Ebraismo : Così l'anima delle parole ci svela la storia dell'uomo

E in Puglia la lingua dei Giudei era il «volgare» salentino
di Maria Pia Scaltrito
A volte non ci pensiamo più. Eppure le parole e le lingue attraversano la vita e i millenni come persone viventi. Nascondono un'anima e i suoi segreti. Si incontrano con altre lingue e se ne innamorano persino. Altre volte si avvinghiano e si addolciscono. Alcune lingue e lettere sono madri e così generano parole e mondi. Come nella lingua ebraica. Capace di muoversi dalle altitudini della lingua sacra, servita all'Eterno per costruire il mondo, alle parlate popolari della più varia umanità. Quelle che hanno animato piazze mercati e porti italiani, europei e mediterranei negli ultimi due millenni.
Un proverbio in giudeo romanesco, una canzone in giudeo livornese, un motto ironico in giudeo fiorentino. Così, se attraversando le strade di un antico borgo toscano ci capita di sentire: «Il hamor ci casca una volta», niente stupore. Il hamor è l'asino, ma se persino lui cade una volta sola sulla pietra vuol dire che sbagliare due volte è far peggio del povero ciuco. O se un amico ci dicesse: «Laggiù mai mai fra le Nishkahot», (le nishkahot sono le cose che devono essere dimenticate), oppure «Scìadòc per via da'l tac» (silenzio, ci sono estranei!), siamone certi: la lingua è il giudeo italiano.
«La lingua ebraica e i dialetti»: è il tema della Giornata europea della cultura ebraica 2016. L'appuntamento è per domenica 18 settembre in trentacinque Paesi europei e settantaquattro città italiane, con Milano capofila. In Puglia l'anteprima si apre a Taranto domani, martedì 13 settembre, seguita da Brindisi domenica 18. Nella cornice di concerti, musei, sinagoghe e giudecche potremmo andare alla scoperta dotta dei segreti delle ventidue lettere: quelle che il Sommo incise, intagliò, soppesò, permutò, combinò, invertì. E con esse formò gli spazi divini e l'anima di tutto il creato (quanto deve aver lavorato l'Eterno per farcelo bello). Oppure ci strapperà un sorriso udire: «avere la pìlela 'n corpo» (avere un pensiero gravoso nascosto in giudeo romanesco) ed anche che lo «demùd agùf» ( che gran mangione, con tono compiaciuto, in giudeo veneziano). Sono alcune espressioni che si ascoltano frequentando amici di familiare e antica cultura ebraica. O scorrendo le pagine di una sapidissima e ricca Grammatica storica delle parlate giudeo-italiane (Congedo 2012), composta da Marcello Aprile, dell'Università del Salento. La stessa Università di Lecce dove intorno a Fabrizio Lelli si sviluppano gli studi internazionali di letteratura ebraica. A cominciare dalla Puglia.
Se invece avessimo tra le mani (più probabile sotto gli occhi) la più antica Mishnah al mondo integra, che si trova nella Biblioteca Palatina di Parma, siamo sicuri che scopriremmo almeno due interessanti questioni che ci riguardano. La prima, che è stata composta ad Otranto intorno agli anni '70 del 1000. La seconda, che contiene tra le glosse delle parole in giudeo salentino. O meglio in volgare salentino. La lingua che gli ebrei pugliesi parlavano ogni giorno. Parole scritte con lettere ebraiche, assai «gustose». E dunque potremmo leggervi, tra nomi più dotti, anche kananiklu (cannello), anastùle (lacci) e persino girase (ciliegie)! Ma si sa. A volte ce ne dimentichiamo. Le parole sono i volti i sorrisi le speranze i rifiuti. Sono l'anima di una cultura che spesso si è innamorata di altre culture. Altrettanto spesso se ne è distaccata, esiliata o sconfitta. Chi vuole incontrarla deve entrare dalle sue parole. Vive.
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 12 settembre 2016)

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