Lieberman ai militari d’Israele: basta aiutare i baby rifugiati eritrei
L’esercito prestava soccorso agli asili-deposito. Il ministro: pensate ai nostri anziani
corriere.it|Di Davide Frattini, nostro corrispondente
La
divisa verde militare che i genitori hanno seppellito nel deserto prima
di scappare non rappresenta per questi bambini il colore
dell’oppressione. Vedevano i giovani soldati entrare dai cancelli di
ferro altrimenti chiusi tutto il giorno, sapevano che il loro arrivo
portava in dono risate, attenzione e una gita al parco.
Ogni alba i padri e le madri eritrei lasciano i piccoli in
uno degli 80 appartamenti sparsi nel sud di Tel Aviv, due stanze che i
gestori nigeriani chiamano asili nido e da queste parti tutti conoscono
come i «depositi». I bimbi con meno di sei anni — sono 3 mila, nati in
Israele — ci restano per 10-12 ore, qualcuno anche la notte se i turni
da sguatteri tengono lontani i genitori più a lungo. «Sono ammucchiati
in 50-60, lasciati stesi sul pavimento, non ci sono finestre, d’estate
la temperatura raggiunge i 35-40 gradi. Non è neppure colpa di chi li
amministra: è miseria che genera miseria», racconta Anat Mordechai
mentre distribuisce i giocattoli che ha portato.
È una volontaria dell’organizzazione Elifelet,
che cerca di migliorare le condizioni malsane dei «depositi», dove 15
bambini sono morti dal 2012. Per Anat e gli altri un grande sostegno è
arrivato dalle reclute che i comandanti delle basi qua attorno mandavano
a prendersi cura dei piccoli per qualche ora. L’esercito israeliano
considera questi servizi tra la popolazione parte dell’educazione nei
tre anni (due per le donne) di leva obbligatoria. Al punto che gli asili
semiclandestini sono stati visitati anche da soldati del Sayeret
Matkal, una delle unità speciali più decorate e prestigiose del Paese.
«Adesso siamo rimasti soli», dice Anat.
Perché poche settimane fa Avigdor Lieberman ha telefonato a Gadi
Eisenkot, il capo di Stato Maggiore, e da ministro della Difesa appena
incaricato gli ha comunicato che quei turni di generosità dovevano
finire: «Se i soldati hanno del tempo libero, aiutino gli anziani
sopravvissuti all’Olocausto o i bisognosi israeliani. La carità dovrebbe
cominciare dai compatrioti».
L’oltranzista e nazionalista Lieberman ha reagito alla foto
pubblicata su Facebook da May Golan, attivista di destra con ambizioni
da deputata che ha fondato l’associazione Città Ebraica e vuole
«ripulire» Tel Aviv dagli «infiltrati», come la legge israeliana chiama i
rifugiati eritrei o sudanesi. «Mi sono sentita tradita dall’esercito —
ha scritto —. Così gli ufficiali sembrano timbrare il visto di
approvazione: potete rimanere».
Gli «infiltrati» non vorrebbero rimanere e non ne arrivano più dal
2010, da quando il premier Benjamin Netanyahu ha dato ordine di
costruire la barriera al confine con l’Egitto. Gli eritrei venivano
contrabbandati dai beduini — per loro una merce come un’altra assieme
alla droga — attraverso la penisola del Sinai, marce forzate senz’acqua e
senza cibo per fuggire dalla dittatura che ad Asmara li costringe a
prestare il servizio militare senza data di scadenza. L’Eritrea non è in
guerra ma il presidente Isaias Afwerki sfrutta la propaganda di un
altro possibile conflitto con l’Etiopia per schiavizzare attraverso la
divisa l’intera popolazione.
In Israele sono rimasti bloccati quasi 33 mila eritrei, in 10 mila hanno
richiesto asilo, lo status e i documenti riconosciuti dalle Nazioni
Unite permetterebbero loro di andarsene in un altro Paese. Stanno ancora
aspettando. «Questo Stato è stato anche fondato come rifugio per gli
ebrei contro la violenza antisemita — scrive il quotidiano conservatore Jerusalem Post
—. Così noi dobbiamo aiutare chi scappa dalle persecuzioni. Lasciate
che i soldati vadano da quei bambini». È quello che proclama in pubblico
il presidente Reuven Rivlin ed è quello che sussurra Anat: «I miei
nonni hanno attraversato la stessa sciagura negli anni Quaranta. Come
possiamo dimenticarlo quando sono gli altri a soffrire?».
4 settembre 2016 (modifica il 4 settembre 2016 | 23:24)
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