Barbara, dalla fisica teorica al progetto per dare la luce a Gaza
Lo
scorso 2 aprile è stata invitata dalla Società europea di fisica a
raccontare il suo progetto. I suoi colleghi internazionali volevano
capire come e cosa aveva mosso questa fisica teorica italiana di 35 anni
che fa ricerca sui nanomateriali all’Università di Vienna a costruire
ed ideare un progetto autofinanziato ed un’associazione per dare
indipendenza energetica ad alcune zone di Gaza. Soprattutto, volevano
capire come creare modelli analoghi di scienza applicata allo sviluppo
sostenibile e quali erano, se esistevano, gli altri progetti che aveva
in cantiere questa piccola associazione autogestita (oggi registrata
come Ong inglese e palestinese) composta da amici fisici e ingegneri
internazionali. Così Barbara Capone, romana, ha raccontato
dell’associazione Sunshine4Palestine,
nata nel 2011, dell’obiettivo di rendere la scienza un ponte per lo
sviluppo e di come con il loro primo progetto, a fine 2014, sono
riusciti ad illuminare l’ospedale di Jenin nella zona di Shijajja (la
struttura offre prestazioni a prezzi ridotti in una delle aree più
povere della striscia di Gaza) con impianti fotovoltaici installati e
progettati da Sunshine che hanno consentito di passare da un’autonomia
di 4 ore a 17 ore al giorno di elettricità, con evidente aumento delle
prestazioni eseguite ad un sempre maggiore numero di pazienti e la
possibilità di avere la prima sala operatoria completamente alimentata
con il fotovoltaico. Immaginate corridoi, reparti, macchinari che
funzionano, laboratori specializzati attivi per 17 ore solo grazie
all’energia del sole (in una zona dove è particolarmente intenso) con un
risparmio evidente da parte dell’ospedale che ha potuto reinvestire
quello che pagava in elettricità, in personale.
Il «nostro» ospedale solare a Jenin
«Tutto è cominciato nel 2011 -
racconta Barbara Capone - dopo la morte di Vittorio Arrigoni. In quel
periodo, insieme ad un amico, avevo messo su una pagina online di
traduzione e diffusione di informazioni sulla situazione nella Striscia
di Gaza, che era particolarmente calda. Le informazioni venivano
tradotte da ogni lingua all’inglese ed erano sottoposte ad un sistema di
controllo di veridicità, indipendente, da parte di persone di fiducia,
abitanti a Gaza. In quel progetto iniziai a collaborare con Haitham, un
ingegnere che vive nella Striscia, che stava prendendo una seconda
laurea in Fisica. Per discutere del lavoro che stavamo portando avanti,
eravamo sempre costretti ad appuntamenti notturni su Skype a causa della
carenza di elettricità nella Striscia durante il giorno. Essendo
entrambi tecnici, iniziammo a discutere di come avremmo potuto tamponare
i problemi energetici a Gaza, e decidemmo di prendere una struttura
pubblica, stimarne i consumi e provare a vedere quanto sarebbe costato
costruire un impianto fotovoltaico che ne avrebbe permesso il
funzionamento. Haitham aveva da poco portato a termine un progetto come
project manager della Welfare Association, una Ong che lavora a Gaza, e
che aveva nel contempo contribuito a costruire parte di un ospedale nel
quartiere di Shijajia, in una delle zone più povere di Gaza City. Ci
rendemmo subito conto di una cosa macroscopica: con il fotovoltaico, il
costo per mantenere aperta la struttura 24 ore al giorno sarebbe stato
inferiore al costo di un qualsiasi macchinario operante nell’ospedale.
Decidemmo di andare più nel dettaglio e facemmo una prima bozza di
impianto modulare, pensando che, se avessimo dovuto raccogliere fondi
per realizzare l’opera, sarebbe stato ideale un sistema installabile un
pezzetto alla volta. Chiedemmo, poi, ad un amico che disegna impianti di
professione di dare un’occhiata al progetto e perfezionarlo; cercammo i
migliori materiali sul mercato che avessero specificità consone alle
necessità di Gaza (ottima produzione energetica, resistenza e durata) ed
iniziammo pian piano ad andare avanti. Coinvolgemmo qualche amico,
provammo a sottoporre il progetto come privati a Ong per vari mesi, dopo
di che, decidemmo di andare per la nostra via ed aprimmo
un'associazione nel Regno Unito, dove alcuni dei membri di S4P
risiedevano. Piano piano iniziammo la raccolta fondi, divenimmo charity,
iniziammo ad organizzare eventi e a fare domande per finanziamenti,
aprimmo una sede in Palestina per poter accedere ai grant
mediorientali». Questa è la storia di come tutto è cominciato.
Quei pezzi attesi come Godot
Nel cammino hanno sposato il progetto
di Sunshine alcuni artisti come Stefano Bollani, Richard Galliano,
Antonio Rezza, i Radiodervish, che hanno prestato la loro arte ad eventi
finalizzati alla raccolta fondi per accendere la luce a Gaza. Due
moduli sono stati installati nell’ospedale; con il terzo modulo si
sarebbe potuto illuminare tutto il quartiere, ma era troppo costoso.
L’ospedale di Jenin funziona ad oggi 17 ore al giorno ed è una delle tre
strutture che riesce a rimanere aperta durante gli attacchi perché ha i
pannelli fotovoltaici che si alimentano con il sole e non dipende dalle
restrizioni israeliane. «Abbiamo fatto costruire gli impianti da
fornitori locali di Gaza ma è stato difficile assemblarli per i blocchi
dei varchi di passaggio da una zona all’altra, per questo chiamavamo i
nostri “pezzi” Godot, perché li aspettavamo sempre molto prima di
vederli arrivare», racconta Barbara Capone.
Esperimenti con i ragazzi
Oggi l’ospedale funziona e Sunshine
sta lavorando ad altri progetti. A febbraio partirà nelle scuole e
all’università di Betlemme il progetto Science4people con il
quale gli scienziati che collaborano con Sunshine vogliono rompere le
barriere grazie alla divulgazione di competenze. L’idea è di formare
alla scienza e ai piccoli esperimenti pratici gli studenti universitari
che poi a loro volta formeranno i bambini di tutto il plesso scolastico
dai 6 ai 18 anni. Quello che impareranno giocando è come fare una
batteria con una patata, come costruire una radio con materiale di
riciclo, come con due bicchieri vedere il filtraggio delle acque. Tutte
“piccole cose” pratiche e funzionali che vogliono dire alla popolazione
di quei territori, spesso rassegnata, che con la scienza si può fare.
Il polo per la scienza applicata allo sviluppo sostenibile
«E
poi – continua Barbara - stiamo cercando, in collaborazione con sette
diverse università europee e con diverse realtà che già operano a Gaza,
di finanziare un nostro progetto per la desalinizzazione dell’acqua,
perché la riserva idrica in questi territori è un altro problema serio
che vogliamo affrontare e che migliorerebbe le condizioni di vita
davvero minime. Sembra sempre che la scienza sia avulsa dalla realtà
contingente e che debba essere applicata a fini commerciali ma non è
così. Io di giorno faccio ricerca e la notte lavoro ai progetti per
l’associazione, perché quello che vogliamo fare è usare la ricerca come
un ponte tra scienza pura e soluzioni pratiche». E in questo senso si
sta lavorando anche a Roma per costruire all’interno di un ambiente
accademico un polo internazionale per la scienza applicata allo sviluppo
sostenibile. Ovviamente Sunshine4Palestine e Barbara Capone saranno
coinvolti.
22 ottobre 2016 (modifica il 23 ottobre 2016 | 07:11)
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Lo
scorso 2 aprile è stata invitata dalla Società europea di fisica a
raccontare il suo progetto. I suoi colleghi internazionali volevano
capire come e cosa aveva mosso…
27esimaora.corriere.it|Di di Geraldine Schwarz
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