David Grossman: Il mio amico Shimon Peres l’uomo che inseguiva il futuro
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DAVID GROSSMAN
Voleva diventare poeta guidò invece Israele tormentato dal sangue
DICIOTTO anni fa, come parte di un programma televisivo sulla sua vita,
Shimon Peres mi propose di accompagnarlo in visita a Vishneva, in
Bielorussia, il suo paese natale. Arrivammo a una modesta casa di
campagna, fatta in gran parte di legno, con un ampio cortile in cui
razzolavano polli. Nonostante ci avessero avvertiti di non bere l’acqua
del pozzo (Chernobyl ha avvelenato il suolo, spiegava la gente del
posto), Peres vi calò un secchio assicurato alla catena, lo tirò su,
versò l’acqua in una tazza di latta e la bevve avidamente. Quella era
l’acqua della sua infanzia. Poi mi raccontò che da bambino era stato
osservante e una volta aveva fracassato la radio perché suo padre
l’aveva accesa di sabato. Gli domandai se suo padre lo avesse mai
picchiato.
«Nessuno mi ha mai picchiato », rispose Peres con una specie di orgoglio.
«Nessuno?», gli chiesi. «Mai? Non hai mai fatto a botte a scuola? Non te le hanno mai date mentre giocavi?» «Mai. Nessuno mi ha mai toccato, e io non ho mai toccato nessuno».
SEGUE A PAGINA 17
Pensai
che come uomo politico Peres era stato attaccato e “massacrato”
un’infinità di volte dai mass media, dai suoi colleghi parlamentari alla
Knesset, e nell’arena pubblica israeliana. Non aveva però mai vissuto
un’esperienza condivisa da quasi tutti i bambini. E forse quella era una
possibile chiave di lettura — una delle tante — per capire la sua
personalità e il suo modo di relazionarsi agli altri. Malgrado il suo
attivismo politico e il suo istintivo e appassionato coinvolgimento
negli intrighi della politica, Peres trasmetteva infatti anche un senso
di distacco e di estraneità alla società israeliana, che sembrava non
averlo accettato del tutto.
«È la fine di un’epoca», hanno detto oggi molti commentatori, e fra loro
anche leader della destra che avevano amareggiato la vita di Peres e lo
avevano deriso per i suoi «deliri di pace». Ma l’epoca di Peres, e del
suo sogno, in realtà, è finita da tempo, a metà degli anni 90, con
l’assassinio di Rabin e, ancora prima, con il fallimento degli accordi
di Oslo che l’allora ministro degli Esteri Peres aveva imbastito alle
spalle del capo del governo, Rabin.
Il fallimento degli accordi e l’ondata di violenza che ne era seguita
avevano suscitato in gran parte degli israeliani la sensazione che il
loro Paese avesse commesso un terribile errore a fidarsi di Arafat e dei
palestinesi. Peres, agli occhi della maggioranza degli israeliani, era
considerato responsabile al pari di Rabin di quell’iniziativa. «I
criminali di Oslo», li chiamavano alle manifestazioni di destra,
proclamando che avevano sulla coscienza la morte di mille israeliani,
vittime degli attentati terroristici seguiti al fallimento degli accordi
(come se, senza quegli accordi, i palestinesi potessero continuare a
vivere sottomessi e in silenzio per l’eternità sotto l’occupazione
israeliana).
L’odio verso Peres, in quegli anni, era forse anche dovuto al fatto che
lui, con il suo eloquio forbito e la rara capacità di risvegliare
speranze e aprire una finestra sul futuro, era riuscito a far credere
agli israeliani (sospettosi e segnati dalle cicatrici delle guerre) che
ci fosse la possibilità di un domani diverso, di pace. Noi,
contrariamente ai nostri istinti, ci eravamo lasciati tentare per un
breve periodo dal miraggio di quel nuovo Medio Oriente che ci aveva
prospettato e avevamo tradito il tragico destino di guerre e sciagure
che ci portiamo inciso nella carne da tempo immemorabile. E quando gli
accordi di Oslo erano falliti, quando la speranza che ci eravamo
concessi di coltivare, anche solo per un attimo, era andata delusa, non
lo avevamo perdonato.
Peres era un uomo proiettato nel futuro. In un Paese sempre più intriso
di narrativa mitologica, religiosa, tribale, lui guardava
all’universale, alla scienza, alla razionalità, alla democrazia della
libera informazione. Si lanciava come una specie di àncora in un futuro
lontano, invisibile, immaginario, utopico e ottimista, verso il quale
poi procedeva con energia. Era profondamente convinto che la fiducia nel
futuro è in grado di generare un’energia che ci permette di superare
gli ostacoli del passato e del presente, di sconfiggere la disperazione e
l’apatia responsabili dello sgretolamento della società israeliana.
Ecco un piccolo esempio di come Shimon Peres ragionava e agiva. «Sono
andato da Putin », mi raccontò non molto tempo fa, quando aveva già
quasi novant’anni, «e gli ho detto: tra un anno, allo scadere dello
storico accordo con la Gran Bretagna e la Francia, l’Egitto perderà il
controllo delle riserve idriche del Nilo. L’Etiopia già ne rivendica il
dominio e c’è pericolo che scoppi una guerra. Potremmo andare insieme da
Morsi (all’epoca presidente dell’Egitto), e dirgli: noi, in Israele,
possediamo le conoscenze e le tecniche per moltiplicare l’acqua del
Nilo! Il fatto è che Morsi a me non darebbe ascolto», proseguì Peres,
«però a lei sì, signor Putin. Ma non presenteremo la nostra proposta
come un’iniziativa di governo. Gli Stati ormai sono fuori moda. La
faremo passare per un progetto imprenditoriale. Al giorno d’oggi sono le
grandi società ad amministrare il mondo…».
Era così che Peres aveva ragionato e lavorato per tutta la vita. Il
presente — sconfortante, fiacco, piatto — era solo un ostacolo
momentaneo al quale non si doveva soccombere. Rinunciare a fare qualcosa
non rappresentava un’opzione per lui. L’inazione di Netanyahu nel
negoziato con i palestinesi lo faceva uscire dai gangheri. Era un
atteggiamento contrario al suo codice genetico. Un codice genetico che
lo spingeva ad andare avanti, a creare, a intraprendere iniziative. Di
tanto in tanto, quando discorrevo con lui, percepivo che ciò che si
celava dietro il suo inesauribile ottimismo era il timore per il
nazionalismo e il fanatismo generati dalla disperazione. Lui sapeva — e
fino all’ultimo non si è rassegnato — che in questa regione si sta
plasmando una realtà tragica per entrambi i popoli, e lui, Peres,
apparteneva alla fazione sconfitta dalla storia.
Peres ha fatto grandi cose, splendide. Ha contributo enormemente alla
sicurezza, all’economia e al progresso scientifico di Israele. Ma ha
fallito nel raggiungere il suo obiettivo principale: la pace tra Israele
e i suoi vicini. Sembrava che nel momento fatidico, quand’era
necessario compiere un passo davvero coraggioso e ineluttabile — lui non
osasse abbastanza, non agisse con la determinazione promessa.
Peres era un uomo pieno di contraddizioni e di contrasti. Da ragazzo
sognava di diventare «pastore e poeta delle stelle», invece era
diventato il leader di una nazione tormentata da guerre e da spargimenti
di sangue. Era un uomo di vasta cultura e dai profondi valori umani ma
sulla cui coscienza pesava la morte di cento rifugiati palestinesi,
colpiti nel 1995 da un bombardamento israeliano sul villaggio di Kfar
Kana, in Libano.
Era un politico che per anni aveva sostenuto gli insediamenti e
rifiutato la soluzione di uno Stato palestinese ma era diventato lo
statista che, più di qualunque altro, incarnava la disponibilità a
raggiungere un compromesso con i palestinesi e l’aspirazione a siglare
con loro la pace. E per quanto fosse privo di remore e manipolatore
nella lotta contro i suoi rivali, era un uomo di grande statura
morale, e questo era impossibile non percepirlo.
Col tempo si potrà cercare di capire meglio la sua figura. Ma forse
erano proprio le qualità che lo rendevano tanto complesso e affascinante
ad avere scoraggiato la maggior parte degli israeliani a sceglierlo
come leader politico. Yitzhak Rabin, avversario di Peres per decenni,
era stato più popolare di lui per gran parte della sua vita, più
accessibile, più decifrabile. L’intricata personalità di Peres non solo
gli aveva impedito di vincere le elezioni ma gli aveva anche negato ciò
che leader meno abili di lui erano in grado di conquistare: l’amore
delle masse.
Peres, infatti, fin dall’inizio della carriera, era stato un personaggio
importante ma non esattamente amato. Non era schietto, comunicativo;
non sapeva parlare al cuore degli israeliani, o, meglio, ai loro
istinti. Per questo i suoi ultimi anni da presidente erano stati tanto
belli per lui. Per la prima volta aveva percepito l’amore della gente,
aveva la sensazione di essersi conquistato un posto nel cuore di chi lo
aveva sempre considerato un visionario, talvolta anche un traditore.
E io lo ricorderò così: una sera, quand’era ancora presidente, gli
telefonai per coinvolgerlo in un’iniziativa che pensavo gli sarebbe
interessata. «Perché al telefono?», disse lui. «Se non hai da fare
perché non vieni a cena? ». Il palazzo presidenziale era quasi
completamente buio e Peres sembrava solo e vecchio tra le giovani
guardie del corpo. Ma quando entrai si raddrizzò, il suo sguardò si
accese, riprese vita. Subito si lanciò in un monologo sulla debolezza
dei governi del mondo, incapaci di risolvere problemi importanti in
campo economico e sui temi della sicurezza e della lotta al terrorismo
Poi mi parlò di un nuovo progetto scientifico del Centro Peres per la
Pace che avrebbe rappresentato «un passo avanti per la medicina». «Tra
poco tutte le medicine ci verranno somministrate con la frutta», disse.
«Analgesici e farmaci
anti aging ». Infine si mise a disquisire di nanotecnologia (uno dei
suoi argomenti preferiti) e dei campi di battaglia del futuro, «in cui
svolazzeranno calabroni elettronici comandati a distanza». Mi raccontò
del «più grande nemico della democrazia nel mondo arabo: i mariti, che
cercano di impedire alle mogli di ottenere l’uguaglianza», e dei cinque
libri che stava leggendo contemporaneamente. Uno era Cinquanta sfumature
di grigio: «Mi ha annoiato. Zero creatività, nessun vero erotismo».
La cena fu frugale, come quelle dei suoi giorni al kibbutz: frittata con
funghi, insalata tagliata fina fina, un po’ di formaggio, pane al
cumino e un bicchiere di vino rosso. Peres parlava e rideva. Mi raccontò
dello storico incontro — al quale era stato presente — tra David Ben
Gurion e Charles de Gaulle. Io lo guardavo. Mi ero affezionato a lui
negli anni in cui avevo avuto il piacere di conoscerlo e lo ammiravo
molto. Erano proprio le sue contraddizioni a renderlo toccante e
commovente ai miei occhi. Avevo pensato: quest’uomo è stato testimone di
quasi un secolo di storia e lui stesso ha lasciato un’impronta. Sono
pochissime le persone che hanno avuto una vita tanto piena ed
emozionante come la sua. Glielo dissi. Lui agitò la mano con noncuranza:
«Sono appena agli inizi», esclamò ridendo. E per un istante sembrò
felice, quasi credesse a ciò che aveva detto.
( Traduzione di Alessandra Shomroni)
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Era convinto che la fiducia nell’avvenire potesse generare un’energia
utile a superare gli ostacoli del passato e del presente Mi disse: “Il
più grande nemico della democrazia nel mondo arabo sono i mariti che
provano a negare l’uguaglianza alle mogli”
FOTO: ©AMMAR AWAD/REUTERS
L’AUTORE
David Grossman, 62 anni, uno degli scrittori israeliani più noti e tradotti nel mondo
Gerusalemme: il dolore di un uomo davanti alla Knesset, il Parlamento
israeliano, dove è stata allestita la camera ardente di Shimon Peres, ex
presidente morto mercoledì all’età di 93 anni
ABU MAZEN PARTECIPA OGGI AL FUNERALE
Da sinistra: Reuven Rivlin, presidente israeliano, Bill Clinton, ex
presidente Usa Bill Clinton e Yuli Edelstein, portavoce della Knesset,
davanti al feretro di Shimon Peres. Oggi al funerale sarà presente anche
il presidente palestinese Abu Mazen
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