicuro di quale sia la strada per raggiungere quell’obiettivo. Ma ho fiducia che, nonostante tutto, i nostri passi uno dopo l’altro ci condurranno alla meta.
Lungo il percorso ho dovuto prendere molte decisioni, scegliere di volta in volta una direzione piuttosto che un’altra, chiedendomi ogni volta se mi stavo avvicinando o allontanando dal mio sogno. Il lungo cammino verso la libertà è continuato in paesi e continenti diversi e quando ho dovuto scegliere che studi fare ho deciso per giurisprudenza. Quale segno più evidente della nostra determinazione, o forse addirittura caparbietà, che decidere di studiare il diritto internazionale e le garanzie che vi vengono affermate, proprio quelle che a noi sono negate? È pur vero che negli anni quaranta, quando il mondo vedeva la produzione dei documenti più importanti per l’affermazione dei diritti (la carta dell’ONU, la dichiarazione universale dei diritti umani e la convenzione di Ginevra), il popolo palestinese doveva invece affrontare la Nakba (la Catastrofe), le espulsioni e i trasferimenti che proseguono ancora oggi, dopo settant’anni. Io però ho sempre creduto che, se la risolutezza del mio popolo è la vera voce della nostra lotta, è altrettanto importante diffondere questa voce perché tutti possano udirla: e quale strumento più consono a ciò del diritto internazionale? Smisi di contare le ore, il sonno divenne il mio nemico e mi dedicai anima e corpo alla scalata di una vetta che sembrava irraggiungibile. Tuttavia i miei sforzi sono nulla in confronto alle sofferenze e ai sacrifici che molti, soprattutto quelli della mia generazione, hanno sopportato, volenti o nolenti, perché questo sogno prima o poi si avveri.
Sono entrato a far parte della diplomazia palestinese, orgoglioso di raccogliere l’eredità dei suoi fondatori, alcuni dei quali hanno sacrificato la loro vita per dare una voce al nostro popolo e impedire che ne fosse negata l’esistenza. Mi è stato affidato il compito di istituire il primo dipartimento di diritto e trattati internazionali all’interno del Ministero degli Affari Esteri, un grande onore per me. La Palestina, essendo diventata uno Stato all’interno delle Nazioni Unite e avendo preso parte alla formulazione di più di cinquanta accordi chiave, pian piano andava rafforzando legalmente la sua posizione nell’arena internazionale, con la speranza che ciò potesse tramutarsi in sovranità territoriale. In quel periodo, la Palestina è diventata membro dell’ICC (Corte Penale Internazionale) e quello che era sembrato impossibile -portare davanti alla giustizia i responsabili di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità commessi nei confronti del nostro popolo- si è tramutato in un obiettivo praticabile che abbiamo perseguito con tutte le nostre forze. Giustizia e non vendetta. Universalità di giudizio invece del principio dei due pesi e due misure. Il diritto che vince sulla forza.
Ma il diritto internazionale che ho studiato per anni non è bastato a difenderci da ciò che abbiamo subito e ancora stiamo subendo. Eppure, sebbene esso abbia fallito nell’ottenere giustizia, ha comunque rivelato l’ingiustizia. Io ho trovato conforto nella lucida condanna da parte del diritto internazionale delle azioni e delle politiche di Israele e dell’occupazione colonialista nelle sue molteplici manifestazioni. Il disagio di Israele riguardo al diritto internazionale, le contorsioni che i suoi sostenitori sono costretti a fare per evitare la condanna di Israele, mi inducevano a credere che questo strumento possente, unito alla lotta del nostro popolo, avrebbe prima o poi invertito il corso degli eventi che tanta disperazione infliggono alle nostre vite.
Ma se c’è qualcosa che abbiamo imparato strada facendo, è proprio l’ironia della storia, il suo stretto legame con l’assurdo. Abbiamo visto spartire la nostra terra contro il volere del popolo che l’abitava. Siamo praticamente spariti dalla carta geografica e siamo stati a un passo dallo scomparire dalla storia. Solo la mitica determinazione e resistenza del popolo palestinese e la solidarietà di molti nel mondo hanno impedito che ciò accadesse. Abbiamo visto la potenza coloniale negare la nostra stessa esistenza, poi riconoscerla in parte e negare però i nostri diritti e poi riconoscere in parte i nostri diritti mentre accelerava e consolidava il suo colonialismo. Pensavo di aver visto tutto il possibile.
Sono passato attraverso esperienze che hanno messo a dura prova i principi in cui credo. Sono stato colpito e insultato dai soldati israeliani, sono stato minacciato dai coloni, un uomo che urlava in una lingua che non capivo mi ha tenuto sotto tiro con il suo fucile, ho visto un uomo colpito a morte davanti ai miei occhi e molti che venivano feriti. Conosco il sangue – la sua densità, il suo colore vivido- che scorre via facendo impallidire i corpi. Il diritto internazionale non può resuscitare i morti o guarire i feriti. Non è riuscito a fermare le bombe che colpivano le case e le scuole, le moschee e le chiese, gli ospedali e le cliniche di Gaza; non è riuscito a dare rifugio a coloro che non avevano più nessun riparo, assediati e sotto i bombardamenti. Non è riuscito a smantellare un solo insediamento o a prevenirne almeno l’espansione o a proteggerci dalla violenza dei coloni a Gerusalemme, a Nablus o ad Al-Khalil [Hebron], o a fermare la costruzione del muro che distrugge le nostre case e infrange i nostri sogni, non è riuscito a fermare i nostri trasferimenti forzati senza fine. Nonostante numerose risoluzioni e trattati affermino i nostri diritti, siamo ancora una nazione di rifugiati e un popolo che vive sotto un’occupazione coloniale. Tutto questo io lo sapevo, ma non bastava a scuotere la mia ferma convinzione che, inscrivendo i nostri diritti nei libri dei diritti universali, alla fine li avremmo ottenuti. Mai più avrei creduto che questa mia convinzione sarebbe stata messa alla prova non a Gerusalemme, ma a New York.
Ero ansioso di partecipare alle riunioni delle Nazioni Unite, comprese quelle della sesta commissione, dedicata alle questioni legali e in particolare a promuovere il rispetto delle leggi internazionali. Volevo parlare della Palestina e del nostro rispetto per il diritto internazionale nonostante quello che abbiamo subito, o forse proprio a causa di quello che abbiamo subito; volevo parlare della protezione della popolazione civile come fondamento del IHL (Diritto Internazionale Umanitario) e degli attacchi indiscriminati che sono il carattere portante della prassi militare israeliana. Volevo parlare del milione circa di Palestinesi arrestati arbitrariamente nel corso di 50 anni e di come migliaia di prigionieri stavano di fatto piantando semi i cui frutti di libertà prima o poi noi avremmo raccolto. Volevo parlare del blocco inflitto a due milioni di Palestinesi, del regime coloniale e della costruzione del muro, della discriminazione e della segregazione da entrambi i lati della linea verde, dei milioni di rifugiati palestinesi e del loro diritto a ritornare nella loro patria che il mondo continua a ignorare, delle loro sofferenze in Iraq e in Libano, a Jabalia e a Yarmouk. Yarmouk, la ferita aperta che continua a sanguinare giorno dopo giorno. Volevo parlare di questa forma di colonialismo post-coloniale e della rinascita dell’apartheid.
Ma alle Nazioni Unite quando parli a una commissione, ti rivolgi al suo presidente. E accade che, a partire da questa sessione, il presidente della commissione sia l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Danny Danon. Una persona che non rispetta la giustizia e le regole del diritto internazionale. Una persona che non crede nella universalità delle libertà fondamentali e dei diritti umani. E soprattutto una persona che rappresenta un regime coloniale fermamente convinto di avere il diritto di infrangere, negare e violare qualsiasi regola, qualsiasi principio. Io non ho dubbi che presiedere la commissione invece che poter solo cercare di controllarla, incoraggerà ancor più Israele a violare il diritto internazionale. Il destino ha voluto che io parlassi alla prima seduta della commissione presieduta dall’ambasciatore israeliano. Un rappresentante di una nazione occupata che parla di diritto internazionale in una riunione presieduta da un rappresentante della forza occupante.
Il diritto internazionale non ci ha protetto, perché la sua forza dipende dalla volontà dei paesi e delle istituzioni a cui è affidato il compito di applicarne le regole. Non basta approvare le leggi perché sia fatta giustizia, bisogna che esse vengano applicate. Senza l’applicazione delle leggi nessuno è chiamato a rispondere delle proprie azioni e l’impunità porta alla ripetizione dei crimini. Noi siamo una testimonianza vivente di questa realtà. Danny Danon non dovrebbe presiedere una commissione giuridica delle Nazioni Unite, ma dovrebbe sedere in un’aula di tribunale a rispondere dei crimini del suo governo. E prima o poi succederà. Ma bisogna ricordare che ogni minuto in più che passa vuol dire altre sofferenze per i Palestinesi. E la mia mente va di nuovo agli insediamenti, al muro, alle case distrutte, agli alberi sradicati, ai rifugiati, ai prigionieri, al blocco, alla densità e al colore vivido del sangue, che scorre via facendo impallidire i corpi.
https://www.facebook.com/notes/majed-bamya/international-law-the-israeli-ambassador-to-the-un-and-i/1206148712740556
Traduzione di Nara Ronchetti
12 ottobre 2016
Majed Bamya fa parte della delegazione palestinese alle Nazioni Unite. Ha 33 anni e appartiene alla nuova generazione di Palestinesi che hanno deciso di lavorare nelle istituzioni, portandovi la loro competenza e professionalità unita alla passione per la giustizia e all’orgoglio di essere Palestinesi. È stato e continua ad essere il più grande sostenitore della campagna per la libertà di Marwan Barghouthi e si deve a lui il lavoro per il lancio della campagna a Robben Island.
Avevo sei anni quando presi la decisione più importante della mia vita. Senza capirne pienamente le implicazioni, ero tuttavia sicuro di quello che sarebbe stato il mio destino: servire la mia patria e liberarla dall’occupazione e dall’oppressore. Allora non avevo un’idea chiara di come avrei potuto farlo, ma si può ben perdonare un bambino di sei anni se non sa come realizzare un obiettivo tanto importante. Devo però ammettere che ancor oggi non sono sicuro di quale sia la strada per raggiungere quell’obiettivo. Ma ho fiducia che, nonostante tutto, i nostri passi uno dopo l’altro ci condurranno alla meta.
Lungo il percorso ho dovuto prendere molte decisioni, scegliere di volta in volta una direzione piuttosto che un’altra, chiedendomi ogni volta se mi stavo avvicinando o allontanando dal mio sogno. Il lungo cammino verso la libertà è continuato in paesi e continenti diversi e quando ho dovuto scegliere che studi fare ho deciso per giurisprudenza. Quale segno più evidente della nostra determinazione, o forse addirittura caparbietà, che decidere di studiare il diritto internazionale e le garanzie che vi vengono affermate, proprio quelle che a noi sono negate? È pur vero che negli anni quaranta, quando il mondo vedeva la produzione dei documenti più importanti per l’affermazione dei diritti (la carta dell’ONU, la dichiarazione universale dei diritti umani e la convenzione di Ginevra), il popolo palestinese doveva invece affrontare la Nakba (la Catastrofe), le espulsioni e i trasferimenti che proseguono ancora oggi, dopo settant’anni. Io però ho sempre creduto che, se la risolutezza del mio popolo è la vera voce della nostra lotta, è altrettanto importante diffondere questa voce perché tutti possano udirla: e quale strumento più consono a ciò del diritto internazionale? Smisi di contare le ore, il sonno divenne il mio nemico e mi dedicai anima e corpo alla scalata di una vetta che sembrava irraggiungibile. Tuttavia i miei sforzi sono nulla in confronto alle sofferenze e ai sacrifici che molti, soprattutto quelli della mia generazione, hanno sopportato, volenti o nolenti, perché questo sogno prima o poi si avveri.
Sono entrato a far parte della diplomazia palestinese, orgoglioso di raccogliere l’eredità dei suoi fondatori, alcuni dei quali hanno sacrificato la loro vita per dare una voce al nostro popolo e impedire che ne fosse negata l’esistenza. Mi è stato affidato il compito di istituire il primo dipartimento di diritto e trattati internazionali all’interno del Ministero degli Affari Esteri, un grande onore per me. La Palestina, essendo diventata uno Stato all’interno delle Nazioni Unite e avendo preso parte alla formulazione di più di cinquanta accordi chiave, pian piano andava rafforzando legalmente la sua posizione nell’arena internazionale, con la speranza che ciò potesse tramutarsi in sovranità territoriale. In quel periodo, la Palestina è diventata membro dell’ICC (Corte Penale Internazionale) e quello che era sembrato impossibile -portare davanti alla giustizia i responsabili di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità commessi nei confronti del nostro popolo- si è tramutato in un obiettivo praticabile che abbiamo perseguito con tutte le nostre forze. Giustizia e non vendetta. Universalità di giudizio invece del principio dei due pesi e due misure. Il diritto che vince sulla forza.
Ma il diritto internazionale che ho studiato per anni non è bastato a difenderci da ciò che abbiamo subito e ancora stiamo subendo. Eppure, sebbene esso abbia fallito nell’ottenere giustizia, ha comunque rivelato l’ingiustizia. Io ho trovato conforto nella lucida condanna da parte del diritto internazionale delle azioni e delle politiche di Israele e dell’occupazione colonialista nelle sue molteplici manifestazioni. Il disagio di Israele riguardo al diritto internazionale, le contorsioni che i suoi sostenitori sono costretti a fare per evitare la condanna di Israele, mi inducevano a credere che questo strumento possente, unito alla lotta del nostro popolo, avrebbe prima o poi invertito il corso degli eventi che tanta disperazione infliggono alle nostre vite.
Ma se c’è qualcosa che abbiamo imparato strada facendo, è proprio l’ironia della storia, il suo stretto legame con l’assurdo. Abbiamo visto spartire la nostra terra contro il volere del popolo che l’abitava. Siamo praticamente spariti dalla carta geografica e siamo stati a un passo dallo scomparire dalla storia. Solo la mitica determinazione e resistenza del popolo palestinese e la solidarietà di molti nel mondo hanno impedito che ciò accadesse. Abbiamo visto la potenza coloniale negare la nostra stessa esistenza, poi riconoscerla in parte e negare però i nostri diritti e poi riconoscere in parte i nostri diritti mentre accelerava e consolidava il suo colonialismo. Pensavo di aver visto tutto il possibile.
Sono passato attraverso esperienze che hanno messo a dura prova i principi in cui credo. Sono stato colpito e insultato dai soldati israeliani, sono stato minacciato dai coloni, un uomo che urlava in una lingua che non capivo mi ha tenuto sotto tiro con il suo fucile, ho visto un uomo colpito a morte davanti ai miei occhi e molti che venivano feriti. Conosco il sangue – la sua densità, il suo colore vivido- che scorre via facendo impallidire i corpi. Il diritto internazionale non può resuscitare i morti o guarire i feriti. Non è riuscito a fermare le bombe che colpivano le case e le scuole, le moschee e le chiese, gli ospedali e le cliniche di Gaza; non è riuscito a dare rifugio a coloro che non avevano più nessun riparo, assediati e sotto i bombardamenti. Non è riuscito a smantellare un solo insediamento o a prevenirne almeno l’espansione o a proteggerci dalla violenza dei coloni a Gerusalemme, a Nablus o ad Al-Khalil [Hebron], o a fermare la costruzione del muro che distrugge le nostre case e infrange i nostri sogni, non è riuscito a fermare i nostri trasferimenti forzati senza fine. Nonostante numerose risoluzioni e trattati affermino i nostri diritti, siamo ancora una nazione di rifugiati e un popolo che vive sotto un’occupazione coloniale. Tutto questo io lo sapevo, ma non bastava a scuotere la mia ferma convinzione che, inscrivendo i nostri diritti nei libri dei diritti universali, alla fine li avremmo ottenuti. Mai più avrei creduto che questa mia convinzione sarebbe stata messa alla prova non a Gerusalemme, ma a New York.
Ero ansioso di partecipare alle riunioni delle Nazioni Unite, comprese quelle della sesta commissione, dedicata alle questioni legali e in particolare a promuovere il rispetto delle leggi internazionali. Volevo parlare della Palestina e del nostro rispetto per il diritto internazionale nonostante quello che abbiamo subito, o forse proprio a causa di quello che abbiamo subito; volevo parlare della protezione della popolazione civile come fondamento del IHL (Diritto Internazionale Umanitario) e degli attacchi indiscriminati che sono il carattere portante della prassi militare israeliana. Volevo parlare del milione circa di Palestinesi arrestati arbitrariamente nel corso di 50 anni e di come migliaia di prigionieri stavano di fatto piantando semi i cui frutti di libertà prima o poi noi avremmo raccolto. Volevo parlare del blocco inflitto a due milioni di Palestinesi, del regime coloniale e della costruzione del muro, della discriminazione e della segregazione da entrambi i lati della linea verde, dei milioni di rifugiati palestinesi e del loro diritto a ritornare nella loro patria che il mondo continua a ignorare, delle loro sofferenze in Iraq e in Libano, a Jabalia e a Yarmouk. Yarmouk, la ferita aperta che continua a sanguinare giorno dopo giorno. Volevo parlare di questa forma di colonialismo post-coloniale e della rinascita dell’apartheid.
Ma alle Nazioni Unite quando parli a una commissione, ti rivolgi al suo presidente. E accade che, a partire da questa sessione, il presidente della commissione sia l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Danny Danon. Una persona che non rispetta la giustizia e le regole del diritto internazionale. Una persona che non crede nella universalità delle libertà fondamentali e dei diritti umani. E soprattutto una persona che rappresenta un regime coloniale fermamente convinto di avere il diritto di infrangere, negare e violare qualsiasi regola, qualsiasi principio. Io non ho dubbi che presiedere la commissione invece che poter solo cercare di controllarla, incoraggerà ancor più Israele a violare il diritto internazionale. Il destino ha voluto che io parlassi alla prima seduta della commissione presieduta dall’ambasciatore israeliano. Un rappresentante di una nazione occupata che parla di diritto internazionale in una riunione presieduta da un rappresentante della forza occupante.
Il diritto internazionale non ci ha protetto, perché la sua forza dipende dalla volontà dei paesi e delle istituzioni a cui è affidato il compito di applicarne le regole. Non basta approvare le leggi perché sia fatta giustizia, bisogna che esse vengano applicate. Senza l’applicazione delle leggi nessuno è chiamato a rispondere delle proprie azioni e l’impunità porta alla ripetizione dei crimini. Noi siamo una testimonianza vivente di questa realtà. Danny Danon non dovrebbe presiedere una commissione giuridica delle Nazioni Unite, ma dovrebbe sedere in un’aula di tribunale a rispondere dei crimini del suo governo. E prima o poi succederà. Ma bisogna ricordare che ogni minuto in più che passa vuol dire altre sofferenze per i Palestinesi. E la mia mente va di nuovo agli insediamenti, al muro, alle case distrutte, agli alberi sradicati, ai rifugiati, ai prigionieri, al blocco, alla densità e al colore vivido del sangue, che scorre via facendo impallidire i corpi.
https://www.facebook.com/notes/majed-bamya/international-law-the-israeli-ambassador-to-the-un-and-i/1206148712740556
Traduzione di Nara Ronchetti
Majed
Bamya fa parte della delegazione palestinese alle Nazioni Unite. Ha 33
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