Quel trio che non t’aspetti : Putin, Israele, Assad e forse Erdogan


Mentre gli occhi del mondo sono puntati sul sanguinoso assedio di Aleppo, il fronte sud siriano vive un inquietante stato di calma apparente. Secondo quanto riportato dal professor Norman Bailey, membro del consiglio di sicurezza…
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Mentre gli occhi del mondo sono puntati sul sanguinoso assedio di Aleppo, il fronte sud siriano vive un inquietante stato di calma apparente. Secondo quanto riportato dal professor Norman Bailey, membro del consiglio di sicurezza nazionale USA, si sarebbero intensificati i contatti tra il presidente siriano Bashar al-Asad e il primo ministro israeliano Netanyahu con Vladimir Putin a fare da tramite.
Recentemente, poco prima dell’incontro bilaterale russo-israeliano, Assad avrebbe strategicamente richiesto al Cremlino il sostegno (o perlomeno una sorta di non belligeranza) dello stato ebraico nella contesa zona del Golan. Il silenzio dei cannoni di questi giorni fa certamente propendere per questa versione dei fatti. Inoltre Gerusalemme avrebbe solo di che guadagnarci: con un Egitto impegnato a fronteggiare la minaccia Jihadista nel Sinai e una Giordania a guardargli le spalle, la pacificazione nel Golan chiuderebbe il caldissimo fronte siriano, lasciando aperta solo l’eterna contesa con le milizie sciite di Hezbollah in Libano.
Se queste indiscrezioni si rivelassero fondate, le affermazioni rilasciate il 27 Luglio dal segretario della Difesa americano Ashton Carter assumerebbero l’aspetto di un’astuta contromossa americana tesa a contrastare l’inedita alleanza siro-russo-israeliana. Il diplomatico americano ha infatti dichiarato: “Noi intendiamo attivamente ricercare le possibilità di fare pressioni contro l’ISIS (in Siria) da sud, a completamento dei nostri grandi sforzi attuali da nordest. Questo avrà inoltre il vantaggio di aumentare la sicurezza dei nostri partner giordani e di tagliare ancora di più” le linee di comunicazione dei jihadisti tra l’Iraq e la Siria.

Per approfondire: Siria, Putin invia gli spetsnaz



Ovviamente gli americani si guarderanno bene dal mettere i “boots on the ground” e con tutta probabilità lasceranno fare il lavoro sporco a quelle formazioni di ribelli “moderati”, che ormai da diverso tempo sono padroni “de facto” della zona meridionale siriana al confine con la Giordania. Proprio in Giordania nel 2014 gli Stati Uniti riunirono circa 70 gruppi differenti di ribelli “moderati” sotto l’unica sigla di “Fronte Sud” (Southern Front) che mantiene da tempo il controllo della citta e della provincia di Dar’a. A quanto pare la continua inattività e la paga modesta avrebbero spinto almeno 200 miliziani ad abbandonare la formazione a guida USA per unirsi a Jabhat al Nusra (ora Ahrar as-Sham), a guida Saudita che vorrebbe riaccendere il conflitto contro le forze governative anche nel Sud della Siria.
Se questa defezione venisse confermata ci troveremmo davanti ad uno scenario surreale che getterebbe ulteriore caos nell’inferno siriano con gli americani tesi a combattere lo stato islamico lasciando (per il momento) perdere la lotta contro al-Asad e i sauditi protesi verso una lotta senza quartiere al presidente siriano

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Erdogan vola da Putin

La prima visita ufficiale di Recep Tayyip Erdogan in un Paese straniero dopo il tentativo di golpe dello scorso15 luglio, non sarà in un Paese Nato, ma nella Russia di Vladimir Putin. E sarà un incontro destinato ad “aprire una nuova pagina” nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi, secondo quanto ha dichiarato proprio Erdogan, in un’intervista alla Tass. Il primo incontro, dopo mesi di gelo seguiti all’abbattimento del Su-24 russo al confine con la Siria. Il secondo incontro di Erdogan con un capo di Stato, dopo il golpe fallito. Anche se la visita in Turchia del presidente kazako, Nursultan Nazarbayev, che, come rivela il direttore di Hurriyet, Murat Yetkin, avrebbe mediato la riconciliazione diplomatica tra Erdogan e Putin, è stata probabilmente l’ultima tappa del percorso preparatorio proprio all’incontro di oggi a San Pietroburgo.
Il riavvicinamento con Mosca, va di pari passo con l’allontanamento dall’Ue e con la crisi nei rapporti con gli Stati Uniti. Ma che si tratti di un incontro strategico, o solo di un riavvicinamento tattico, ancora non possiamo affermarlo con certezza. Certo è che, dopo la manifestazione oceanica di Istanbul, in cui milioni di turchi hanno applaudito Erdogan e chiesto a gran voce la reintroduzione della pena di morte nel Paese, il percorso dei negoziati di adesione della Turchia all’Ue appare, più che mai, lungo e tortuoso. Parimenti, le relazioni con gli Stati Uniti, hanno raggiunto uno dei punti più bassi, con il rifiuto di Washington di estradare ad Ankara l’imam progressista Fetullah Gulen, accusato dal governo turco di avere organizzato il tentativo di golpe da Oltreoceano. Accuse rispedite più volte al mittente, dal clerico in esilio volontario in Pennsylvania, in queste settimane. Putin, invece, dopo le scuse ricevute dal presidente turco per l’abbattimento del jet di Mosca in ricognizione al confine tra Siria e Turchia, è stato il primo capo di Stato a esprimere il proprio appoggio incondizionato ad Erdogan, durante il tentativo di golpe, auspicando “l’immediato ristabilirsi dell’ordine costituzionale e la stabilità nel paese”.
Certo, scrive il Financial Times, le relazioni tra Turchia e Stati Uniti sono forti, e hanno conosciuto momenti decisamente peggiori, come l’invasione turca di Cipro nord, nel 1974, o il rifiuto del governo turco di far passare attraverso il proprio territorio le truppe americane dirette in Iraq, nel 2003. È impensabile, quindi, che la Turchia, membro della Nato, scelga di chiudere la porta in faccia a Washington, per spalancarla invece, tout-court, a Mosca. Quello che “turba” l’Occidente però, è il fatto che Ankara possa usare la Russia come uno “strumento di pressione” internazionale, in diversi scenari, a partire da quello siriano.
Erdogan, intervistato dalla Tass, non ha esitato, tuttavia, a definire “storica” la sua missione pietroburghese. Destinata ad aprire “una nuova pagina nelle relazioni bilaterali”. “La visita mi appare come una nuova pietra miliare nelle nostre relazioni, ricominciando da una tabula rasa”, ha continuato Erdogan, precisando che ad essere discussa sarà l’implementazione della “collaborazione militare, economica e culturale”. Molti analisti, del resto, sono concordi nell’affermare che l’incontro è destinato ad inaugurare un nuovo corso in politica estera. Sul tavolo dei due leader ci sarà, infatti, come ha fatto sapere il Cremlino, la questione siriana e quella della lotta allo Stato Islamico. Scenari in cui potrebbero vedersi i primi risultati di questo incontro, nel caso in cui la posizione di Ankara risulterà essere “più costruttiva” rispetto alla soluzione della crisi.
Il vero banco di prova di questa riconciliazione, scrive ancora il Financial Times, sarà però quello delle relazioni economiche fra i due Paesi. L’interscambio commerciale tra i due paesi è crollato del 43% dopo le sanzioni imposte da Mosca ad Ankara a seguito dell’abbattimento del jet russo, e il turismo russo nel Paese è diminuito del 93% a giugno 2016, rispetto all’anno precedente. Con il progressivo ritiro delle sanzioni, sul tavolo ci saranno, quindi, come fa sapere in anteprima l’agenzia di stampa turca Anadolu, la ripresa dei progetti energetici, chiusi nel cassetto in questi mesi, a partire dal Turkish Stream, il rilancio del turismo, la ripresa dell’export in campo alimentare e industriale e la discussione di “nuovi investimenti e dell’impegno reciproco per aumentare il volume degli scambi commerciali”. Se la ripresa degli scambi in tutti questi settori sarà reale, la riconciliazione tra Mosca ed Ankara sarà una mossa strategica, e non tattica. Ed è questo che “preoccupa” l’Occidente.

 

Il nuovo asse energetico fra Ankara e Mosca, per il rilancio del “Turkish Stream”




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